Alcune riflessioni sulla “Questione Cecena”
di Mauro Gemma
Era prevedibile che alcuni, a cominciare dai radicali di Pannella,
approfittassero del tragico epilogo dell’attacco terroristico ceceno al teatro
Dubrovka di Mosca, per rilanciare la tesi (cara a settori importanti del
Dipartimento di stato USA) della “guerra di liberazione”, da sempre funzionale
agli interessi di chi, ormai da molti anni, è interessato alla
“balcanizzazione” del conflitto cucasico. Simile lettura della tragedia,
avvenuta nel momento in cui gli Stati Uniti sono impegnati nello sforzo di
allineare gli interlocutori più riottosi alla loro posizione in merito alla
crisi irachena, assume così anche le caratteristiche di uno tra i tanti
strumenti messi al servizio di quei potenti settori dell’elite russa che più
premono sul Cremlino, in grande difficoltà nella gestione della vicenda, perché
assecondi definitivamente i disegni strategici del partner americano (1).
Non era così scontato, invece, che prese di posizione a sostegno del
micronazionalismo ceceno, oggettivamente convergenti con il lucido zelo
“filoimperialista” dei “marines” radicali, echeggiassero anche nella sinistra
alternativa (2).
C’è, in questo approccio, una componente emotiva, giustificata certamente
dall’orrore che i costi umani della guerra creano in qualsiasi persona di buon
senso. Ma è altrettanto vero che essa porta a semplificare ed anche a travisare
i termini reali della “questione cecena”.
Certo, non possiamo non condividere i sentimenti di sdegno e di umana pietà che
i lutti e le distruzioni provocati da una guerra che il regime russo, fin dai
tempi di Eltsin, ha ritenuto essere l’unico metodo in grado di risolvere un
problema che esso stesso aveva creato, strumentalizzando, nella fase del suo
consolidamento, i velleitarismi politici di clan mafiosi ceceni, spesso in
simbiosi con cosche e oligarchie moscovite.
Ma non per questo dobbiamo concludere perentoriamente che ci troviamo di fronte
a una “guerra di liberazione nazionale” dei ceceni e, più in generale, dei
popoli del Caucaso contro la “colonizzazione russa”. Quasi che la situazione,
ai giorni nostri, si presentasse esattamente come ai tempi della rivolta
ottocentesca antizarista dell’Imam Shemil.
Ci dispiace contraddire un senso comune assai diffuso. Ma le cose nell’area
caucasica – ricordiamo, oggetto da sempre delle velleità egemoniche della
Turchia – sono ben più complicate e non riconducibili certo alla
contrapposizione colonizzatori/colonizzati e all’esistenza di una lotta “per
l’indipendenza nazionale”.
Innanzitutto occorre rilevare che – come ha sottolineato un competente studioso
– “contrariamente alle tesi primordialiste dei nazionalisti, nel Caucaso la
formazione di “nazioni” legate ad un territorio dotato degli attributi della
statualità è stata una creazione delle autorità sovietiche”(3). Del resto, ancora oggi, come ai tempi di
Shemil, su base tribale sono organizzate le bande dalle caratteristiche mafiose
che sviluppano la “resistenza” cecena al potere centrale. Tutti i paragoni con
le esperienze più nobili di lotta di liberazione sono assolutamente fuorvianti.
Nessuno storico serio potrebbe negare che, non solo nel resto del Caucaso
compreso nel territorio dell’attuale Federazione Russa, ma (almeno dal 1957 al
1991) anche nella Cecenia stessa, durante i decenni dell’esperienza uscita
dall’Ottobre, tra i popoli autoctoni di confessione islamica, si è avvertito in
modo estremamente marginale un sentimento di ostilità nei confronti del potere
sovietico, e che, al contrario, si è assistito ad un periodo di fioritura
civile e culturale, di impetuosa crescita economica e sociale e di sostanziale
convivenza multietnica, frutto delle conquiste della rivoluzione. Come non
riflettere sul fatto che, ai tempi dell’aggressione nazifascista, quando gli
occupanti cercarono, come era ovvio, di sfruttare le tensioni interetniche, il
tentativo di strumentalizzazione cadde praticamente nel vuoto e tutti i popoli
caucasici (con l’eccezione dei ceceni e delle piccole etnie dei balkari e dei
karaciaj, che pagarono poi con la tragica deportazione staliniana) dettero un
contributo enorme, in linea con quello del resto dell’URSS, alla partecipazione
ad un’eroica resistenza (4). E dopo la guerra,
persino nel periodo di rivolgimenti della “perestrojka”, le manifestazioni di
irredentismo furono molto limitate, dal momento che nella Cecenia stessa si
estrinsecarono nella richiesta avanzata da un piccolo gruppo informale di
rimuovere monumenti di personaggi della storia russa.
C’è poi da aggiungere che non si può non evidenziare che qualcosa è cambiato
anche nella composizione etnica della popolazione della regione, dai lontani
tempi dell’arrivo dei russi e che da lungo tempo il Caucaso rappresenta una
componente fondamentale anche dell’immaginario collettivo russo ed esercita
rilevanti influenze sulla stessa vita culturale russa(5).
La componente etnica russa è oggi parte imprescindibile dell’entità multinazionale
nord caucasica: i russi costituivano, al momento della dissoluzione dell’URSS,
il 68% della popolazione in Adighea, il 42,4% nella Karaciaj-Circassia, il 32%
in Kabardo-Balkaria, il 30% nella Ossezia del Nord, il 25% in Cecenia (prima di
subire gli effetti della “pulizia etnica”) e il 9,2% in Daghestan (dove sono
stati settori della stessa popolazione autoctona ad autorganizzarsi e ad
affiancare l’esercito contro il terrorismo “wahabita”), mentre nelle regioni
settentrionali di Rostov, Krasnodar e Stavropol rappresentavano addirittura
l’86,9%, l’85,1% e il 77,9%. E non va neppure trascurata la presenza di
significative rappresentanze di nazionalità cosiddette “non titolari” (ucraini,
bielorussi, armeni, ebrei, greci, zigani, coreani, tedeschi, ecc.). C’è inoltre
da mettere in rilievo che settori consistenti delle stesse popolazioni
autoctone abbracciano fedi religiose diverse da quella islamica.
Come si vede, ce n’è a sufficienza per temere il dilagare delle indipendenze
artificiali. Solo un irresponsabile può non essere preoccupato delle
conseguenze imprevedibili che la “balcanizzazione” del nord del Caucaso (già
attraversato nella sua parte meridionale, in Georgia, da altri terribili
conflitti) potrebbe comportare. Si pensi solo, quale esempio, cosa accadrebbe
se la maggioranza della popolazione russa dell’Adighea aderisse agli
incitamenti ai “pogrom”, che provengono dalle organizzazioni più estremiste dei
cosacchi.
E’ sulla base di tali considerazioni che i comunisti russi e le componenti del
movimento progressista dello stesso Caucaso hanno definito, negli ultimi anni,
le loro posizioni.
Già alla fine del 1999, nel corso di un significativo “Congresso dei popoli del
Caucaso” (6), veniva affermato che la causa principale dello
scatenamento dei conflitti interetnici, in Cecenia e altrove, andava ricercata
“nella distruzione dell’Unione Sovietica e nella restaurazione del
capitalismo”. “L’inasprimento dei rapporti tra le nazionalità è strettamente
legato alla decadenza dell’economia, alla disoccupazione di massa, al deciso
peggioramento delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione. E’
proprio per questo che i nazional-separatisti, attraverso l’appropriazione del
potere e della proprietà, hanno provocato artificiosamente contraddizioni tra
le nazionalità, scagliandole l’una contro l’altra. E’ un fatto che prima non
avevamo conflitti nazionali, mentre oggi sono all’ordine del giorno. E’ proprio
per questo che la supremazia proclamata della sovranità della Russia sulla
sovranità dell’URSS ha fatto rinascere la vecchia diffidenza delle “periferie”
nei confronti del centro, mentre lo slogan “prendetevi tutta la sovranità che
potete” ha rappresentato un segnale di incoraggiamento per il
nazional-separatismo. Da noi non c’erano pretese territoriali, mentre oggi si
moltiplicano… Da noi non esistevano “allogeni” e “eterodossi”, oggi esistono…
E’ in virtù di questo che dall’esterno si è imposta una linea tendente a
ridurre i legami con la Russia…”.
Nel corso di quell’importante incontro era uno dei dirigenti più competenti in
materia di “questione delle nazionalità”, Nikolaj Bindjukov, tuttora ai vertici
del PCFR, a definire la guerra in Cecenia “una prova generale della
balcanizzazione della Federazione Russa, elemento essenziale nei progetti di
spartizione del mondo nell’era della globalizzazione ed episodio della lotta
tra la NATO ( prima di tutto USA e Turchia) e la Russia per il controllo del
traffico di gran parte del petrolio del Caspio”. L’intervento straniero (anche
nella sua versione “umanitaria”) a sostegno della secessione assume così le
caratteristiche di una vera e propria guerra imperialista. In questo contesto
il micronazionalismo ceceno “fin dalla proclamazione della sovranità” ha
esercitato un ruolo “antisovietico, borghese e criminale”, scatenando “una
lotta senza quartiere per accaparrarsi gran parte del bottino derivante dalla
spartizione della proprietà sociale” e, soprattutto avviando “la collaborazione
con forze imperialiste straniere”. Il fondamentalismo islamico, introdotto
artificiosamente dai clan mafiosi ceceni, è “un alleato consapevole”
dell’imperialismo nei suoi progetti di dominio su quest’area strategica, che
possono essere meglio favoriti dalla disgregazione della grande Federazione
multinazionale.
NOTE
(1) Di questo sembrano essere convinti i dirigenti del PCFR,
come testimonia il parere espresso dal leader del partito Ghennadij Zjuganov,
in una sua recente intervista al settimanale del PdCI: “La pressione verso la
Russia per farle cambiare posizione sulla guerra in Iraq è senz’altro forte, ma
mi auguro che Putin sia irremovibile…Non escludo che le azioni terroristiche in
Russia siano preparate in un posto molto, molto lontano dalla Cecenia, e che si
tratti di azioni operate per costringere Putin ad accettare la guerra contro
l’Iraq. Ma si sappia che, se gli Stati Uniti fossero i padroni del petrolio
iracheno, il prezzo mondiale del petrolio scenderebbe da 25 a 15 dollari e
questo rappresenterebbe la fine della Russia, che vedrebbe crollare il valore
delle sue materie prime…Non penso che il sequestro di Mosca sia stato
organizzato senza complicità. Per trovare la radice del problema bisogna
guardare agli strati politici altolocati di Russia. E degli Stati Uniti.” Ghennadij
Zjuganov. “Putin è ostaggio di una oligarchia. Occorre batterla”. “La Rinascita
della sinistra”, n.41, 1 novembre 2002
(2) Tale
atteggiamento sorprende meno se si considera che, alcuni anni fa, prima
dell’aggressione NATO alla Jugoslavia, settori di sinistra alternativa si
schierarono, senza tentennamenti e successivi ripensamenti, a fianco della
“lotta di liberazione” dei banditi dell’UCK.
Ben consapevoli, al contrario di altri che ben presto hanno dimenticato tutto,
di come stanno oggi le cose in Jugoslavia, ci chiediamo perché adesso alcuni
fautori della “frase di sinistra” alzino grida di sdegno per i “cedimenti” di
Russia e Cina sulla questione irachena, nello stesso momento in cui partecipano
convinti ai cori mediatici diretti dal Pentagono su Cecenia, Sin-Kiang e Tibet.
(3) Cristiano Codagnone,
“Questione nazionale e migrazioni etniche: la Russia e lo spazio
post-sovietico”, Milano 1997.
(4) Pensiamo che, al fine di dare una “ripassata” alla storia
del Caucaso, sarebbe utile e interessante la lettura dei vari passaggi comparsi
sull’argomento nella Storia Universale dell’Accademia delle scienze
dell’URSS (Teti Editore) che alle “aree periferiche” sovietiche ha
dedicato un’attenzione considerevole.
(5) A tal riguardo vorremmo sottolineare che, in questo
momento, nessuno, a meno di voler correre il rischio di essere considerato
insensato, si sentirebbe di sostenere che la lotta per la resurrezione della
“nazione indiana”, invocata da qualche gruppo politico di amerindi, ha il
diritto di mettere in discussione l’integrità territoriale degli Stati Uniti.
Sarebbe interessante conoscere l’opinione di Pannella, a cui probabilmente non
è mai passato per la testa di dover rispondere a un simile quesito. E dire che
di “stranezze” se ne intende!
(6) Il testo
dell’appello approvato dai delegati al “I congresso dei popoli del Caucaso” e
altri documenti sulla questione cecena sono apparsi in “L’Ernesto”, n. 6/1999.La
rivista è ritornata altre volte sull’argomento, anche nelle annate seguenti.