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La Rivoluzione d'Ottobre e gli odierni rimpianti per l'impero zarista

Fabrizio Poggi | Nuova Unità 6/2017 nuovaunita.info

26/11/2017

Si inaugurano sempre nuove targhe e busti agli "eroi" zaristi e ai "paladini" dei 14 Stati stranieri che intervennero nella guerra civile del maggio 1918 con la rivolta in Siberia dei cecoslovacchi bianchi pagati dalla Francia

Lo scorso 10 novembre, Jurij Gorodnenko (emigrato politico ucraino in Russia) scriveva su Svobodnaja Pressa che quasi tutte le pubblicazioni e trasmissioni dedicate al centenario dell'Ottobre hanno lasciato in ombra il suo significato per lo Stato russo. Eppure, notava, nel 1991 la Russia si è dichiarata legale continuatrice dell'URSS e ne ha occupato il seggio all'ONU; ne discende, che la Russia attuale è in continuità con la RSFSR che, proclamata nel gennaio 1918, già nel dicembre 1917 trattava però sia con l'impero germanico che con la Finlandia, evincendosi dunque che l'effettiva data di fondazione fosse il 7 novembre 1917, giorno della Rivoluzione e che la Russia attuale, in continuità con la RSFSR, non abbia alcun legame con l'impero zarista. Nonostante ciò, concludeva Gorodnenko, nessun media ufficiale russo ha parlato del 7 novembre 1917 quale data di inizio dello Stato russo.

La trama che ha accompagnato la maggior parte delle rievocazioni mediatiche è stata però quella – quasi crociana, verrebbe da dire – della congiura straniera e di una "parentesi infernale" nella storia russa, durata 70 anni e fortunatamente chiusa, con il ritorno al posto che loro spetta di tutti i maggiori "eroi" zaristi: da Stolypin, a Witte, fino al "ingiustamente vituperato" Rasputin, vittima di un complotto dell'ambasciata britannica.

Intervistato da Radio Komsomolskaja Pravda, lo storico Aleksandr Kolpakidi ricorda come il generale golpista Lavr Kornilov fosse al soldo degli inglesi. Le "riabilitazioni" non lo hanno ancora toccato; ma c'è ancora tempo: i media ufficiali sproloquiano da anni della "cospirazione" bolscevica e straniera per la disfatta in guerra della Russia. In una serie di documentari che pretendono di tracciare la "Storia autentica della rivoluzione russa", si dice che "giornali e opuscoli clandestini, stampati in Germania e Svezia e rivenduti poi a caro prezzo agli operai russi, costituirono un'enorme fonte di entrata per i bolscevichi", accreditando così la tesi dei "finanziamenti stranieri a Lenin". Peccato che la Pravda fosse di per sé redditizia, non per l'alto prezzo di vendita, ma perché andava a ruba tra gli operai. Stessa cosa per il famoso "oro tedesco", caro alla propaganda occidentale e veicolato ora dai media russi: "nessun documento russo o tedesco, nonostante la teutonica pedanteria a registrare tutto" afferma Kolpakidi, "ha mai testimoniato di quel fantomatico oro". Ma tant'è: il ritornello è quello del "colpo di Stato bolscevico", fomentato da un'ideologia estranea ai sentimenti nazionali, che avrebbe "diviso la società" ed è quindi tempo di riunificarla; è quello di un "impero russo prospero, ai primi posti nel mondo per sviluppo industriale, ricacciato indietro dal golpe comunista"!

Un impero che si stava sviluppando economicamente – è stato raccontato in decine di documentari - al pari e forse più dei maggiori Stati europei e che è stato liquidato da pochi terroristi, estranei alla concordia nazionale. Uno sviluppo, si evita però di dire, in cui gli investimenti russi costituivano appena il 28%, contro il 72% di capitali inglesi, francesi, americani, belgi, tedeschi, svedesi.

Il sociologo Igor Čubajs, ancora su Radio KP, si è detto convinto che se non ci fosse stata la rivoluzione, oggi "l'America ci invidierebbe". Tra le altre farneticazioni, egli rimpiange 5,5 milioni di kmq che, a suo dire, la Russia avrebbe perduto in 70 anni di potere sovietico; rimpiange Costantinopoli e parte della Turchia, che l'impero zarista avrebbe potuto ottenere con la prima guerra mondiale; rimpiange la perdita di Polonia, Finlandia, Ucraina ed è convinto che, in base ai calcoli di Mendeleev, in Russia vivrebbero oggi almeno 600 milioni di persone, governate saggiamente da un discendente di Nikolaj II.

Anche secondo la chiesa ortodossa, l'ideologia comunista fu introdotta in Russia dall'esterno e dunque non si devono definire "rivoluzione russa" gli avvenimenti del 1917, altrimenti tutte le colpe ricadono sulla società russa e questa, "vittima di quegli avvenimenti, viene trasformata in colpevole".

È così che Vladimir Putin parla di "controversi risultati" della Rivoluzione d'Ottobre, dell'intreccio tra "conseguenze negative e positive" e si chiede se "non sarebbe stato possibile uno sviluppo su una strada evolutiva e graduale". E, alla vigilia della festa dell'Unità nazionale (che dal 2005 si celebra il 4 novembre, a ricordo dell'insurrezione contro il dominio polacco nel 1612, mentre il 7 novembre è giorno lavorativo) ha detto di sperare che tale festa venga "percepita dalla nostra società come linea di confine con i drammatici eventi che avevano diviso il paese e il popolo, che essa diverrà il simbolo del superamento di quella divisione e del reciproco perdono". È quindi per il "reciproco perdono", che si inaugurano sempre nuove targhe e busti agli "eroi" zaristi (l'ammiraglio Kolčak, i baroni Mannerheim e Vrangel) e ai "paladini" dei 14 Stati stranieri che intervennero nella guerra civile scatenata nel maggio del 1918 con la rivolta in Siberia dei cecoslovacchi bianchi pagati dalla Francia. L'ultimo, in odine di tempo, il bronzo di quattro metri allo zar Alessandro III - quello che fece impiccare, tra gli altri, anche il fratello di Lenin, Aleksandr; quello delle controriforme assolutistiche - scoperto il 18 novembre a Jalta e che V. Putin ha dedicato a "un insigne uomo di Stato, a un patriota" che ebbe sempre "un grande senso di responsabilità personale" per il destino della Russia.

E se il 4 novembre 1612 rappresenta effettivamente una tappa fondamentale nella storia russa, con la liberazione di Mosca dal giogo polacco-lituano, è però l'ordinanza con cui nel dicembre 2004 Vladimir Putin istituì la festa a mettere la parola fine alla "ferita aperta dai bolscevichi nella società russa", allorché recita che "i combattenti delle milizie popolari condotti da Kozma Minin e Dmitrij Požarskij" liberarono Mosca "mostrando un esempio di eroismo e compattezza di tutto il popolo, indipendentemente da origini, credenze religiose e posizione sociale". Con il che la storia russa può rimettersi in moto all'insegna della concordia nazionale tra quel 70% che campa con redditi al minimo di sopravvivenza e quel centinaio di miliardari i cui patrimoni surclassano il bilancio federale.

È così che nei talk show, quando non si può fare proprio a meno di trattare l'Ottobre, quantomeno come spartiacque storico, non se ne parla più come della Grande Rivoluzione Socialista d'Ottobre, ma appena come un proseguimento della rivoluzione borghese di febbraio. Ed è su questa linea che si è colta l'occasione per trasmettere sul Primo canale televisivo il serial "Trotskij", con l'obiettivo di rendere i protagonisti della Rivoluzione d'Ottobre "personaggetti" da operetta, "demoni", cospiratori finanziati da Stati stranieri, infatuati delle proprie personali brame di dominio, aristocratici villeggianti in lussuosi caffè, esclusivi palchi a teatro, appartamenti nobiliari di Francia, Svizzera, Austria, Inghilterra, i quali, in combutta con inviati degli imperi austriaci e tedeschi, preparano un "tragico destino" all'operoso popolo russo. Le pose e i gesti di Lenin resi in forma a dir poco comica, l'accentuazione smodata del suo rotacismo fonetico, nel film sono studiate apposta per ispirare antipatia, dipingendo un personaggio nevrastenico e sopraffattore, specialmente nei rapporti personali. Così che il capo bolscevico pare una comparsa di secondo piano, accomunato al protagonista principale, Trotskij, da una sfrenata mania di superiorità, ma inferiore a lui per autorevolezza individuale e politica. In una vicenda ridotta a disputa psico-familiare tra snobistici circoli di emigrati, si è pressoché totalmente trascurato l'attore primo della storia, il proletariato russo, e il ruolo del Partito bolscevico è completamente surclassato dalle manie soggettive di singoli psicopatici.

Se i reparti di marinai che respingono il golpe korniloviano somigliano molto a moderni gruppi di black bloc sfasciavetrine, le pose vanagloriose di Trotskij servono a contrapporre la sua "enorme" figura a quella di un ostentatamente "insignificante" Stalin, perfetto picciotto corleonese della più becera commedia italiana, che agisce nell'ombra, alle spalle di un ingenuo Lev Davidovič, la cui tentata avventura golpista del 1927 (ricordate il "Tecnica del colpo di Stato" di Malaparte?) viene naturalmente ignorata. D'altronde, aveva già iniziato Margarita Simonjan, direttrice della "corazzata propagandistica" russa – quella RT accolta come bibbia anche da molta italica sinistra – con il dire come "nel mio organismo si sia formata una resistente allergia a giustificare Stalin".

Evgenij Konjušenko su Svobodnaja Pressa, ha definito il serial "Trotskij" una panzana glamour, il cui scopo era non tanto di ingigantire Trotskij, quanto di degradare il più possibile Lenin e Stalin ed etichettare tutti i rivoluzionari come vampiri sanguinari. In una sequenza di invenzioni, si assicura che leader e genio dell'Ottobre non sarebbe stato Lenin, bensì Trotskij, ma che il secondo lasciò poi generosamente la leadership al primo: una rivisitazione del libro del trotskista americano Max Eastman "Since Lenin died", peraltro smentita dallo stesso Trotskij già nel 1925. Anche nella morte Trotskij ha la parte di primo piano, provocando Jackson-Mercader a ucciderlo. "Trotsky in tutto e dappertutto; la frase che racchiude l'intero film è: La rivoluzione sono io!" nota Konjušenko; "evidentemente, quando Konstantin Ernst (uno dei produttori del film) ricevette da Eltsin la poltrona al Primo canale, accettò la condizione di descrivere la storia sovietica come un'unica sanguinosa tragedia".

Tirando le somme, Aleksandr Batov, segretario moscovita di Rot Front, rammenta con quante speranze, negli anni '90, i comunisti celebrassero il 1917: credevano e speravano di festeggiare il centenario di nuovo nel socialismo e che il capitalismo russo non sarebbe arrivato al 2017. I sovietici erano convinti che il XXI secolo sarebbe stato quello della società comunista universale. Oggi, si stanno aprendo molte "capsule del tempo", con messaggi di speranze e auguri per i sessantenni di oggi: in tutti, c'è la certezza che nel 2017 saremmo vissuti nel comunismo mondiale, senza guerre, fame, miseria. Leggendo quegli auguri, dice Batov, si prova vergogna per il paese e per il popolo: "Non abbiamo custodito il socialismo e siamo precipitati di nuovo nel medioevo e nello zarismo: sono tornati governatori, bojari, gendarmi, popy: e noi siamo lacchè".

Vladimir Putin si è forse assunto il compito di esaudire i rimpianti del sociologo Čubajs su Costantinopoli e l'invidia dell'America.


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