Una “Guerra umanitaria” per il Sudan?
di Marcello Graziosi
Africa e “guerra preventiva”
Nell’attuale contesto internazionale, caratterizzato dalla
crisi del capitalismo nella sua versione globale e dal contemporaneo emergere
di alcuni, grandi paesi in via di sviluppo destinati a modificare in profondità
i rapporti di forza nell’economia mondiale, gli Stati Uniti “riscoprono”
l’Africa. La situazione in America Latina, segnata dal consolidamento
dell’esperienza bolivariana in Venezuela, la sempre maggiore instabilità
mediorientale (dalla resistenza irachena alla vittoria di Ahmadinejad in Iran,
dalle elezioni in Libano alla situazione israelo-palestinese) che complica i
disegni di Bush, le difficili relazioni di Washington con il tradizionale
alleato saudita dopo l’11 settembre 2001 ed il mancato sfondamento in Asia
Centrale, dove la Russia mantiene una propria sfera di influenza e si consolida
l’esperienza del Gruppo di Shanghai, rendono obbligatoria per gli Stati Uniti
la carta del petrolio africano. Nel maggio 2001 il Gruppo d’Iniziativa sulla
Politica Petrolifera Africana ha pubblicato un rapporto (“Petrolio Africano:
una priorità per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti e lo sviluppo
dell’Africa”) dal quale emerge l’assoluta necessità per Washington di
incrementare l’approvvigionamento energetico dai paesi dell’Africa Occidentale,
che potrebbe diventare così uno dei prossimi terreni di applicazione della
“guerra preventiva” di Bush, aprendo una contraddizione di non secondaria
importanza con le mire dell’imperialismo francese, tradizionalmente presente
nell’area, e contendendo alla Cina l’influenza nel continente.
Pechino, dal canto suo, ha la necessità urgente di aprire nuovi canali di approvvigionamento di risorse energetiche in Africa, a sostegno del proprio dirompente sviluppo economico, utilizzando il prestigio acquistato tra i paesi del sud del mondo fin dall’epoca della rivoluzione, e mai venuto meno, grazie anche alla politica terzomondista fin qui perseguita e ad un sistema di relazioni basate non su pressioni ed ingerenze di tipo militare ma sul principio del reciproco rispetto e beneficio. Il rapporto dell’AOPIG, al contrario, suggerisce all’amministrazione Bush la predisposizione di una presenza militare diretta a garanzia della “sicurezza regionale”[i].
Questo il contesto generale nel quale inquadrare, oggi, la crisi del Darfur e del Sudan meridionale.
Quelle del Darfur e del sud Sudan potrebbero essere
considerate le “classiche” crisi di una nazione africana e multietnica, sulle
quali si sono innescati decenni di colonizzazione e penetrazione imperialista,
oltre a mezzo secolo di instabilità successiva all’indipendenza nazionale
(1956). Ciò che sta accadendo in Sudan non è molto dissimile, almeno in linea
di principio, da quanto accaduto nei Balcani, a partire dallo stesso Kosovo[ii].
L’intera nazione (anche se non il Darfur in senso stretto)
è attraversata fin dal VII secolo da una ideale linea di confine tra mondo
arabo-islamico ed Africa nera, cristiana (Axum – Etiopia) ed animista. Tra la
fine dell’800 ed i primi anni del ‘900 i territori oggi appartenenti al Sudan
sono divenuti oggetto delle mire dell’esercito anglo-egiziano, che ha bloccato
l’espansione coloniale sull’asse ovest – est dei francesi. Dal 1924, poi,
quello che era una sorta di “condominio” di occupazione anglo-egiziano si è
trasformato in un vero e proprio sistema coloniale. Nella fase immediatamente
precedente l’indipendenza, i britannici hanno tentato di sfruttare, pur se
indirettamente (“indirect rule”), le contraddizioni etniche per annettere i
territori meridionali sudanesi a quella che era l’Africa Orientale Britannica
(parte del Corno, Uganda e Kenya). Il progetto non è riuscito, ma la
contraddizione tra nord islamico, in grado di esprimere la classe dirigente del
paese, e sud, esacerbata dalla politica coloniale britannica, ha attraversato
l’intera storia del Sudan indipendente, con l’alternanza di momenti di
mediazione e di furiosi scontri militari. Due tentativi importanti di
conciliazione si sono verificati con la Conferenza del 1965, quando a Khartoum
era insediato un governo di unità nazionale (comprendente islamici moderati e
radicali, oltre ai comunisti), e con l’incontro del 1986 tra il primo ministro
Mahdi (Partito Umma, islamico moderato) e Garang, massimo esponente
dell’Esercito Popolare di Liberazione del Sudan (SPLA, fondato nel 1983) ad Addis Abeba. Fasi di aperta
rivolta si sono determinate allorquando all’interno del gruppo dirigente
nordista ha prevalso l’Islam radicale, soprattutto a partire dal 1983,
nell’ultima fase di presidenza Nimeiri, e dopo il colpo di stato del generale
Ahmed al-Beshir, attuale presidente, nel giugno 1989. Ancora una volta la
contraddizione nord – sud è stata strumentalizzata dall’esterno per indebolire
il Sudan e giustificare politiche di potenza e di ingerenza: nel contesto della
Guerra Fredda Stati Uniti ed Israele hanno sostenuto i gruppi armati del sud,
insieme all’Etiopia di Hailè Selassiè, all’Uganda ed al Kenya.
Contemporaneamente, Washington ha sostenuto attivamente le forze islamiche
integraliste a Khartoum, ben sapendo che una loro affermazione avrebbe impedito
qualsiasi processo di reale pacificazione. Ragionando del Fronte Nazionale
Islamico (ex Fratellanza Musulmana, oggi Congresso Nazionale Islamico al
potere), ha scritto Ibrahim al-Nur: “Il sostegno economico americano, saudita e
di altri emirati petroliferi ha favorito la sua ascesa durante le due brevi ma
importanti fasi di transizione alla democrazia nel 1964-69 e nel 1985-89”.
Scenario, questo, che si è ripetuto in Afghanistan –tanto nella fase di lotta
armata contro la presenza sovietica quanto nella fase successiva di ascesa dei
Talebani-, in Palestina e, successivamente, in Cecenia, in Asia Centrale e nei
Balcani[iii].
La vittoria delle forze islamiche radicali a Khartoum ha finito per aggravare ed esasperare anche la crisi del Darfur, territorio del Sudan occidentale interamente abitato da popolazioni musulmane, all’interno del quale però si scontrano, almeno dalla metà degli anni ’80, per il controllo delle sempre più scarse risorse idriche e della terra, tribù arabe nomadi ed altre, più numerose, di etnia Fur, africane e stanziali[iv].
Acqua e petrolio
“Una conseguenza diretta e indesiderata della ricerca del
petrolio è l’intensificazione della guerra civile (…) la corsa al petrolio ha
provocato un’intensificazione senza precedenti della guerra, in funzione del
controllo dei giacimenti. Gli scontri si stanno così estendendo rapidamente
alle zone chiave petrolifere contese nell’Alto Nilo occidentale”[v].
Oltre al petrolio, altrettanto strategico si è rivelato e continua a rivelarsi
il controllo delle sorgenti e del primo tratto del fiume Nilo. La situazione è
degenerata ulteriormente nel corso degli anni ’90, determinando una catastrofe
sul piano umanitario, anche se di proporzioni non superiori ad altre che non
sono mai state e continuano a non essere oggetto di attenzione da parte della comunità
internazionale. Nel sud del paese si affrontano milizie sostenute dal governo
centrale, egemonizzato dalle forze islamiche radicali (non senza
contraddizioni, esplose nel dicembre 2000 con lo scontro tra l’attuale
presidente al-Beshir e l’ideologo al-Turebi) ed i gruppi armati ribelli, divisi
e frammentati ma sostenuti a piene mani dagli Stati Uniti (il Segretario di
Stato Usa Albright ha incontrato per ben due volte Garang in Uganda nel 1997 ed
in Kenya nel 1999). Il SPLA, non secondo ad atrocità rispetto al governo di
Khartoum[vi],
è parte dell’Alleanza Democratica Nazionale sudanese (NDA), una sorta di
cartello delle forze di opposizione costituito nel 1989, insieme a comunisti e
alle forze islamiche moderate, favorevoli ad individuare soluzioni mediate di
autonomia regionale per il sud (comprendente l’utilizzo di parte dei proventi
derivanti dallo sfruttamento delle risorse energetiche). Al contrario, parte
dei gruppi armati del sud rivendica una piena autonomia, la secessione ed il
totale controllo delle risorse.
Quanto accaduto nelle province meridionali si intreccia con
l’aggravarsi della situazione in Darfur. Tra il febbraio ed il marzo 2003 si
sono costituiti tanto il Fronte di Liberazione del Darfur quanto l’Armata di
Liberazione del Sudan (ALS) che, guidata da Abakkar[vii] e
dotata di armi e tecnologie sofisticatissime (lecito chiedersi i soggetti
fornitori), ha lanciato una pesante offensiva contro il governo centrale. Così
come, nel Nord Darfur, era ripresa l’attività del Movimento per la Giustizia e
l’Uguaglianza (MJE), guidato da Khalil Ibrahim, uomo molto vicino a Turebi e,
di conseguenza, dall’inizio del 2000 anch’egli ostile al governo centrale. Dopo
un breve cessate il fuoco sottoscritto tra le parti (non dal MJE) ad Abèchè
(Ciad) nel settembre 2003, il governo di Khartoum è stato in grado di
recuperare sul campo le posizioni perdute. Dal 2001 si è cominciato a parlare
di “pulizia etnica” in Darfur, a senso unico (come se i responsabili fossero da
ricercare solamente tra le milizie arabe ed il governo centrale) e con la
chiara intenzione di favorire l’intervento esterno, esattamente come accaduto
in Kosovo (dove oggi - e non nel 1999 - è in corso la vera pulizia etnica da
parte degli albanesi a danno dei serbi col pieno assenso delle autorità di
occupazione)[viii].
Garang ha sostenuto la causa delle tribù Fur indirettamente e con un basso
profilo, temendo contraccolpi all’interno dell’Alleanza Democratica Nazionale e
non volendo forse favorire eccessivamente disegni secessionisti (anche se, dal
febbraio 2004 e nonostante le perplessità del Presidente Al-Mirgheni, l’ALS,
guidato da Behri ed ancora forte di 10.000 uomini, è divenuto parte della NDA).
Chi sono, è necessario chiedersi a questo punto, i paesi
che maggiormente hanno investito sul settore petrolifero in Sudan? Cina e
Francia. Dal 1995 la China National Petroleum Corporation, società a prevalente
direzione pubblica, ha costruito impianti di esplorazione e raffinazione (nel
2003 oltre 10 milioni di tonnellate di petrolio sudanese hanno raggiunto
Pechino), così come ingenti sono stati gli investimenti da parte di Total Elf –
Fina. Questo elemento può contribuire a chiarire le ragioni reali alla base
dell’internazionalizzazione della crisi.
Nonostante diversi tentativi di cessate il fuoco e di accordi
tra governo centrale, SPLM e MJE (almeno quattro nel corso del solo 2004, con
mediazioni di Ciad ed Etiopia), l’Unione Africana (UA) ha deciso, col consenso
del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, di intervenire direttamente, rischiando di
riprodurre nel Darfur, e più in generale nel sud Sudan, lo stesso scenario del
Kosovo. Nel gennaio 2005 è stato sottoscritto a Nairobi un nuovo accordo, dai
contenuti in parte unitari ma contenente elementi tali di ambivalenza da porre
seriamente a rischio l’unità stessa del Sudan. Da una parte, infatti, l’accordo
ha istituito un governo ed un sistema bancario autonomo per il sud e,
dall’altra, ipotizzato tra sei anni, al termine di un periodo di transizione,
l’organizzazione di un referendum sul futuro della regione[ix].
Modello che potrebbe costituire un pericoloso precedente. Nonostante questo, il
Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha approvato tre risoluzioni che, pur
riaffermando “la sovranità, l’unità, l’indipendenza e l’integrità territoriale
del Sudan”, istituiscono una presenza diretta di 10.000 uomini ed una
commissione di vigilanza, oltre a coinvolgere direttamente la Corte Criminale
Internazionale, suscitando così una dura presa di posizione del Parlamento di
Khartoum[x].
Ad aggravare un quadro già complesso ha contribuito il salto di qualità del
coinvolgimento NATO, con protagonista assoluto il Presidente dell’Unione
Africana, Konarè, già traghettatore del Mali dal non allineamento alla
subalternità all’Occidente e fondatore del Partito Africano per la Solidarietà e
la Giustizia, entrato a far parte dell’Internazionale Socialista dal 1996.
L’uomo giusto, al posto giusto, nel momento giusto. Il 17 maggio Konarè ha
visitato, prima volta per un leader africano, il quartier generale NATO a
Bruxelles, chiedendo, ed ottenendo subito dopo, il sostegno del Consiglio
dell’Alleanza. Il 26 maggio lo stesso Segretario, de Hoop Sheffer, è
intervenuto ad una conferenza internazionale dei donatori tenutasi ad Addis
Abeba confermando piena disponibilità a sostenere, insieme all’UE, la missione
UA. La NATO è chiamata a coordinare il trasporto aereo, addestrare gli
ufficiali e garantire i servizi di intelligence. Nel frattempo, Garang è
divenuto vicepresidente del governo centrale ed ha nominato i 10 governatori
del sud, uno solo dei quali appartiene ai gruppi legati al governo di Khartoum.
La NATO entra così, seppure indirettamente, per la prima volta in Africa. Per essere più precisi, in uno dei cuori del continente nero, col sostegno di USA ed UE. Sarà il Sudan il prossimo teatro di una “guerra umanitaria” per il petrolio e l’egemonia globale?
Gli ultimi avvenimenti (aggiornamento)
Dopo meno di
un mese dalla nomina a vicepresidente del governo centrale, Garang, “uomo delle
molte guerre e dei molti compromessi”[xi], ha
trovato la morte in uno strano incidente aereo, di ritorno dall’Uganda e su un
elicottero ugandese. La reazione dei sostenitori di Garang è stata dura ed ha
infiammato la stessa capitale Khartoum, ma, come giustamente notato da Calchi
Novati si è trattato “più di uno sfogo irrazionale che una reazione politica”:
il successore di Garang alla guida del SPLM, Salva Kiir, si è affrettato ad
escludere il coinvolgimento del governo sudanese ed a confermare l’impegno per
una soluzione pacifica. Nel frattempo, la Casa Bianca ha inviato due propri
rappresentanti in Sudan, uno a Khartoum e l’altro nel sud, a conferma
dell’importanza della posta in palio, mentre Turebi preconizza “l’implosione”
del paese, che andrebbe a tutto vantaggio di chi ha lavorato in questi anni per
l’internazionalizzazione della crisi[xii].
Rimane drammaticamente aperto l’interrogativo posto da Calchi Novati: “C’è
qualcuno, in Sudan o fuori del Sudan, che vuole la posta intera o c’è qualcuno
che preferisce una metà senza
contaminazioni o condivisioni”?
Gli ultimi avvenimenti lasciano, da questo
punto di vista, aperta qualsiasi soluzione. Beshir ha vinto, almeno
momentaneamente, la partita legata al governo provvisorio, riuscendo a
confermare Ahmed al-Jaz, uomo del nord e del Congresso Nazionale, alla guida
del ministero dell’energia e del petrolio, aprendo non poche contraddizioni
all’interno dell’opinione pubblica del sud. Così come in Darfur le fazioni che
si oppongono al governo centrale si sono duramente scontrate con il contingente
“di pace” della forza panafricana.
Si vede avanzare in Africa di nuovo lo spettro del colonialismo in tutte le sue forme e dimensioni, spettro che ha ripreso linfa e vigore non a caso dopo il 1991.
[i] Il rapporto AOPIG si trova (in inglese) sul sito www.iasps.org/strategic/africawhitepaper.pdf
A commento del rapporto, S. Dadoo, “Quando lo Zio Sam chiama l’Africa”; in “Liberazione”, 16 maggio 2003. Riguardo la Cina, si segnala Yi Chen, “The Stampede for Black Gold” (La corsa precipitosa per l’Oro Nero); in “Jeune Afrique – L’Intelligent”, 27 giugno 2004. Oltre a questo, “Oil security: a top priority for China” (Sicurezza Petrolifera: una priorità assoluta per la Cina), rapporto dell’agenzia Xinhuanet del 29 aprile 2004. Interessante anche quanto scrivono T. Fontana, “L’Africa che ce l’ha fatta, una ricchezza per pochi solo grazie al petrolio alle stelle”, in “L’Unità”, 5 luglio 2005 e A. Tricarico, “L’oro nero di Blair”, in “Il Manifesto”, 5 luglio 2005.
A proposito dell’attuale piano di ricolonizzazione del continente africano da parte degli Stati Uniti vale la pena citare alcune parti dell’articolo di Albano Nunes, così come pubblicato su “Avante!”, organo centrale del Partito Comunista Portoghese (n. 1654, 11 agosto 2005): dopo aver confermato le critiche rivolte all’ “Operazione G-8” ed aver ricordato gli attuali fulcri della “resistenza antimperialista”, che stanno determinando una “crisi di nervi” all’imperialismo nord-americano, Nunes sottolinea la necessità di “non distrarsi rispetto ad altre gravi situazioni”, a partire dalla necessità di “attribuire crescente attenzione all’offensiva neo-coloniale sul continente africano, offensiva destinata a svilupparsi in modo particolarmente cinico e con crescenti contorni razzisti”. Subito dopo, l’autore riporta una lunga citazione tratta da un inserto apparso insieme al quotidiano “Público” (30 luglio 2005), dal titolo emblematico “Gli Stati Uniti tentano di scovare Al-Qaeda in Africa”, che di seguito si riporta parzialmente perché utile anche ai fini del nostro lavoro: “Gli Stati Uniti stanno per dare inizio ad un programma di intervento militare, logistico e diplomatico in Africa con l’obiettivo di contenere l’espansione di Al-Qaeda e di altre reti terroristiche. L’amministrazione Bush giustifica la propria presenza militare sul continente come parte della ‘guerra globale contro il terrorismo’, appellandosi a questioni di sicurezza nazionale e di protezione delle fonti alternative di petrolio (…). L’obiettivo è la creazione di una serie di basi militari in collegamento tra loro e dispiegate nelle regioni del Corno d’Africa, Africa Occidentale, Centrale ed Australe (…)”. A tal proposito, Nunes evidenzia quelli che sono i “reali obiettivi della ‘guerra al terrorismo’, trattasi di Bush, di Blair, della NATO o dell’Unione Europea”, criticando poi la collaborazione che il governo socialista portoghese, come il precedente governo di centro-destra, sta fornendo a Washington. L’offensiva statunitense potrebbe dispiegarsi “dal Congo a S. Tomé e Principe (destinata a trasformarsi in una gigantesca base aerea USA), dallo Zimbabwe alla Guinea-Bissau (dove il disegno di cacciare dal potere il PAIGC diviene sempre più sfacciato), al Sudan (dove la morte di John Garang assume sempre più la dimensione di un omicidio politico), a qualsiasi altro paese africano (…)”.
[ii] Il Sudan è il più esteso tra gli stati africani, con la presenza di decine di gruppi etnici e centinaia di lingue e dialetti.
[iii] Ibrahim al-Nur, “Ultimo tango a Khartoum”; in “Le spade dell’Islam”, Quaderni Speciali di Limes, supplemento al n. 4/2001, p. 110.
[iv] Per quanto concerne il conflitto in Darfur si consiglia la lettura dell’articolo di J.L. Peninou, “Désolation au Darfour”; in “Le Monde Diplomatique”, maggio 2004, pp. 16 e 17.
[v] Al-Nur, art. cit., p. 117.
[vi] Si veda, ad esempio, quanto ha scritto Pietro Veronese su “La Repubblica” del 1 agosto 1998 (“Un popolo di scheletri nel Sudan vinto dalla fame”).
[vii] Abakkar ha avuto un ruolo non trascurabile nell’ascesa al potere dell’attuale Presidente del Ciad, Déby, e del Movimento di Salute Patriottica nel 1990.
[viii] Secondo alcune stime, dal febbraio 2003 sono stati oltre 110.000 i rifugiati in Ciad, 700.000 i profughi e gli sfollati rimasti all’interno del Sudan ed oltre 10.000 i morti.
[ix] Sull’accordo è utile leggere quanto dichiarato da Garang in occasione del 22° anniversario del SPLA (Rumbek, 16 maggio 2005), rintracciabile sul sito www.splmtoday.com
[x] Le ultime Risoluzioni approvate dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU sono la 1590 del 24 marzo 2005, la 1591 del 29 marzo e la 1593 del 31 marzo (dal sito www.un.org). La dura presa di posizione del Majlis Watani, parlamento sudanese, si può leggere in inglese sul sito www.sudan-parliament.org
[xi] Questa e le altre citazioni di seguito sono tratte da: G. Calchi Novati, “Sudan senza pace”; in “Il Manifesto”, 3 agosto 2005.
[xii] «Adesso il Sudan rischia l’implosione», intervista rilasciata da Al-Turebi a “Il Manifesto” del 3 agosto 2005.