www.resistenze.org - popoli resistenti - sudan - 24-07-08 - n. 238

da Rebelión - www.rebelion.org/noticia.php?id=70625&titular=la-actualidad-del-conflicto-de-darfur- 
traduzione dallo spagnolo per www.resistenze.org di FR
 
L’attualità del conflitto in Sudan
 
di Txente Rekondo - Ufficio Basco di Analisi Internazionale (GAIN)
 
23/07/08
 
Le accuse di genocidio in Darfur formulate dal Tribunale Penale Internazionale (TPI), che può implicare la persecuzione legale del presidente sudanese, Omar el-Beshir, ha di nuovo messo il paese africano al centro dell’attenzione dei media.
 
Dar Fur significa “la terra dei Fur” in arabo, è composto da diversi gruppi etnici, arabi e non.
 
I Fur, Zaghawa, Masalit, Tunjur e altri hanno abitato quest’area da secoli, alcuni dediti all’agricoltura, altri al nomadismo. Diviso in tre zone etniche, nessuna di queste può essere considerata omogenea dal punto di vista etnico.
 
A differenza del conflitto tra Kartum e il sud del paese, in Darfur i sentimenti o opposizioni religiose non rientrano nei parametri dello scontro, perché entrambe le parti sono sunnite.
 
Per cercare di capire meglio il conflitto attuale è necessario considerarlo dal punto di vista storico, prestando attenzione ad un ventaglio di differenze e avvenimenti che si sono susseguiti negli ultimi decenni.
 
Il processo post-coloniale ha mostrato che il Sudan è stato il prodotto della negoziazione fra le autorità coloniali e determinate élite politiche locali, lasciando a margine importanti comunità ed etnie del paese, soprattutto le popolazioni della periferia come il Darfur.
 
L’accordo non teneva conto né della realtà né delle richieste di questi settori della popolazione emarginata politicamente, economicamente e socialmente.
 
Se il conflitto si dichiara “ufficialmente” all’inizio del 2003, nel Darfur avvenivano scontri armati contro trasporti e strutture governative già negli anni 70’. Il governo centrale avvierà una campagna di “soluzione dei problemi politici”, presentando la situazione come il frutto dell’attività di “brigantaggio” e reprimendo duramente le popolazioni locali, ottenendo in cambio un rifiuto maggiore delle politiche governative.
 
Le voci dei popoli del Darfur che denunciavano l’emarginazione cui erano costretti dal governo di Kartum erano molte, ed ottennero dei servizi sociali di base, infrastrutture e rappresentanza politica nelle istituzioni centrali del paese. Allo stesso tempo, denunciavano il fatto che il conflitto del Sudan non si risolveva semplicemente in uno scontro fra Nord e Sud del paese, ma si trattava dello scontro fra una minoranza elitaria sostenuta socialmente ed economicamente dal governo centrale ed una maggioranza sfruttata e discriminata.
 
Nel 2003, due gruppi dell’opposizione al governo, il Movimento per l’Uguaglianza e la Giustizia (JEM), con una sfumatura islamista, e l’Esercito di Liberazione del Sudan (SLA), laico, approfittando delle circostanze, decidono di avviare l’insurrezione contro Kartum. Il governo reagisce come in passato, negando il carattere politico del conflitto, aumentando la repressione e usando milizie paramilitari locali, Janjaweed, contro i gruppi etnici che appoggiano i ribelli.
 
Gli accordi di pace fra Kartum e lo SLA, nel frattempo raggiunto, puntano ad un’organizzazione dello stato sudanese che continuerà ad emarginare i popoli del Darfur. I pericoli di una nuova emarginazione è evidente, ed il nuovo consenso è una prova che la maggioranza del Darfur continua ad essere ignorata dalla politica ufficiale del paese. Parallelamente, nel Darfur crescono le voci che chiedono la separazione reale, e pianificano la secessione come unica via di uscita dal conflitto.
 
L’intervento del PTI nell’attualità ha segnato un nuovo punto di crisi nel conflitto del Darfur.
 
Alcuni hanno reagito con soddisfazione alla decisione di perseguire legalmente i dirigenti sudanesi (l’opposizione al governo, alcuni dello SPLA e i ribelli del Darfur), altri hanno mostrato le loro riserve a fronte della possibilità che gli scenari futuri siano ancora peggiori. Mentre i sostenitori dell’attuale presidente hanno fatto le loro mosse per mobilitare le loro basi davanti a quello che considerano un’aggressione esterna. La polarizzazione del paese, senza dubbio, è un nuovo pericolo che andrebbe ad aggiungersi ad una situazione già delicata.
 
Molte voci sudanesi, critiche con il governo, hanno dichiarato apertamente che non accetterebbero un cambio di regime sulla base degli interessi stranieri. Il presidente sudanese, da parte sua, è cosciente che il vero pericolo può essere fra i suoi collaboratori. Come è già successo in passato, i cambi golpisti avvengono con una certa assiduità, sicché Omar el-Beshir non si fida di nessuno.
 
Certi analisti, si sono chiesti perché questa decisione proprio ora del TPI, e hanno segnalato la tendenza di alcuni (i media, gli USA, qualche ONG) a speculare spingendo in alto il numero delle vittime di questo conflitto, in funzione di certi interessi o per facilitare l’intervento.
 
Hanno ricordato il caso della Bosnia Herzegovina, dove quegli stessi protagonisti avevano denunciato 300.000 vittime, quando si è poi saputo che in tutta la guerra furono centomila. Quella è stata un’enorme tragedia, ma la speculazione indica che l’obiettivo finale era squilibrare la bilancia in una direzione precisa.
 
Il problema del Darfur è politico, e rappresenta una parte di una crisi più profonda che colpisce il Sudan. L’emarginazione sociale, economica e politica che hanno sopportato gran parte di popoli del Darfur necessita di un dialogo per la ricerca della pace, basata però su una soluzione politica giusta, che elimini le radici del conflitto e metta da parte le armi.
 
La pace non potrà che arrivare dalla giustizia, che ponga fine a questo squilibrio, prima mantenuto dal regime coloniale britannico, e poi dai governi sudanesi.
 
Fino ad ora la politica del “dividi e governa” è stata la strategia centrale dei diversi governanti di Kartum, accompagnata da una impunità repressiva e una certa complicità di qualche potere occidentale. La soluzione più chiara passa attraverso i parametri di negoziato sopra segnalati, altrimenti ci potremmo ritrovare di fronte ad uno scenario che ripeta le atrocità del Rwanda o della Repubblica Democratica del Congo.
 
L’intervento interessato del TPI, unito agli interessi d’alcune potenze occidentali, può far finire il Sudan in un tunnel di violenze, tensioni nel partito governativo (che potrebbe pensare di sostituire l’attuale presidente), una crisi del Governo d’Unità nazionale, la possibile fine degli accordi di pace col SPLA e la ripresa della guerra civile, e l’uscita dei diplomatici e cooperanti stranieri.
 
In definitiva, la crisi umanitaria potrebbe essere incrementata in questo nuovo contesto, alzando il livello di violenza tanto da colpire altri stati vicini al Sudan, dove le forze golpiste potrebbero trovare la scusa adeguata per l’azione diretta.