www.resistenze.org - popoli resistenti - spagna - 18-02-13 - n. 441

Made in Bangladesh: le lavoratrici che sono dietro al "Marchio Spagna"
 
Josefina Martínez | lahaine.org
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
14/2/2013
 
Sabato 26 gennaio 2013 si è verificato l'ennesimo incendio mortale in una fabbrica tessile in Bangladesh. Le fiamme e il fumo hanno causato la morte di 7 lavoratrici. Quattro di loro avevano solamente 17 anni, insieme a decine di ferite.
 
La fabbrica Smart Exports Garments produce capi d'abbigliamento per l'impresa Wonnover Bangladesh e il suo subappaltatore Centex, abituali fornitori del gruppo imprenditoriale spagnolo Inditex, conosciuto nel mondo della moda per il marchio Zara. Nella fabbrica si sono trovate etichette delle marche di vestiti Bershka e Lefties, appartenenti al gruppo. Eppure la società spagnola ha negato ogni relazione lavorativa con la fabbrica dove si è prodotto l'incendio. Cercano di deresponsabilizzarsi della morte delle lavoratrici, barricandosi dietro la "catena di subappaltatori" che operano in Bangladesh per grandi firme europee e nordamericane. Ma è falso che non sapessero quali fossero le terribili condizioni lavorative a cui le lavoratrici che fabbricano le magliette, jerseys, jeans e giacche delle grandi marche come Zara, Bershka o Manico, erano sottoposte. Bassi salari, giornate interminabili di lavoro, precarietà lavorativa, edifici insicuri, assenza di sistemi di sicurezza per prevenire incendi, morti operaie, repressione e tortura. Queste sono alcune delle chiavi del "Made in Bangladesh", l'etichetta che sta dietro il successo del "marchio Spagna" nel mondo.
 
Inditex e il "Marchio Spagna"
 
Secondo un comunicato stampa apparso nel sito web ufficiale di Inditex, il fatturato del gruppo nel 2012 ha raggiunto 11.362 milioni di euro, con un organico di 116.110 dipendenti, un totale di 5.887 negozi ripartiti in 86 mercati. Viene segnalato anche un utile netto di 944 milioni di euro, con una crescita del 32% rispetto lo stesso periodo dell'anno scorso.
 
Nell'ottobre 2012, Zara fu stimata come la prima tra le "migliori marche" spagnole, secondo l'indagine condotta dalla consulente Interbrand. Alcuni mesi prima il vicepresidente del gruppo Inditex, Carlos Spinosa de los Monteros, era stato nominato Alto Delegato del Progetto Marchio Spagna. Questo è un progetto finanziato da grandi imprese spagnole in accordo col Governo, per promuovere le marche spagnole nel mondo ed attrarre investimenti. Ma quale è l'oscuro segreto del successo di alcune di queste imprese spagnole? Quale è la "miracolosa" fonte dei loro guadagni, ancora nel mezzo della crisi capitalista?
 
Come informa il portale di notizie specializzato Modaes.es, Inditex e Mango sono due delle grandi marche di moda che incaricano della loro produzione il Bangladesh. Nel 2011 Inditex, proprietario di Zara, ha affidato la sua produzione a 234 produttori bengalesi mentre Mango ha realizzato in quel paese il 4% della sua produzione. Il Bangladesh occupava nel 2012 la quinta posizione nella classifica dei paesi di origine delle importazioni spagnole in capi d'abbigliamento. In questi quattro anni di crisi si è incrementata l'importazione di prodotti tessili dal Bangladesh nei negozi spagnoli. "L'evoluzione delle importazioni spagnole provenienti dal Bangladesh di tessile, confezioni e calzature tra il 2002 e il 2012 è stata progressiva, benché l'incremento più importante si concentri sugli ultimi quattro anni" (Modaes.es).
 
Negli ultimi decenni le grandi marche hanno costantemente delocalizzato la loro produzione tessile in paesi come Bangladesh, Cina, Tailandia, Marocco, Messico, America Centrale ed altri. È lì che risiede un poderoso "segreto" per i commerci capitalisti: sono alcuni dei paesi con i più bassi salari e le peggiori condizioni di lavoro in tutto il mondo.
 
Lacrime e sangue in Bangladesh
 
Ogni giorno, una donna chiamata Nasima o Amira o Salma, lascia ben presto la sua baracca dei quartieri poveri del Bangladesh per dirigersi al suo lavoro in una delle tante fabbriche tessili. Ogni giorno non sa se ritornerà viva a casa per la notte. L'incendio della fabbrica Smart Exports Garments è solamente un nuovo episodio nella serie permanente di orrori, sfruttamento e morti di lavoratrici nelle fabbriche tessili del Bangladesh. Nel novembre 2012 morirono più di 120 lavoratrici arse vive in un edificio di 9 piani bruciato completamente in pochi minuti. La fabbrica era ubicata nella periferia di Daca, capitale del Bangladesh.
 
"L'estrema precarietà delle fabbriche e officine bengalesi ha convertito l'industria di questo paese in una fonte inesauribile di catastrofi lavorative. Nel 2006, un incendio nella fabbrica Chittagong uccise 50 lavoratrici e lavoratori e ne ferì più di 100. Lo stesso anno, il crollo del Phoenix Building, determinò la morte di 19 persone e oltre 50 feriti ai quali bisognerebbe aggiungere le lavoratrici della fabbrica dell'Imam Group che a seguito di un'esplosione ha sofferto le conseguenze di una fuga disordinata perchè sprovvista di installazioni per questo tipo di emergenze. Questi sono gli ultimi capitoli di una lunga serie che incomincia negli anni '80: 12 morti nell'agosto 2000 nell'incendio di Globe Knitting, 48 morti nel novembre 2000 nell'incendio di Sagar Chowdhury Garment Factory, tra loro 10 bambine e bambini, 24 morti e oltre 100 feriti nell'agosto 2001 alla Macro Sweater, 9 morti e oltre 50 feriti nel maggio 2004 alla Misc Complex..." (Moda: industria e diritti del lavoro. Guida per un consumo critico della moda, Pubblicato da Setem, gennaio 2011).
 
Più di 600 lavoratori hanno perso la vita in questo tipo di incidenti nelle fabbriche bengalesi durante gli ultimi 6 anni (El País, 27/11/12). I lavoratori denunciano che gli incendi sono dovuti ai precari impianti elettrici, all'assenza di misure basilari di sicurezza e all'inadempienza ai protocolli di immagazzinamento industriale. In tali condizioni le fiamme si estendano in pochi minuti in maniera inarrestabile. Dopo l'incendio di novembre 2012 è esplosa l'ira accumulata dei lavoratori che si sono riversati in manifestazioni spontanee nelle strade, ostacolando il traffico, capovolgendo auto aziendali, lanciando pietre contro la polizia e contro le persiane delle fabbriche tessili. Come sempre, la repressione poliziesca è stata l'unica risposta.
 
Salari da fame e lunghi orari di lavoro
 
I salari in Bangladesh sono attualmente tra i più bassi del mondo. Tra il 1994 e il 2006 il salario minimo è rimasto fermo mentre il costo della vita aumentava del 4 o 5% ogni anno. "Solo dopo grandi mobilitazioni, i lavoratori e le lavoratrici riuscirono nel 2006 a ottenere che si passasse da un salario minimo di 900 taka a 1.662,50 taka al mese (24 dollari approssimativamente, circa 16 Euro mensili). L'aumento del prezzo del riso a metà 2008, moltiplicato per due o per tre a seconda della zona, fece che questo incremento fosse assolutamente inutile e generò con forza una nuova ondata di mobilitazioni represse". (Moda: industria e diritti del lavoro. Guida per un consumo critico della moda, Pubblicato da Setem, gennaio 2011). Le donne sono la maggioranza nell'industria tessile del Bangladesh e degli altri paesi. I loro salari sono ancora più bassi per il fatto di essere donne. In una pubblicazione del 2009 si comunicano i risultati di un studio dell'OIL sulle differenze salariali di genere in Bangladesh. La conclusione dello studio è che le donne guadagnano mediamente un -23,2% all'ora che gli uomini (Tessendo salari dignitosi nel mondo Campagna per un Salario Dignitoso in Asia). I bassi salari obbligano le lavoratrici a fare straordinari allungando la giornata lavorativa fino a 10, 12 o più ore per giorno. Abitualmente una lavoratrice esce da casa alle 6 del mattino per ritornare che è già sera.
 
"Nel 2009, una ricerca realizzata in dodici fabbriche tessili del Bangladesh che producono per marche olandesi affermava che il 76,4% delle lavoratrici dichiaravano che gli obiettivi di produzione erano impossibili nell'orario abituale. Molte lavoratrici, non arrivando all'obiettivo giornaliero fissato per l'impresa, si vedono obbligate a continuare a lavorare e uscire molto tardi dal lavoro. La maggioranza delle donne finiscono la giornata tra le 20 e le 22 della notte." (Moda: industria e diritti del lavoro. Guida per un consumo critico della moda, Pubblicato da Setem, gennaio 2011).
 
Quando quelle donne rincasano, le aspettano ancora i compiti di lavoro domestico. In molti casi i bambini piccoli sono affidati alle cure di familiari lontani, perché le donne che lavorano lunghe giornate non hanno possibilità di curarli.
 
(…) La precarietà delle condizioni di lavoro genera il rapido deterioramento della salute delle lavoratrici che non hanno né assicurazione sanitaria, né possibilità di cure adeguate. "Anni di lavoro in ambienti caldi con carenza di ventilazione e di illuminazione; l'esposizione alla polvere e ai prodotti chimici, l'eccesso di ore e una postura inadeguata" (Tessendo salari dignitosi nel mondo Campagna per un Salario Dignitoso in Asia).
 
Una combinazione di abusi, umiliazione e precarie condizioni di lavoro che non hanno niente da invidiare a quelle prime fabbriche capitaliste del secolo XVIII e XIX in Europa.
 
Repressione e persecuzione sindacale
 
Le fabbrichi tessili bengalesi hanno un altro "segreto magico" per i guadagni capitalisti. Ostacolare l'organizzazione sindacale delle lavoratrici. (…)
 
Nell'agosto e settembre 2012 il periodico 'The New York Times', TNYT, ha pubblicato due ampi articoli di ricerca sulle condizioni lavorative nel settore tessile del Bangladesh. L'indagine rende noto che negli ultimi anni sono stati sempre più frequenti le manifestazioni e gli scontri violenti tra lavoratori e polizia per le proteste lavorative. Viene segnalato che in risposta a quella crescente conflittualità sul lavoro, i leader del Bangladesh hanno fatto ricorso alla repressione di Stato per mantenere le fabbriche in attività". Un comitato di alto livello governativo controlla la commissione per l'industria, compresi gli ufficiali dell'esercito, la polizia e le agenzie di intelligence. Queste agenzie di intelligence locali mantengono sotto controllo le organizzatori sindacali. Uno di questi sindacalisti, intensamente sorvegliato,  fermato e minacciato in molte occasioni, Aminul Islam, fu torturato e assassinato nell'aprile del 2012. Questo crimine non è stato risolto, benché sia noto che Aminul fu sequestrato e torturato dalle forze di polizia al servizio delle imprese.
 
L'impunità è totale. Secondo la ricerca del New York Times,  i padroni delle fabbriche tessili fanno investimenti nei grandi mezzi di comunicazione, come nelle sedi parlamentari, un 10% dei parlamentari sono impresari o familiari di essi. In alcune zone industriali esiste uno "stato" dentro lo stato, governato dal Bangladesh Export Processing Zones Authority (Autorità delle zone di produzione ed esportazione del Bangladesh) con le proprie regole. Molte fabbriche hanno assunto militari in pensione come sicurezza privata.
 
La relazione del New York Times racconta gli eventi della fabbrica di tessuti Rosita, dove è stato eletto un comitato rappresentativo di 15 membri nel dicembre 2011. Una denuncia di molestie sessuali ha scatenato 6 settimane di agitazioni sindacali che sono culminate col licenziamento di 300 lavoratori e la detenzione di alcuni dirigenti sindacali. Successivamente uno di questi, il Sig.Uddin, cercò di rientrare in fabbrica, ma fermato da membri in uniforme del battaglione di azione rapida (forza paramilitare creata dal governo) è stato costretto a firmare le dimissioni sotto la minaccia di una pistola.
 
Nel marzo 2012 si sono prodotti nuovi conflitti lavorativi nella regione di Ishwardi. Racconta il cronista del 'The New York Times' su questi eventi:
 
"Centinaia di lavoratori si sono riuniti di fronte alla porta principale della fabbrica in un estemporanea occupazione. Otto lavoratori, intervistati in giugno, dissero che tutti i capi avevano lasciato le fabbriche. Un piccolo contingente di agenti della polizia non tardò ad arrivare ed ordinò a tutti di ritornare al lavoro. Una sarta disse che un ufficiale di polizia la sbattè per terra, colpendola con un bastone fino a farla svenire (…)
 
I lavoratori cominciarono a lanciare pietre, gridando slogan contro la polizia che fuggì. Ore più tardi, dopo che funzionari in Dhaka furono identificati, sopraggiunsero gli ufficiali del Battaglione di Azione Rapida e quelli delle stazioni di polizia dei paraggi. L'ufficiale Hossein, supervisore della polizia, negò che i poliziotti fossero stati i primi a cominciare l'aggressione. Disse che gli ufficiali avevano ricevuto l'informazione che i direttori stranieri erano trattenuti all'interno delle fabbriche e che i lavoratori furiosi stavano realizzando atti di vandalismo sulle attrezzature dell'azienda. "Hanno attaccato la polizia", disse l'ufficiale Hossein. "Hanno cominciato loro". Tre mesi dopo lo scontro in Ishwardi, decine di migliaia di lavoratori furiosi protestarono vicino a Dhaka, esigendo salari più alti e paralizzando le zone industriali più importanti del paese per più di una settimana. Agenti di polizia antisommossa hanno disperso i manifestanti con gas lacrimogeno e pallottole di gomma, mentre decine di persone sono state ferite." (traduzione propria dell'articolo edito in The New York Times, Export Powerhouse Feels Pangs of Lavoro Strife, August 23, 2012)
 
Lotta internazionale delle lavoratrici e dei lavoratori
 
Queste sono le terribili condizioni di sfruttamento e oppressione che si vivono nelle nuove "maquilas" asiatiche, fonti di manodopera economica nelle semi-colonie che producono per le grandi imprese imperialiste. Con la delocalizzazione della produzione dei grandi monopoli, in molte regioni dell'Asia è emersa una nuova classe operaia. Sono milioni di nuovi lavoratori e lavoratrici, dal gran gigante asiatico cinese, ai paesi del sud-est asiatico, Bangladesh e India. Si sommano così nuove forze a quelle della classe operaia internazionale. Le terribili condizioni di lavoro hanno generato negli ultimi anni un clima di crescente conflittualità lavorativa e tentativi di organizzazione a cui risponde la repressione statale e parastatale. Di fronte a questa situazione progrediscono le campagne di differenti organizzazioni sociali, gruppi giovanili e collettivi di donne, che nello Stato spagnolo e altri paesi denunciano le condizioni di lavoro del tessile in Bangladesh e in Asia. Ed è importante contemporaneamente denunciare la precarizzazione crescente che affrontano le lavoratrici dei paesi più ricchi, impiegate dei negozi e nei supermercati come Walmart, Carrefour e le marche di moda. Con la crisi capitalista anche loro possono vedere il degrado giornaliero delle loro condizioni di lavoro e dei loro salari, anche se ancora nella cornice di condizioni di vita superiori rispetto a quelle dei paesi semi-coloniali. Serva da esempio il recente accordo di grandi supermercati firmato dai padroni - Mercadona e El Corte Inglés in testa - e i sindacati amarillos (così chiamati i sindacati asserviti ai padroni ndt) ai quali si impone un duro ribasso salariale per i prossimi anni. È per questo che è necessario stimolare l'unità tra le lavoratrici da un lato e dall'altro della catena di produzione dell'impresa imperialista. Ed esigere che i sindacati dei paesi imperialisti - ora colpiti dalla crisi capitalista - si trasformino in attivi collaboratori dei lavoratori e delle lavoratrici di paesi come il Bangladesh, con campagne per la libertà sindacale, contro la repressione, per l'aumento salariale..., affrontando i propri dirigenti imperialisti e i governi che rappresentano i loro interessi, come nel caso del gruppo Inditex in Spagna.
 
D'altra parte alcuni organizzazioni (come gruppi autonomi ed eco-socialisti) affermano che per uscire dalla crescente delocalizzazione della produzione in paesi con manodopera economica implica scommettere sulla produzione "locale" ed ecologica nei paesi di origine. Ma dentro le cornici del capitalismo, questa realtà non è la via di uscita per milioni di lavoratrici, né in Bangladesh, né nei paesi imperialisti. In primo luogo non è un'uscita realistica, perché le grandi imprese monopolizzano il mercato di produzione e commercio con prezzi economici, ostacolando lo sviluppo di piccoli competitori. Per questo motivo le piccole imprese di carattere "nazionale" o "locale" tendono a sfruttare intensamente i propri lavoratori, con bassi salari e cattive condizioni di lavoro, come forma per potere "competere" con le grandi industrie. E questo si acutizza in momenti di crisi capitalista come quelli che stiamo vivendo. Per questo motivo per esempio in Spagna, le piccole e medie imprese sono quelle che fanno il maggior ricorso a ERE per ridurre i salari e licenziare in mezzo alla crisi.
 
Ma inoltre, che cosa sarebbe successo a quei milioni di lavoratrici se queste grandi imprese semplicemente smettessero di produrre? La soluzione non è lasciarle senza lavoro, bensì lottare per l'espropriazione di quelle grandi imprese sotto il controllo delle stesse lavoratrici, prendendo nelle proprie mani l'organizzazione della produzione. Su piccola scala, ma con un simbolismo enorme, è l'esempio della fabbrica di ceramica Zanon, di Argentina, che lavora da 10 anni sotto il controllo dei propri lavoratori e che mostra la possibilità di una soluzione operaia allo sfruttamento e alla crisi capitalista.
 
Infine è necessario dire chiaramente che non c'è soluzione a questo terribile sfruttamento di milioni di donne e di uomini dentro le cornici del capitalismo. L'unità nella lotta tra le lavoratrici dei paesi semi-coloniali e quelli dei paesi imperialisti, classe operaia complessiva, è il primo passo necessario per affrontare i grandi monopoli capitalisti in tutto il mondo.
 

Resistenze.org     
Sostieni una voce comunista. Sostieni Resistenze.org.
Fai una donazione o iscriviti al Centro di Cultura e Documentazione Popolare.

Support a communist voice. Support Resistenze.org.
Make a donation or join Centro di Cultura e Documentazione Popolare.