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Note sulla nascita dell'apartheid

Accademia delle Scienze dell'URSS | Storia universale vol. XI, Capitolo XIII, Teti Editore, Milano, 1975
Trascrizione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

29/01/2024

Apartheid

Apartheid (letteralmente "separazione") è il termine che definisce la politica di segregazione razziale istituita dal governo di etnia bianca del Sudafrica nel secondo dopoguerra, rimasta in vigore fino al 1993. È stata dichiarata crimine internazionale dalla Convenzione internazionale sull'eliminazione e la repressione del crimine di apartheid adottato dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 3068 (XXVIII) del 30 novembre 1973.

Per la prima volta il termine apartheid fu usato in accezione politica da Jan Smuts, militare afrikaner durante la seconda guerra boera (1899-1902) e poi politico sudafricano, Primo ministro del Sudafrica dal 1919 al 1924 e dal 1939 al 1948. Nel 1917, convinto della superiorità razziale dei coloni provenienti dall'Olanda e dei loro discendenti, coniò il termine apartheid - che divenne un sistema di governo solo dopo la vittoria del Partito Nazionale nel 1948.

In Sudafrica, fin dai primi insediamenti coloniali, i bianchi hanno costituito non più del 9% della popolazione. Denominati afrikaner, erano discendenti di olandesi o originari dell'Inghilterra, questi ultimi più favorevoli a una conciliazione verso i concittadini neri. I principali ideologi dell'apartheid, che erano stati influenzati dal nazismo, furono Daniel François Malan, Johannes Gerhardus Strijdom e Hendrik Frensch Verwoerd. Formalmente affermavano di voler "far crescere in armonia" i vari gruppi etnici con le relative tradizioni; in realtà completarono una vera e propria "architettura" legislativa e poliziesca dell'apartheid.

da https://it.gariwo.net/educazione/approfondimenti/apartheid-9861.html


La crescita delle forze democratiche nell'Unione Sudafricana

Storia universale vol. XI, Capitolo XIII

Il relativamente rapido sviluppo economico del dominion britannico dell'Unione Sud­africana durante il periodo bellico aveva com­portato un notevole incremento del numero degli africani impiegati nell'industria.

Nel 1945 gli africani che lavoravano nell'industria manifatturiera erano 245.500 contro i 156 mila del 1939. Il numero dei minatori africa­ni era ancora più elevate; la maggioranza dei lavoratori africani era costituita tuttavia da giornalieri. Nel 1947-48 l'occupazione nell'industria aumentò di 1/3 rispetto al perio­do prebellico; gli impiegati nell'industria erano un milione e centomila: africani, meticci, indiani e bianchi.

La classe operaia dell'Unio­ne Sudafricana, il paese più sviluppato dell'Africa, costituiva il reparto più consistente del proletariato in questo continente.
Il profilo nazionale, razziale e sociale del pro­letariato era mutato.
L'insufficienza di for­za lavoro aveva permesso a un certo numero di africani, meticci e indiani di passare al lavoro semi-qualificato o qualificato.
Le esi­genze dell'economia bellica non avevano per­messo all'amministrazione di mantenere le popolazioni locali nell'isolamento e le porte delle elite si erano in parte aperte alla gente di colore.
Dal 1936 al 1946 la popolazione di Johannesburg, la seconda città dell'Africa (dopo il Cairo) per densità di popolazione, era cresciuta del 57 per cento.

I rafforzamento delle posizioni delle forze democratiche in campo internazionale durante la seconda guerra mondiale e nel dopoguerra non aveva riflesso sulle posizioni politiche in­terne del paese.
Il governo dell'Unione Sud­africana, costretto a unirsi alla coalizione antihitleriana, non aveva osato appoggiarsi ai razzisti estremisti che nel paese parteggia­vano per il fascismo.
Questo fatto aveva por­tato a un certo indebolimento della barriera razziale nei sindacati, alla nascita di alcune organizzazioni e gruppi sociali che non condi­zionavano l'appartenenza al colore della pelle. Si intensificarono i contatti tra i diversi grup­pi razziali e nazionali dell'Unione Sudafricana e si aprirono alcune brecce, anche se di mo­deste dimensioni, nella politica di segrega­zione.

Durante la guerra era divenuta più intensa l'attività e si era rafforzata l'autorità del Par­tito comunista dell'Africa meridionale, l'uni­co partito politico dell'Unione Sudafricana che lottasse contro tutti i provvedimenti raz­ziali, senza eccezioni.
Le numerose pubbli­cazioni del partito comunista nelle quali ve­nivano presi in esame i problemi all'ordine del giorno avevano notevole diffusione nel paese.
Per la prima volta furono eletti co­munisti nelle amministrazioni cittadine di Johannesburg e di Città del Capo.
Divenne più forte l'influenza del partito nei sindacati professionali.

Ci furono profondi mutamenti anche nel Congresso nazionale africano, l'organizzazio­ne politica più importante della popolazione africana e la più antica tra le organizzazioni africane in tutto il continente.
Dal 1944 la Lega giovanile si era proposta di attivare all'interno del Congresso un orientamento di lotta più combattivo.
Spingeva verso questa direzione tutta la situazione postbellica all'in­terno del paese e oltre i suoi confini.

Una tappa importante nella storia di questa orga­nizzazione fu la conferenza di maggio del 1945 alla quale parteciparono 540 delegati.
La conferenza elesse un Comitato nazionale di lotta contro il sistema dei "permessi" che regolamentavano tutta la vita della popolazione africana.
Furono eletti nel comitato anche i dirigenti del partito comunista e il leader del Congresso indiano sudafricano, l'indiano Joseph Dadu.
La stretta collabora­zione con i comunisti e l'indirizzo interna­zionalista espresso nei confronti degli india­ni era una testimonianza della possibilità di giungere alla formazione di un fronte unico delle forze democratiche del paese.

La lotta contro gli ordinamenti razzisti domi­nanti venne attuata in forme diverse. Gli africani, spontaneamente o in modo orga­nizzato, operarono contro il sistema dei "permessi".
Gli africani delle città, privi di una abitazione, vedendo che era inutile attendersi una soluzione dei loro problemi dall'amministrazione del paese, occuparono le aree libere alla periferia delle città e vi costruirono case di cartone e di legno per trovarvi riparo.

Gli interventi organizzati del proletariato africano furono più efficaci.
Alla conferenza dell'unione dei minatori africani, tenutasi nel 1944, parteciparono 700 delegati in rappre­sentanza di 25 mila lavoratori.
L'unione este­se rapidamente la propria influenza.
A capo dell'organizzazione fu eletto John Marks, un noto leader del partito comunista (successi­vamente ne fu il presidente).

Su proposta dell'unione, nell'agosto del 1946 fu proclamato uno sciopero, il più imponente in tutta la storia dell'Africa. I minatori delle miniere d'oro del Transvaal scioperarono per una settimana per ottenere miglioramenti salariali e un minimo salariale giornaliero di 10 scellini.
Il governo Smuts rispose con la repressione poliziesca. Furono perquisite non solo le sedi dell'Unione dei minatori africani e delle altre organizzazioni sindacali dei lavoratori africani ma anche le sedi del Partito comunista a Johannesburg, Durban, Città del Capo, Port Elisabeth, East London.
Insieme con i dirigenti dell'Unione dei mina­tori africani furono arrestati anche tutti i membri del Comitato centrale del partito comunista e quelli del comitato del partito di Johannesburg.

Come in passato fu nuo­vamente diffusa la voce di un "complotto comunista" e venne orchestrato un processo per "tradimento dello Stato". Il processo durò quasi due anni e fallì per la assoluta mancanza di prove.

Arrivo al potere nell'Unione Sudafricana del Partito nazionalista. L' "apartheid"

La situazione che si era venuta a creare alla fine della seconda guerra mondiale nel Sud­africa come in tutto il mondo suscitava le preoccupazioni dei circoli dirigenti dell'Unio­ne Sudafricana.
Essi temevano che lo svilup­po economico e l'inevitabile intensificarsi dei contatti tra i diversi gruppi razziali e nazio­nali avrebbero fatto barcollare le barriere razziste. Essi temevano infatti che il declino del sistema coloniale in Asia potesse spin­gere gli africani a più energiche azioni anti­governative.
Numerosi avvenimenti e in par­ticolare lo sciopero del Transvaal del 1946 confermavano del resto che la lotta si andava intensificando.

I circoli dirigenti del paese si diedero alla ricerca di mezzi che potessero consentire la liquidazione delle concessioni fatte durante la guerra e si accinsero a creare un regime in grado di reprimere severamente ogni ten­tativo di resistenza. Nell'attuazione di que­sto piano ebbe un ruolo cruciale l'organiz­zazione segreta degli afrikaners estremisti na­zionalisti, nata nel 1918 e chiamata "Bruderbund" (Unione dei fratelli).

Questa or­ganizzazione non venne mai in primo piano ma agiva per mezzo del Partito nazionalista, un'organizzazione legale, al secondo posto in Parlamento per numero di deputati. Nel do­poguerra la maggioranza dei dirigenti del Par­tito nazionalista furono membri del Bruderbund e persino dirigenti di questa organiz­zazione segreta.

Il Partito nazionalista aveva sempre difeso gli interessi dei grossi proprietari terrieri afrikaners ma durante la guerra e nel dopo­guerra la sua base si era estesa soprattutto tra gli esponenti del capitale locale e dell'industria.

L'associazione finanziaria degli afrikaners, sorta all'inizio degli anni '30, la Folkskas (Cassa popolare) cominciò ad ave­re un ruolo notevole nell'economia del paese.

I nazionalisti afrikaners tentarono di sfrutta­re nel proprio interesse l'indeboli­mento delle posizioni della Gran Bretagna dovuto ai risultati della seconda guerra mondiale e che si faceva sentire in molte regioni del mondo e in particolare nella parte meridionale del continente africano.

Si era intensificata an­che la penetrazione del capitale americano e la concorrenza tra i monopoli americani e quelli inglesi aiutava i vertici afrikaners a indebolire il predominio britannico e a in­grandire la propria quota nello sfruttamento dell'A­frica meridionale.

Scopo principale del Bruderbund e del Par­tito nazionalista era quello di rafforzare il regime razzista.

I nazionalisti definirono il proprio programma di azione "apartheid" che nella lingua degli afrikaners (l'afrikaans) significa "isolamento", "sviluppo ed esi­stenza separata".

Il Partito nazionalista si presentò con questo programma alle elezio­ni del maggio 1948. In armonia con la Co­stituzione dell'Unione Sudafricana prendeva­no parte alle elezioni soltanto i bianchi (nel­la regione di Città del Capo erano ammessi al voto pochissimi cittadini di colore e afri­cani che potevano però eleggere soltanto bianchi).

Il Partito nazionalista ebbe meno voti del Partito unificato capeggiato dal ma­resciallo Jan Christian Smuts e che aveva governato il paese per molti anni.

Ma la suddi­visione del paese in circoscrizioni elettorali conferiva maggior peso alle regioni rurali dove i coloni afrikaners davano le loro pre­ferenze ai nazionalisti. La carica di primo ministro fu assegnata a uno dei capi del Par­tito nazionalista e membro del Bruderbund, Daniel Francois Malan.

Nel periodo in cui il Partito nazionalista lot­tava per la conquista del potere l' "apartheid" aveva significato una intensificazione della di­scriminazione razziale e una fascistizzazione del regime politico.

Soltanto successivamen­te, quando il governo era già stato formato, i capi e gli ideologi del Partito nazionalista ne ricercarono una copertura ideologica e ne indicarono le forme concrete di attuazione, il modo in cui in pratica si doveva procedere a un' "esistenza e sviluppo separato".

La tesi fondamentale dell'"apartheid" era quella della inammissibilità della integrazio­ne razziale.

Speculando sui sentimenti reli­giosi degli afrikaners, nella maggioranza cal­vinisti della Chiesa riformata olandese, i na­zionalisti interpretavano la Bibbia da posi­zioni razziste estremiste e in particolare con­dividevano le idea del destino e della pre­destinazione contenuta nell'insegnamento di Calvino. Gli ideologi del partito affermavano che a ogni razza era stato assegnato un certo destino, un particolare cammino evolutivo e un particolare piano di vita.

La forma di vita europea non sarebbe adatta per gli africani e quella africana non sarebbe adatta agli europei.
Ogni razza può svilup­parsi completamente soltanto se segue la strada che le è stata assegnata. L'assimila­zione e ogni violazione della "purezza del sangue" o del modo di vita predestinato rappresenta una deviazione fatale dal cam­mino indicato dalla provvidenza.
La razza bianca, superiore, in questo caso subirebbe una inevitabile degradazione. L'apartheid, cioè l'isolamento razziale, è l'unica soluzione giusta per il problema razziale.

Sviluppando questo genere di assurdità mol­ti seguaci dell'apartheid affermano che il mondo ha il suo specifico itinerario di sviluppo; i frutti della civiltà europea devono essere utilizzati soltanto dagli europei; gli africani possono vivere soltanto conservando i propri ordinamenti "tradizionali" tribali.
La cultura contemporanea e un'istruzione completa devono essere monopolio delta raz­za bianca; l'africano da questa cultura può ricevere soltanto del danno poiché lo allon­tana dalla strada che gli è stata predestinata.

I seguaci dell'apartheid affermavano infine che soltanto isolando i gruppi razziali e ri­ducendo al minimo i contatti tra di loro si può evitare la reciproca ostilità e gli scontri sanguinosi che altrimenti sarebbero inevita­bili e che porterebbero il paese al caos.
Gli ideologi dell'isolamento razziale, proponendo la propria come l'unica teoria in grado di assicurare la pace razziale, accusavano i loro avversari di voler fomentare la guerra tra le razze.

Un'attuazione coerente della teoria dell'apar­theid dovrebbe presupporre il rifiuto di uti­lizzare mano d'opera non bianca.
Tutta l'eco­nomia del paese invece si fonda sul lavoro della gente di colore e in primo luogo su quello degli africani. Ogni anno venivano chiamati nell'Unione Sudafricana da tutti i paesi dell'Africa meridionale, orientale e cen­trale centinaia di migliaia di africani soprat­tutto per lavorare nelle miniere del Tran­svaal.

I nazionalisti non poterono non com­prendere che tutta l'economia del paese si fondava sul lavoro degli africani; in uno dei suoi primi discorsi Malan, quale capo del go­verno, esprimeva l'intenzione ufficiale di non privare l'industria del paese della mano d'ope­ra africana.

L'apartheid fin dall'inizio non si­gnificò quindi un isolamento completo degli africani ma il consolidamento dei rapporti di dipendenza dei non bianchi e in primo luogo degli africani, un rapporto di subordinazione che ne consente ogni tipo di sfruttamento.

L'apartheid non può essere considerato un fe­nomeno nuovo per l'Unione Sudafricana. La politica di segregazione è stata attuata da tempi immemorabili sia dagli inglesi sia dai boeri.

L'apartheid però è alla base di provvedimenti razzisti e antidemocratici di tipo fascista. Il consolidamento del dominio sulla popolazione africana è lo scopo più importante del Partito nazionalista, ma non l'unico. Frutto dell'attività ideologica del Bruderbund, l'apar­theid è strettamente legato all'idea che quello degli afrikaners è il "popolo eletto".

Secon­do l'ideologia del Bruderbund la popolazione del paese può essere vista come una piramide: al vertice ci sono gli afrikaners, subito sotto troviamo gli altri bianchi (inglesi, tedeschi), seguono poi gli ebrei, i meticci e gli indiani; alla base della piramide ci sono i milioni di africani.

Alla costruzione di questa piramide è diretto l'apartheid ma anche la richiesta del Bruderbund di una completa indipendenza dalla Gran Bretagna e di una completa ristruttu­razione della vita sociale nello spirito del "na­zionalismo cristiano afrikaners".

L'associazio­ne del razzismo segregazionista con la reazione e l'antidemocrazia viene in luce anche nella persecuzione alla quale sono sottoposti tutti coloro che si oppongono alla discriminazione razziale.


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