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da Oltre Confine n.35 - Dipartimento Esteri del PdCI - www.comunisti-italiani.it - download
 
Tunisia: la piccola debacle del presidente autoritario Ben Ali
 
di Maurizio Musolino, Dip. Esteri PdCI
 
Cinque milioni di persone hanno votato domenica 25 ottobre in Tunisia per le elezioni presidenziali e legislative. Nei paesi ai quali una non meglio precisata legalità internazionale assegna la patente di democratici questo è un momento fondamentale della vita politica e sociale, in altri, quei paesi che invece che non sono ritenuti democratici, spesso le elezioni non hanno luogo, perché il potere non necessita del sostegno popolare.
 
C’è però una terza possibilità, quella di un Paese ritenuto democratico pur palesemente in contrasto con qualsiasi principio di pluralismo e libertà, che fa delle elezioni un momento saliente del castello di falsità e menzogne su cui si regge. Questo è il caso della Tunisia.
 
Accettata questa premessa in risultato delle elezioni presidenziali in Tunisia della settimana scorsa ha riservato una “sorpresa”: per la prima volta in quasi 25 anni il partito del presidente della repubblica non ha superato il 90%; una piccola debacle per il Partito desturiano che fino ad oggi aveva potuto vantare percentuali vicinissime al cento per cento, numeri che dicono tutto sul grado di democrazia presente nello stato “amico” d’oltremare.
 
E così con una piccola percentuale di scarto rispetto a quanto pronosticato durante la campagna elettorale, la Tunisia riconferma Zine Al Abidine Ben Ali alla sua guida. Poco conosciuti alle grandi masse, infatti, gli altri quattro candidati si sono dovuti spartire un esiguo dieci per cento.
 
A Ben Alì, che presiede l’Unione Democratica Costituzionale (partito desturiano) si sono opposti Mohammed Bouchiha, del Partito di Unità Popolare, Mounir el Beji del Partito Liberale Sociale e Mohammed Alì Halouani del movimento Ettajdid.
 
Alle elezioni – come nelle precedenti tornate – si era arrivati dopo che ancora una volta la repressione del governo aveva pesantemente fatto sentire il suo peso. Ridotte al silenzio le forze dell’opposizione democratica e debellate quelle religiose il campo sembrava libero. Eppure questa volta qualcosa deve aver funzionato meno bene del solito nel modello di “democrazia” tunisina. Non è bastato infatti impedire al Partito comunista di svolgere una seppur minima attività impedire la campagna elettorale ai candidati indipendenti o escludere le liste del Partito progressista democratico da ben 17 distretti elettorali.
 
Una vittoria schiacciante eppure in un qualche modo deludente. Ma al di là dell’ironico commento sul risultato delle elezioni del 24 ottobre, la vera sorpresa, che non dovrebbe smettere mai di indignare qualsiasi sincero democratico, è il silenzio che avvolge lo stato tunisino. Nessun commento da parte dei rappresentanti parlamentari, siano questi di maggioranza che di opposizione, solo silenzio.
 
Un silenzio sicuramente giustificato dal fatto che Bel Alì, ieri grande amico di Craxi e oggi “fratello” di Berlusconi ha in questi anni incarnato alla perfezione l’esempio di statista arabo “amico”: alleato dell’Occidente, condiscendente verso i poteri forti economici e politici, timidamente aperto verso riforme sociali, ma durissimo contro qualsiasi opposizione. La Tunisia, insieme all’Egitto, Marocco, Arabia saudita e altri fa parte dei Paesi arabi è considerato fra i cosiddetti “moderati”, un termine che nella realtà indica solo la loro sottomissione ai voleri statunitensi e alle politiche neocoloniali che prima Bush e oggi Obama praticano. Pezzi del puzzle che compone quel grande Medioriente, che dal Marocco all’Iraq dovrebbe rappresentare una area strategica omogenea agli interessi geopolitica ed economici degli Usa e solo in parte dell’Europa. Su questo altare tutti si mostrano disponibili a sacrificare i diritti umani, chiudendosi orecchie, occhi e bocca di fronte alle torture e alle persecuzioni che quotidianamente colpiscono qualsiasi forma di voce dissenziente. E se la motivazione reale sono gli interessi economici e politici sopra detti, quella di facciata è la lotta all’integralismo religioso. E con questo binomio si trovano a dover fare i conti la sinistra e più in generale lo schieramento progressista.
 
La Tunisia, quindi, pur cercando di presentarsi come paese a forte spinta democratica moderna (si pensi alle politiche messe in atto a tutela delle donne, e alle politiche economiche e demografiche positive), nasconde molti lati oscuri: ad iniziare dall'onnipresenza della polizia legata al presidente da un giuramento di fedeltà personale, una libertà di espressione quasi inesistente, oppositori politici incarcerati e picchiati a morte. La stampa è ridotta al silenzio, tanti i nomi dei direttori di giornali finiti nelle patrie galere. A questo proposito puntuali le denuncie avanzate in più occasioni da Reporter sans Frontiere (associazione francese che difende la libertà di stampa), la Federazione Internazionale dei Giornalisti , una specie di sindacato mondiale di categoria, e il Comitato per la protezione dei giornalisti che ha sede negli Stati Uniti.
 
Ma ritornando alle recenti elezioni merita una citazione la repressione di cui è stato vittima il Partito Comunista degli Operai di Tunisia. Il portavoce di questo partito, Hamma Hammami, e sua moglie, Radhia Nasraoui, sono stati perseguitati dal Governo di Ben Ali. Alcuni dati: al loro ritorno da Parigi il 29 settembre scorso, dove avevano rilasciato un'intervista ad “Al Jazeera” e a “France 24”, sono stati brutalmente picchiati all'interno dell'aeroporto tunisino. I due inoltre sono stati privati dei passaporti ed è stato proibito loro di spostarsi. Un ulteriore esempio di democrazia in salsa occidentale.