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Neo-ottomanesimo, l'economia politica della Turchia contemporanea

Kemal Okuyan* | morningstaronline.co.uk
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

20/01/2020

Il dirigente comunista turco Kemal Okuyan spiega il contesto dietro l'invio di truppe turche in Libia e le nuove rivendicazioni della Turchia sulle risorse minerarie nel Mediterraneo orientale

Dopo il fallimento in Siria, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è impegnato nello sviluppo di una seconda versione del suo progetto neo-ottomano, introdotto per la prima volta nell'agenda politica verso la seconda metà dei primi anni Duemila.

Non v'è dubbio che la politica neo-ottomana di espansionismo territoriale ed economico sia un prodotto della politica e dell'ideologia di Erdogan e del suo partito.

La Repubblica di Turchia, fondata a seguito di una rivoluzione borghese sotto la guida di Mustafa Kemal 100 anni fa, non è mai stata veramente accettata dalle forze islamiste associate a Erdogan.

Tuttavia, la politica estera espansionista della Turchia su una vasta regione non può essere spiegata solo con i riflessi islamisti.

Se non coincidesse con le esigenze della classe capitalista turca, il neo-ottomanesimo di Erdogan sarebbe condannato a restare una tendenza marginale.

Se vogliamo dare un senso alla politica estera della Turchia, paese fino a poco tempo fa visto come alleato fedele degli Stati Uniti che prendeva iniziative esclusivamente su questioni che rispettavano i centri imperialisti occidentali, dobbiamo prima guardare agli sviluppi all'interno del sistema imperialista.

Gli Stati Uniti hanno da tempo difficoltà a sostenere il loro ruolo egemone all'interno della gerarchia imperialista.

Un risultato importante di ciò è l'indebolimento del sistema di alleanze di cui gli Stati Uniti costituiscono il centro, oggi sempre più ingestibile.

Le sfide che gli Stati Uniti affrontano oggi non sono semplicemente la crescente influenza economica della Repubblica Popolare Cinese o la crescente influenza politico-militare della Russia.

I paesi visti fino a poco tempo fa come stretti alleati degli Stati Uniti hanno iniziato ad adottare un raggio d'azione più ampio. Differenti approcci politici e militari all'interno della NATO si sono resi visibili.

Tutti questi sviluppi sono coerenti con la logica dell'imperialismo. Lo sviluppo diseguale e la competizione sempre più intensa, che alla fine si trasforma in conflitto, non sorprendono in un mondo dominato dai monopoli.

Mentre il sistema imperialista viene scosso dal basso verso l'alto, tutti gli attori prendono parte alla lotta per ottenere quote maggiori in proporzione alla loro potenza.

Sarebbe assurdo aspettarsi che il capitalismo turco, ora che ha raggiunto un livello significativo di sviluppo nonostante le sue fragili caratteristiche, si sottragga da questa lotta.

Inoltre, la borghesia turca ha capito che né gli Stati Uniti, né l'Unione europea, sono in grado di offrire loro un'alternativa di crescita stabile.

"Stabilità" è l'ultima parola che potrebbe descrivere ciò che sta accadendo in questi giorni a Washington, Londra, Parigi e Berlino.

In questo contesto non ha senso affermare che la Turchia si stia allontanando dalla NATO per stabilirsi sull'asse Russia-Cina. La classe dirigente turca è diventata più aperta alla trattativa e assume una posizione relativamente libera e decisa quando le condizioni sono favorevoli.

Tuttavia, per ora, è fuori discussione che questo processo stia portando la Turchia a staccarsi dall'alleanza NATO.

Al contrario, la borghesia turca vuole sia "risposare" gli Stati Uniti che la Germania sotto condizioni diverse e mantenere l'ampia libertà di azione di cui gode oggi. Questo approccio è compatibile con la realtà dell'imperialismo del momento.

Per questo motivo dobbiamo chiederci fino a che punto il progetto neo-ottomano possa soddisfare le ambizioni del capitalismo turco.

L'economia turca sotto il partito AKP di Erdogan è cresciuta a seguito del saccheggio illecito di imprese statali, città, natura, fiumi, miniere, della liberazione di spazio per i monopoli internazionali attraverso l'adozione di ogni sorta di incentivi, insieme alla demolizione del potere contrattuale della classe operaia e a un tasso di indebitamento assurdo.

Automobili e costruzioni sono diventati i principali settori economici. Molte altre industrie sono crollate. A livello agricolo, la Turchia non è più un paese autosufficiente. I monopoli alimentari fanno grandi profitti mentre i piccoli produttori cadono tragicamente in rovina. L'economia, scossa dalla disoccupazione, dal debito estero e interno e dagli alti tassi di inflazione, ha una struttura fragile, specialmente nel settore finanziario.

Per queste ragioni soltanto e solo considerando questi criteri economici, si può vedere come il neo-ottomanesimo turco abbia seri limiti.

Quando si aggiunge che quasi tutti gli attori importanti hanno gli occhi puntati sulla regione, che la Turchia non è il più rispettabile tra i paesi arabi, che esiste una seria opposizione in Turchia al neo-ottomanesimo e che una parte della classe capitalista vuole che l'AKP di Erdogan segua una politica estera meno rischiosa, si può vedere quanto sia difficile per Erdogan continuare il suo gioco risoluto.

Tuttavia, non bisogna trascurare il fatto che il capitalismo turco abbia dei vantaggi. In confronto con i paesi europei, la Turchia ha una popolazione più giovane.

Di questa, coloro con istruzione secondaria e universitaria costituiscono gli strati più disorganizzati. Con la perdita dei diritti sindacali e collettivi, questo serbatoio di forza lavoro istruita crea un enorme potere competitivo per i capitalisti.

Il fondamentalismo religioso, usato per controllare le masse in politica interna, è influente anche come strumento di politica estera.

Ultimamente la Turchia si è unita alla lotta per l'egemonia nel mondo islamico tra Iran e Arabia Saudita. L'iniziativa sviluppata da Erdogan insieme a Pakistan e Malesia, non dovrebbe essere sottovalutata.

Questi tre paesi influenzano la popolazione musulmana in Indonesia e India attraverso canali economici, politici e culturali.

Si aggiunga la presenza della Turchia nei Balcani, nel Caucaso e in Somalia e i milioni che potrebbe dirigere attraverso le organizzazioni delle moschee in Europa e in particolare in Germania, e potremo apprezzare la portata della rete di influenza nel mondo islamico.

Inoltre, le relazioni complesse e segrete della Turchia con i paesi ricchi di petrolio, in particolare il Qatar, offrono significative opportunità economiche.

La Turchia possiede anche uno dei più grandi eserciti della regione, destina grandi risorse alla sua fiorente industria della difesa, diventando uno dei pochi paesi ad avere la capacità di organizzare operazioni militari e di intelligence all'estero. Erdogan non sta semplicemente parlando a vanvera.

La politica estera di Erdogan è flessibile, pragmatica e opportunista, spesso cambia di giorno in giorno e non ha principi.

È alla luce di tutti questi fattori che va analizzata la decisione della Turchia di inviare le proprie truppe in Libia. Erdogan non può permettersi una guerra che possa scuotere seriamente il suo potere. Non ha le risorse militari e politiche necessarie.

Tuttavia è consapevole che, nella lotta per una quota delle risorse energetiche nel Mediterraneo orientale, deve fare nuove mosse per aumentare il suo potere contrattuale.

Per questo motivo, ha scelto di inviare alcuni dei militanti islamisti reclutati dalla Siria, alcuni ufficiali dell'intelligence e un numero limitato di forze speciali e consiglieri militari in Libia.

I suoi calcoli in Libia sono diversi da quelli in Siria. Lì Erdogan sta cercando una presenza permanente usando il pretesto delle preoccupazioni per la sicurezza create dalla presenza curda.

È anche possibile che Erdogan possa sospendere la sua cooperazione con la Russia e cercare una maggiore cooperazione con gli Stati Uniti.

Quando si tratta di Siria, sebbene sia vero che i sogni di cinque anni fa sono crollati, la Turchia ha ancora un raggio d'azione molto ampio.

In Libia, d'altra parte, la Turchia cerca di agganciare la lotta per una quota del Mediterraneo orientale. Al momento non ha una posizione forte.

Ma che il capitalismo turco adotti una politica estera più cauta o una più aggressiva, esso resta una minaccia per tutti i popoli della regione, a cominciare dai lavoratori della Turchia.

Proprio come in qualsiasi altro paese capitalista, non esiste lo "sfruttamento buono". Per questo motivo, il movimento rivoluzionario turco ha la responsabilità di trasformare la Turchia, un paese che ora esercita un'enorme influenza regionale, in un paese in cui l'uguaglianza e la libertà prevalgano.

*) Kemal Okuyan è Segretario generale del Partito Comunista di Turghia (TKP).


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