www.resistenze.org - popoli resistenti - ungheria - 22-10-03

Ungheria: alternanza senza alternativa


Di Marcello Graziosi

Insieme alla Polonia, l’Ungheria si è rivelata uno dei cosiddetti “anelli deboli” del blocco socialista sorto al termine del secondo conflitto mondiale. Strangolato dalla morsa del debito con le banche occidentali a partire dai primi anni ’70, nel 1982 il governo di Budapest è costretto a ricorrere al FMI, data anche la dipendenza dalle importazioni di tecnologie avanzate che gli impedivano di non riconoscere il debito, salito a 19-20 miliardi di dollari alla fine del 1988. L’imposizione di una serie di riforme economiche assai più favorevoli agli interessi del capitalismo occidentale che del paese andava di pari passo con la penetrazione imperialista, guidata dal finanziere Soros, e con la destabilizzazione politica del paese, agevolata dai circoli riformisti interni al Partito Socialista Operaio Ungherese. Gli stessi che, guidati dal primo ministro Nèmeth e dal ministro degli esteri Horn, imposero il cambio del nome al partito (Partito Socialista Ungherese) ai primi di ottobre del 1989, sostenendo la necessità di abbattere e non riformare il sistema socialista.

La terapia d’urto per introdurre un’economia di mercato su basi capitalistiche e per collocare l’Ungheria nel contesto euroatlantico è stata garantita dal governo Antall (1990-1993), sostenuto dal Forum Democratico Ungherese in coalizione con i Cristiano-Democratici ed il Partito dei Piccoli Proprietari, in rappresentanza della piccola e media borghesia agraria. I costi sociali sono stati enormi, dal calo costante della produzione nei diversi settori dell’economia ad una disoccupazione e ad un impoverimento di massa. Un balzo indietro che ha determinato e, soprattutto, continua a determinare la totale dipendenza dell’Ungheria dalle potenze imperialiste, a partire soprattutto da Germania e (oggi) Stati Uniti.

Morto Antall alla fine del 1993, alle successive elezioni del maggio 1994, come reazione alle riforme, si è affermata la coalizione composta da PSU ed Alleanza dei Liberi Democratici (primo cartello delle forze di opposizione costituitosi nel maggio 1988). A questo appuntamento elettorale ha partecipato anche il Munkaspart, Partito dei Lavoratori Ungheresi, erede diretto, pur se minoritario, del POSU, ottenendo il 3,2% dei consensi e 110.000 voti. Un risultato non trascurabile se si considerano le enormi difficoltà iniziali, l’isolamento e le continue e violente campagne anticomuniste. Il governo guidato dal socialista Horn si è caratterizzato per il proprio orientamento neo-liberale, promettendo di completare sia il programma di privatizzazione entro il 1998, sia le politiche liberiste di adeguamento strutturale in vista dell’ingresso nella UE. Oltre a questo, Horn ha garantito un ingresso senza tensioni nella Nato. I costi di questa politica si sono visti chiaramente alle successive elezioni del maggio 1998: scarsa affluenza alle urne, tenuta dei socialisti ma crollo dei liberali e conseguente vittoria della destra liberista e populista della Fidesz (Partito dei Giovani Democratici), grazie ad un uso massiccio dei mezzi di comunicazione di massa ed al sostegno di quella parte della borghesia di affari ungherese lasciata ai margini da Horn. Buono anche il risultato del Munkaspart, che ha visto crescere la sua base di consenso, sfiorando con il 4% lo sbarramento ed ottenendo 180.000 voti.

Con Orban, una sorta di giovane e rampante Berlusconi magiaro, l’Ungheria è entrata a far parte della Nato nel marzo 1999, sostenendo l’aggressione militare contro la Repubblica Federale Jugoslava. Sul piano interno, le riforme hanno continuato ad allargare inesorabilmente la forbice delle disuguaglianze all’interno del paese. Dopo un quadriennio di governo Orban, alle elezioni dell’aprile 2002 il quadro politico ha subito una inaspettata modifica: vittoria, pur se di misura e grazie all’apporto di nuovo decisivo dei liberali, dei socialisti e sconfitta della Fidesz, anche se di soli 10 seggi. Con il Munkaspart che, stretto tra il voto utile, l’alta affluenza alle urne (71%) e l’impossibilità di accedere ai mezzi di comunicazione di massa e di costruire un’alleanza con l’asse socialisti-liberali, ha ottenuto un risultato negativo: 2,2% e 120.000 voti. Nonostante questo risultato, al secondo turno elettorale i comunisti hanno sostenuto contro Orban i candidati socialisti (Thurmer, presidente del partito: “Noi non abbiamo modificato la nostra opinione fondamentale riguardo la politica del Partito Socialista, ma in queste circostanze noi intendiamo contribuire anche al cambio del governo”).

Governo oggi guidato dal socialista Medgyssey, che pare voler ripercorrere in pieno le orme di Horn. Nel corso della crisi che ha preceduto l’aggressione unilaterale anglo-statunitense contro l’Iraq, il governo ungherese è stato tra i promotori, insieme ad Aznar, Blair e Berlusconi, del documento “degli otto” a sostegno della politica di Bush, a partire dalla guerra preventiva, e contro Francia, Germania e Russia. Una scelta di campo che non lascia spazio a dubbi e dimostra la quasi totale subalternità di Budapest a Washington. Il 12 aprile 2003, poi, si è tenuto il referendum per l’adesione dell’Ungheria alla UE, a partire dal maggio 2004: bassa l’affluenza alle urne (45,62%) ma netta l’affermazione dei “sì” (83,76%).

Nel frattempo, proprio in queste settimane si è aperta l’ennesima campagna anticomunista che, approfittando di un impianto legislativo per nulla in linea con quello della UE, ha portato al fermo del Vicepresidente del Munkaspart, Attila Vajnai, per essersi mostrato in pubblico con una stella rossa appuntata sul petto. Pluralismo, libertà e democrazia.