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da Relion.org

http://www.telesurtv.net/secciones/notasdeopinion/246/el-cine-como-instrumento-de-colonizacion-cultural-disney-el-western-y-el-musical/

 

Il cinema come strumento di colonizzazione culturale: Disney, il genere western e il musical

 

Relazione presentata al V Congresso Internazionale “Cultura e Sviluppo” dell’Avana

 

Carlo Frabetti

 

luglio 2007

 

Fin quasi dalle sue origini, il cinema è divenuto il veicolo più efficace della cultura di massa (e di conseguenza nel più potente strumento di colonizzazione culturale), superato solo dalla televisione a partire dagli anni 60’. Ma più che averlo superato, si dovrebbe dire che lo ha integrato, visto che la televisione lo ha potenziato in modo straordinario, procurando una nuova e massiccia diffusione dei prodotti cinematografici e paracinematografici (telefilm, serie tv, ecc.). Pertanto, dire che la televisione fa concorrenza al cinema è assurdo: in ogni caso fa concorrenza alle sale di proiezione, ma la cinematografia in quanto tale ha nella televisione il suo migliore alleato.

 

E fin dalle sue origini, l’industria cinematografica è quasi stata solo un monopolio degli Stati Uniti, ed anche la sua più efficace arma ideologica e propagandistica; non è esagerato affermare che Hollywood, specie negli anni cinquanta e sessanta, durante l’aggressiva campagna imperialista statunitense, ha svolto un ruolo non minore di quello svolto dal Pentagono

 

Per analizzare il ruolo del cinema come strumento di colonizzazione culturale, ho scelto tre dei suoi aspetti più rappresentativi (due dei quali tipicizzati come “generi”): i prodotti Disney, il western e il musical.Questa scelta può sembrare un poco arbitraria ed anedottica, visto che ci sono generi

 

ben più espliciti di questi dal punto di vista della propaganda ideologica (come il cinema bellico o poliziesco); ma è proprio la loro supposta neutralità che rende questi tre rami della cinematografia statunitense particolarmente pericolosi, come cercherò di dimostrare più avanti.

 

I prodotti Disney

                                                                                                                                                                                                       

A partire dalla fine della seconda guerra mondiale, la produzione Disney ha inondato il mercato internazionale con tre tipi di prodotti di base; cortometraggi e lungometraggi a cartoni animati (i lungometraggi con attori reali sono più tardivi e atipici) e fumetti (sviluppati soprattutto a partire dai protagonisti dei cortometraggi).

 

I cortometraggi dineyani sono mere successioni consecutive di gags umoristiche, la loro carica ideologica è comparativamente scarsa, ma furono decisivi per imporre le due grandi icone della Disney: il topo Mickey e il papero Donald, divenuti, a loro volta, i massimi protagonisti della produzione.

 

L’analisi dei fumetti di Topolino e Paperino è però interessante, poiché in quelle troviamo il pieno sviluppo di entrambi i personaggi (appena abbozzati nei primi cartoni animati). Nelle loro avventure (a volte abbastanza lunghe e di una certa complessità di argomenti) Topolino si presenta come il tipico eroe positivo, valoroso, dalla condotta irreprensibile, mentre Paperino si avvicina di più al “semieroe” delle tipiche commedie cinematografiche statunitensi, volubile e pasticcione ma fondamentalmente buono.

 

Ariel Dorfman e Armand Mattelart, nel loro libro “Come leggere Paperino” (1972) forniscono un’analisi esaustiva del contenuto ideologico dei cartoon disneyani, e per ragioni di brevità rimando a quel saggio il lettore interessato. Mi limito a segnalare le curiose relazioni di parentela che esistono sia nella famiglia di Paperino che in quella di Topolino: Paperino vive con tre nipoti (che non si sa di chi sono figli), e tutti e quattro sono in relazione con lo “Zio Paperone”. I rapporti coniugali e paternorifiliali brillano per assenza, e lo stesso capita con Topolino e i suoi nipoti, inoltre, entrambi hanno eterne fidanzate, Paperina e Minnie, con cui mantengono delle relazioni ambigue. Si mette in discussione la famiglia convenzionale? Proprio il contrario: il matrimonio e la famiglia nucleare sono la meta suprema, il culmine di ogni avventura, e quindi non possono figurare nell’avventura stessa; si potrebbe parlare, in questo ed altri casi simili (quasi tutti gli eroi del genere fumettistico hanno la propria “eterna fidanzata”) di mitificazione per omissione.

 

Quanto agli argomenti dei cartoni animati della produzione Disney, soprattutto quelli della prima epoca (Biancaneve, Bambi, Cenerentola, Pinocchio, Peter Pan, La Bell’Addormentata, ecc.), hanno avuto un ruolo cruciale nel soppiantare la cultura popolare con la cultura di massa, contribuendo in modo decisivo a banalizzare, edulcorare e risemantizzare (leggi ideologicizzare) le grandi meravigliose fiabe tradizionali e i classici della letteratura infantile. A prima vista potrebbe sembrare che la loro carica ideologica non sia meno intensa, ma non bisogna dimenticare che i film Disney sono rivolti (anche se non in modo esclusivo) ai bambini, in altre parole ad un pubblico indifeso, di fronte ai potenti stimoli audiovisivi di questi eccellenti (dal punto di vista tecnico) prodotti. Considerando, inoltre, lo straordinario successo dei grandi classici disneyani, la loro ampissima diffusione nello spazio e nel tempo, sarebbe un grande errore sottovalutare la potenza indottrinatrice dei loro messaggi etici-estetici, che alcuni padroni di bellezza e bontà (e di bruttezza - malvagità) hanno impresso nelle menti di varie generazioni di bambini, e la cui conseguenza non è ancora stata studiata in modo adeguato.

 

Il Western

 

A prima vista è sorprendente che un genere così nordamericano, così legato ad una storia e a condizioni locali, abbia potuto riscuotere un tale successo in tutto il mondo. Certo la mera forza bruta dell’industria cinematografica avrebbe potuto imporre qualunque tematica, ma un film sulle imprese di boy scouts, o di giocatori di rugby, per esempio, non avrebbero avuto la stessa accoglienza di massa del western.

 

La spiegazione profonda del successo senza precedenti di questo genere lo cercherei nel fatto che la campagna di sistematica spoliazione e sterminio, conosciuta come “corsa all’Ovest”, è stata l’ultima grande “epopea” della “razza bianca” contro altre etnie, e della cultura occidentale contro altre culture (l’attuale crociata contro il “terrorismo islamico” non è finita, per quanto non sia materia epica, e speriamo che non lo diventi mai). La spiegazione, in ultima analisi, sta nel razzismo e la xenofobia di una società brutale, intimamente orgogliosa della sua lunga tradizione di superbia e massacri.

 

Col tempo, il western si è evoluto dalle insipide storie per bambini di “cow-boys e indiani”, e si è spinto verso storie più centrate nell’epica dell’eroe solitario e autosufficiente, efficace espressione del mito statunitense del self-made man; producendo anche derivati curiosi e interessanti come gli “spaghetti western”, la cui retorica iperbolica (e a volte autoironica) meriterebbe uno studio a parte. Ma nell’insieme, il western è senza dubbio, il genere cinematografico che in modo più grossolano (a volte più efficace) ha proclamato la “superiorità” della “razza bianca” e della cultura occidentale. Tutta la propaganda nazifascista degli anni trenta diventa un gioco da bambini davanti a questa gigantesca manovra di colonizzazione culturale e idiotizzazione di massa.

 

Il musical

 

Questo genere, in apparenza così amabile come i cartoni animati, e a volte incensato pure dalla critica “di sinistra” (riviste prestigiose come la spagnola Film Ideal o la francese Cahiers de Cinéma, all’epoca fecero un delirante omaggio al musical statunitense), è stato probabilmente quello che più ha contribuito ad imporre in tutto il mondo, i nefasti patroni etici-estetici (i “valori”)

 

tardooccidentali (non dimentichiamoci che la cultura di massa statunitense non è che la degradazione della cultura occidentale, l’apoteosi della sua banalizzazione e decadenza).

 

Dal punto di vista tematico, il musical è una variante della commedia romantica, e come tale, ci propone, anzitutto, alcuni modelli di condotta maschili e femminili, alcuni protocolli di corteggiamento rigidi, e in ultima analisi, un’idealizzazione estrema dell’amore convenzionale (che non a caso è il mito nucleare della nostra cultura). Ma la sua peculiare natura artistica, la sua condizione di gran spettacolo, il suo uso efficace delle risorse estetiche e retoriche della musica e della danza, convertono il musical nella massima espressione del glamour, dell’eleganza e dell’allegria di vivere.

 

E’ interessante cercare di vedere un musical con occhi di bambino o di spettatore ingenuo, non esperto delle convenzioni del genere.

 

Un uomo e una donna stanno conversando piacevolmente, e ad un tratto, senza preavviso e senza alcuna provocazione, lui comincia a cantare. Un attacco di pazzia? Se così fosse sarebbe contagioso, perché lei invece di chiamare un medico, si mette a cantare a sua volta, e in pochi secondi, trascinati dal loro delirio melodico, l’uomo e la donna stanno già ballando. Noi critici culturali siamo soliti cercare i messaggi occulti tra le righe di messaggi apparentemente semplici, ma dovremmo fare anche il contrario, analizzare la letteralità di certi messaggi “poetici”. In questo senso non dovremmo alzare il livello di certe metafore tipiche del cinema, la pubblicità e altre forme di seduzione-indottrinazione. Nelle società occidentali, gridare di felicità e fare salti d’allegria sono manifestazioni poco comuni tra gli adulti, ma non per nulla le allusioni verbali a questi impulsi repressi (la sua enunciazione sostitutiva) si sono convertititi in frasi fatte, e il musical si limita a sublimare artisticamente, dato che cantare e ballare non è altro che gridare e saltare in forma articolata. Se poi consideriamo la relazione della danza con il corteggiamento e con la stessa sessualità, non è difficile vedere nel musical l’espressione più chiara della mitologia amorosa (cioè dell’ideologia) occidentale. Ricordo una discussione che ho avuto molti anni fa con un noto critico di cinema comunista su “Cantando sotto la pioggia” (un autentico capolavoro dal punto di vista artistico, si badi bene). “Non mi negherai che è uno dei film che aiutano a vivere”, mi disse ad un certo punto, al che io ho replicato: “Infatti, è proprio questo il pericolo, aiuta a riconciliarsi con un tipo di vita inaccettabile”.

 

Cravatte, tacchi e hamburger

 

Purtroppo, il fascino della critica di sinistra per il musical statunitense non è un fenomeno isolato. Senza andare lontano, risulta paradossale (e preoccupante) che nel più antimperialista dei paesi e nell’ambito di un congresso sulla diversità culturale, siano infrequenti i segni di sottomissione ai padroni occidentali.

 

Il vestito con giacca (questa atrofica giacchetta che non a caso si chiama “all’americana”) è l’uniforme ufficiale del macho dominante che lo distingue tanto dalla classe oppressa (gli operai) come dal genere oppresso (le donne), è assurdo in ogni sua parte, e lo è due volte a Cuba, ed il fatto che stia sostituendosi al vestito tradizionale, l’elegante e funzionale guayabera nelle occasioni ufficiali, è un segnale di decadenza estetica la cui importanza (nulla aesthetica sine ethica) non si dovrebbe sottovalutare. E che dire della fallocratica cravatta, questo ridicolo nodo scorsoio di seta, segno di potere ma anche di sottomissione, che in Occidente continua ad essere obbligatoria in molti luoghi e circostanze? E che dire, poi, delle scarpe coi tacchi (al cui successo hanno tanto contribuito le dive di Hollywood)? Non sono solo inadatte per camminare (e non parliamo di correre), ma i traumatologi sono decenni che denunciano i gravi difetti che arreca il loro uso ai piedi e alla colonna vertebrale..

 

Del resto, quale dovrebbe essere la loro funzione? Rendere più “attraenti” le donne che le usano? Ma chi può trovare attraente una donna che usi uno strumento di tortura che limita la sua mobilità naturale e danneggia la sua salute? Solo un malato, ovviamente, un maschietto bavoso che si eccita con l’estetica del dolore e della sottomissione. La prossima volta, compagne, che vi mettete delle scarpe col tacco, chiedetevi che cosa volete comunicare. Se la vostra intenzione è quella di eccitare i sadomasoschisti, e se vi sembra che il raggiungimento dell’obbiettivo merita di immolare i vostri metatarsi e le vostre vertebre, avanti; ma se la vostra finalità è un’altra (per esempio che vi considerino persone e non oggetti) state utilizzando una strategia chiaramente equivoca.

 

Ma forse il più nefasto dei costumi quotidiani imposti dalla cultura statunitense (non solo da quella, ma dai paesi ricchi in generale) è il “carnivorismo”. Le rivendite di hamburger (a ciò ha contribuito il cinema in particolare) in tutto l’Occidente si sono trasformate in importanti luoghi d’incontro degli adolescenti, tanto emblematici come le discoteche o i grandi centri commerciali.

 

E l’idea assurda che “mangiare bene” è “mangiare carne”, è calata in profondità quasi ovunque, compresa Cuba, dove il consumo di maiale sta raggiungendo livelli preoccupanti

 

(nell’ultima Fiera del Libro dell’Habana, senza andare lontano, era piena di punti di vendita ambulanti in cui si vendevano dei pseudohamburger porcini che facevano la delizia di tanti cubani). Il carnivorismo (specie il “maiavorismo”) è nefasto dal punto di vista dietetico, economico ed ecologico, e la Cuba rivoluzionaria dovrebbe affrontare la questione con la serietà che merita.

 

La difesa della diversità culturale ben intesa comincia da ciascuno di noi, e se ci opponiamo alla dominazione imperialista dovremmo essere più critici anche con le nostre abitudini. Tendiamo a considerare naturali i nostri costumi quotidiani (dietetici, amorosi e di abito), eppure quelli, a volte non solo non sono tanto naturali, ma in realtà non sono neppure nostri.

 

In questi momenti, per Cuba come per molti altri paesi di tutto il mondo, la maggior minaccia imperialista non sta nel Pentagono, ma ad Hollywood e nei McDonald’s.

 

Traduzione dallo spagnolo per www.resistenze.org di FR