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Il trumpismo come scelta obbligata del capitalismo

Greg Godels | zzs-blg.blogspot.com
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

25/09/2018

Fortunatamente, buona parte della sinistra USA sta iniziando a riconoscere nell'intenso e continuo scontro fra Trump e i suoi difensori da un lato, e la sedicente "resistenza" dall'altro, il riflesso di una "frattura all'interno della classe dominante".

Si tratta di uno sviluppo positivo, in quanto sgombra il campo da alcuni equivoci alimentati dalla leadership del Partito Democratico e dal puerile sensazionalismo e dalle insensate semplificazioni dei media capitalisti. Non avendo altro strumento per pungolare l'elettorato a parte il terrore dei "russi nascosti sotto il letto", i democratici diffondono una narrazione all'insegna del "Trump traditore", "Trump supremo profanatore" e "Trump fascista". Nancy Pelosi, il volto miliardario della pattuglia parlamentare del Partito Democratico, ha annunciato le tre priorità dei democratici qualora dovessero vincere le elezioni di medio termine – tre ricette trite e ritrite del vetusto arsenale liberale: riduzione dei costi della sanità e dei prezzi delle cure mediche (sempre promessa, mai attuata e impossibile da attuare nel contesto di un sistema privato), aumento dei salari e miglioramento delle infrastrutture (interventi mai realizzati da quasi mezzo secolo, uno specchietto per le allodole che guarda al movimento sindacale), e "repulisti contro la corruzione" (tradotto: proseguimento dell'assurda caccia alle streghe di Mueller). Nemmeno una parola riguardo alla cancellazione dei tagli fiscali a beneficio dei ricchi attuati dall'amministrazione Trump.

Rappresenta un passo avanti rispetto alla palude di vuote prese di posizione politiche e piatta analisi dei comunicati il fatto che ora venga riconosciuta una reale e feroce battaglia in atto tra gruppi rivali all'interno dei settori più ricchi e potenti, un conflitto che conferisce un significato più profondo alle bizzarrie dell'era Trump. Dietro l'immagine avvilente e ingannevole del corrotto cialtrone (Trump) contrastato dagli "eroici" difensori della libertà e della sicurezza (l'FBI, la CIA, l'NSA, eccetera) si cela uno scontro reale di idee, interessi e destini. È dunque un bene che non tutti si siano lasciati sedurre dal circo politico simile a un cartone animato costruito dai media capitalisti. È un bene che sempre più persone si accorgano che è in atto uno scontro tra ricchi e potenti, in cui si contrappongono visioni diverse del futuro del capitalismo: una "frattura all'interno della classe dominante".

"La mia amministrazione è l'unica cosa che si frappone tra voi e i forconi"

Nel corso degli ultimi due anni, ho scritto spesso a proposito dell'emergere di un'alternativa, all'interno della classe dominante, ai dogmi convenzionali del fondamentalismo di mercato: i cosiddetti "neoliberismo" e "globalizzazione". Ho scritto a proposito della crescita del nazionalismo economico nelle economie "avanzate" come espressione di questa alternativa. Ho evidenziato come la sua crescente popolarità presso la classe dominante si possa attribuire ai danni subiti dal globalismo - rallentamento degli scambi, crescita lenta, squilibri finanziari, malcontento popolare, eccetera - in seguito alla crisi globale iniziata nel 2007. L'intensificazione della competizione nel campo delle politiche energetiche viene presentata come sintomo materiale del nazionalismo economico, così come il disinteresse per il mantenimento di un contesto relativamente pacifico atto a tutelare e a promuovere gli scambi. Gli USA, per esempio, sono più interessati a vendere armi che a dare soluzione alle loro numerose guerre (si dice che il Segretario di Stato Pompeo abbia persuaso gli esponenti dell'amministrazione Trump pubblicamente svergognati dai massacri in corso nello Yemen a non interrompere il sostegno all'Arabia Saudita, alla luce della possibile perdita di 2 miliardi di dollari in vendite d'armi).

Di conseguenza, un recente commento (The Dividends of Wrath, 3 settembre 2018) dell'influente corrispondente veterano di Bloomberg Businessweek Joshua Green si può considerare come una presa d'atto del sommovimento innescato nella scena politica dalla crisi, e delle sue conseguenze dirette sul "Make America Great Again [Rendere di nuovo grande l'America]", lo slogan del nazionalismo economico di Trump. Il sottotitolo della riflessione di Green coglie con chiarezza questo tema: Come la rabbia per il salvataggio finanziario ci ha portati alla presidenza Trump.

Attraverso le reminiscenze di un colloquio con l'ex-Segretario del Tesoro Timothy Geithner, Green ci riporta all'indomani del crollo finanziario, quando un Geithner rassegnato manifestava il profondo timore che la popolazione avrebbe perseguito una "giustizia da Antico Testamento" contro il salvataggio delle banche e le amorevoli attenzioni verso i banchieri messi in atto da Obama.

Green ci rammenta l'infame riunione tenuta da Obama alla Casa Bianca con gli amministratori delegati delle principali banche, in cui il presidente disse loro candidamente: "La mia amministrazione è l'unica cosa che si frappone tra voi e i forconi".

Riflettendo sulle parole di Obama, Green osserva:

A dieci anni dalla crisi, è chiaro che Obama è stato ingenuo a illudersi che i sentimenti dell'opinione pubblica potessero essere neutralizzati o tenuti a bada... Milioni di persone hanno perso il lavoro, la casa, la pensione - o tutte e tre le cose - finendo per essere espulse dalla classe media. Molte altre vivono nell'ansia logorante di correre ancora lo stesso rischio. I salari ristagnavano quando la crisi ha colpito, e hanno continuato a ristagnare durante la ripresa. Recentemente, il Bureau of Labor Statistics ha riferito che la quota dei redditi non agricoli riservata ai lavoratori statunitensi è precipitata a livelli prossimi a quelli del crollo successivo alla seconda guerra mondiale.

Questa denuncia - insolitamente aspra per un osservatore mainstream - del capitalismo post-apocalittico inquadra adeguatamente la situazione che ha alimentato il timore che la gente rispolverasse i forconi. E si può essere certi che coloro i quali controllano le principali centrali capitaliste prestano attenzione a questa collera non certo per darle una risposta, ma per allontanarla da sé.

Prosegue Green: "...alla fine, le masse armate di forconi riusciranno a farsi sentire. La storia della politica americana dell'ultimo decennio è la storia di come le forze che Obama e Geithner hanno tentato invano di contenere hanno cambiato il volto del mondo... liberando energie schierate nettamente a sinistra (Occupy Wall Street) e a destra (il Tea Party)... L'accumulo della massa critica di condizioni che hanno prodotto Donald Trump ha tratto origine da questa reazione..." [grassetto mio].

Sul piano emotivo può essere gratificante dare la colpa a Obama e a Geithner senza spingersi oltre, ma è più utile individuare la causa di Trump nel fallimento del fondamentalismo di mercato e nelle conseguenze destabilizzanti che ciò avrebbe avuto per il capitalismo qualora non si fosse trovata un'alternativa. Trump e il "Rendere di nuovo grande l'America" possono forse costituire una risposta rozza ai rischi scatenati dal fondamentalismo di mercato impazzito, ma di risposta comunque si tratta.

"Abbiamo lavorato sodo affinché su queste proposte non ci fossero le nostre impronte digitali"

Acutamente, Green individua il primo segnale di elaborazione di un'alternativa al paradigma politico-economico dominante nella decisione del leader della maggioranza repubblicana al Senato, Mitch McConnell, di dissociare i repubblicani dai salvataggi di Obama: nelle sue parole, di "evitare che su queste proposte [il finanziamento delle banche mediante il programma TARP] ci fossero le nostre impronte digitali".

Nessuno prima di Trump, tuttavia, aveva escogitato una strategia in grado di trasformare con successo l'ira delle masse in una vittoria politica. "Quando Trump ha annunciato la sua candidatura nel 2015, americani di ogni tendenza erano ormai risentiti nei confronti delle élite che guidavano entrambi i partiti: una realtà di cui i suoi avversari repubblicani si sono resi conto solo quando era di gran lunga troppo tardi", osserva Green.

Trump è riuscito a mettere insieme una campagna incentrata su una risposta alla rabbia costituita da un insieme di nazionalismo economico, patriottismo e, paradossalmente, prese di posizione a favore della classe operaia.

Spiega Green:

Oggi la sua campagna viene ricordata come incentrata anzitutto sull'animosità contro gli immigrati. Ma... Trump ha dedicato molto tempo a lanciare invettive contro Wall Street in nome dell'uomo comune dimenticato, e ad alimentare il sospetto che una cricca di eminenze grigie politiche e finanziarie stesse derubando la gente comune.

Quando lo intervistai subito dopo che si era aggiudicato la nomination repubblicana, Trump mi disse che intendeva trasformare il "Grand Old Party" in «un partito di lavoratori. Un partito di gente che non ha un vero aumento di stipendio da 18 anni e che è arrabbiata".

Il suo messaggio alla conclusione della campagna evocava il disgusto che tanta gente provava ormai per Wall Street e per Washington. Il suo ultimo spot alla vigilia delle elezioni conteneva immagini della Presidente della Federal Reserve Janet Yellen e dell'amministratore delegato di Goldman Sachs Lloyd Blankfein, e tentava di coinvolgerli, insieme a Hillary Clinton, in quella che Trump definiva "una struttura di potere globale che è responsabile delle decisioni economiche che hanno derubato la nostra classe operaia, spogliato il Paese della sua ricchezza e riversato questo denaro nelle tasche di grandi corporation ed entità politiche"... Non sorprende che questo messaggio abbia toccato una corda precisa: che cos'è Trump, se non l'incarnazione di un pugno chiuso e l'impegno a infliggere una giustizia da Antico Testamento?

Naturalmente, l'idea che Trump stia costruendo un partito di lavoratori è ridicola, e Green lo sa bene. Ma non è questo il punto.

Il punto è che Trump non è semplicemente un'anomalia, un personaggio alla Elmer Gantry intento a trarre vantaggio soltanto dal suo cinismo, dalla sua volgarità e dalla sua ipocrisia, in una truffaldina scalata ai vertici del potere. Non è soltanto il personaggio fumettistico con i capelli arancioni, le mani piccole e il cipiglio alla Mussolini. Rappresenta invece l'alternativa contrapposta da un settore della classe dominante all'ormai quasi trentennale e incontrastato regno del fondamentalismo di mercato.

Il punto più importante da sottolinare, tuttavia, è che Trump è una risposta della classe dominante ai fallimenti di un'epoca imposta dalla classe dominante, incentrata sul culto universale della sola proprietà privata, del globalismo sotto tutela USA e degli scambi commerciali "lubrificati". Questa ideologia non si è ancora arresa e l'ideologia del nazionalismo economico non ha ancora preso il sopravvento. La lotta tra queste due vie non potrà in alcun modo promuovere gli interessi della classe operaia: entrambe conducono in un vicolo cieco per i lavoratori. E Green non ha dubbi quando ci ricorda che i danni prodotti dal crollo economico "rendono del tutto certo che anche le prossime elezioni presidenziali, e l'eventuale successore di Trump, ne saranno influenzati".

Con le sue fervide speranze liberali, Green ritiene che esista la possibilità che i democratici, di per sé disinteressati a queste istanze, facciano propria la causa di coloro che innalzano i forconi. Ritiene di riconoscere questa opportunità in Elizabeth Warren. Altri la ravvisano in Bernie Sanders o nel progressismo del DSA che increspa la superficie del Partito Democratico.

Di fronte a un Partito Democratico che non realizza alcuna riforma qualitativamente significativa a beneficio della classe operaia USA sin dalla presidenza di Lyndon Johnson, una simile eventualità non rappresenta più una speranza, ma una fede priva di fondamento.

Prendere posizione in questa lotta atta a stabilire come meglio servire il capitalismo non servirà che a infliggere nuovi rovesci alla causa dei lavoratori. E cercare nel Partito Democratico una via d'uscita dall'asservimento al capitalismo significa riesumare vecchie e inutili illusioni.

Solo uno sforzo comune mirante a creare un movimento autenticamente indipendente e anticapitalista, che si rivolga ai veri e urgenti bisogni dei lavoratori, ha davvero senso al giorno d'oggi, quando i partiti borghesi sacrificano deliberatamente gli interessi dei lavoratori al Moloch capitalista. Solo un movimento con un obiettivo rivoluzionario può allontanare la classe operaia dai falsi profeti della demagogia isolazionista, del tribalismo e della "sopravvivenza del più adatto" di spenceriana memoria.


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