da "Il manifesto" 17 maggio 2005
Dopo il massacro
Ma per Karimov è iniziato il conto
alla rovescia
Fabrizio
Vielmini
Almaty, Kazakhstan. In forza dell'eccezionale posizione
geopolitica dell'Uzbekistan, che ne fa il perno naturale del sistema centrasiatico,
la crisi nel paese preannuncia tempi gravi per l'insieme della regione. Oltre a
confinare con tutte le repubbliche dell'area (Afghanistan incluso), l'area di
residenza degli uzbeki si allarga bene al di là delle frontiere artificiali
apparse con la caduta dell'Urss, formando delle diaspore compatte, più
islamizzate rispetto ai vicini, site in punti strategici lungo tutto il
perimetro dei confini. Tale situazione è bene evidente dove la Ferghana da
uzbeka diventa kirghiza, nelle città di Patkhabad e Kara-Suu (ex-Il'icevsk).
Quest'ultima ricorda dalla fine degli anni `90 una specie di Berlino o Gorizia
della guerra fredda: gli uzbeki hanno fatto saltare i ponti sul fiume
Shakhrikhansai e genti da sempre vissute in un'unica comunità si sono trovate
separate da un assurdo ed ermetico confine statale. Mentre la rivolta di
Andijan veniva soffocata nel sangue, la tensione riemergeva nella parte uzbeka
di Kara-Suu, dove sabato sono stati incendiati la procuratura e altri edifici
pubblici. Ieri mattina la città è stata accerchiata e ricondotta all'ordine in
modo meno cruento, sembra, che ad Andijian.
Il tutto ha ammassato qualche migliaio di persone desiderose
di trovare rifugio nel lato kirghizo della città. I kirghizi hanno dato prova
di una certa capacità di controllo della situazione - dovuta più che alle forze
dell'ordine, alle strutture tradizionali e a quelle mafiose che hanno affermato
il proprio potere dopo la «rivoluzione di velluto» di marzo. Di fatto i
kirghizi non hanno opposto alcuna resistenza al passaggio dei profughi, 540
secondo il responsabile Onu da noi raggiunto ieri per telefono. Altre centinaia
di fuggiaschi potrebbero essere presso amici e parenti della numerosa comunità
uzbeka (pari a un terzo della popolazione del sud krighizo, circa 800.000
persone) e in ogni caso il loro flusso non accenna a diminuire. Kara-Suu è sita
a 20 chilometri da Osh, che è stata qualche settimana fa il detonatore delle
proteste che hanno portato alla fine del regime di Akaev. Nelle condizioni di
caos che continuano a prevalere in Kirghizia, Osh, dove da anni si rafforza la
presenza degli islamismi dell'Hizb ut-Tahrir, può diventare ora la principale
base operativa per gli oppositori di Karimov.
Da rilevare anche un effetto indiretto dei fatti uzbeki sulla
situazione in Kirghizistan: il ritiro della candidatura alle presidenziali del
prossimo luglio di Felix Kulov, dato da molti quale favorito. L'ex-prigioniero
politico ha giustificato la sua mossa a sorpresa citando «la fragilità della
pace nella nostra regione» accordandosi con l'attuale capo del governo di
transizione Bakiev per ottenere la guida del governo dopo l'ormai certa
vittoria di quest'ultimo.
I vicini temono l'effetto
domino
Così come il Kirghizistan, gli altri vicini di TaÜkent
guardano alle difficoltà uzbeke con un misto di preoccupazione e soddisfazione.
Il nazionalismo aggressivo di Karimov aveva avuto effetti distruttivi per tutti
i paesi confinanti. Se questi si sentono ora al riparo da ulteriori offese da
parte uzbeka, d'altro canto la prospettiva di un crollo improvviso del regime
di Karimov suscita numerose inquietudini.
A doversi preoccupare è soprattutto il Kazakistan. Per
effetto della manna petrolifera e dei prezzi da questa raggiunti negli ultimi
anni, il gigante eurasiatico si è trasformato in una meta per le masse di
disperati create dal crollo dell'Urss nelle quattro repubbliche meridionali
dell'Asia centrale. Le regioni in prossimità della frontiera con l'Uzbekistan,
lunga 2.300 chilometri ed ermeticamente sigillata da venerdì, sono quelle che
hanno finora meno goduto dei petrodollari, e subiscono da anni una crescente
pressione demografica e militare da parte di TaÜkent. La minoranza etnica
uzbeka funge inoltre da vettore di diffusione per l'islamismo politico. Una
buona parte delle moschee locali è diretta da uzbeki, i quali, anche se si sono
formalmente sottoposti alle autorità religiose kazakistane, sono comunque
oggetto di non pochi sospetti sulla loro lealtà. Ad Alma-Ata è stata appena
pubblicata un'analisi sullo stato delle relazioni uzbeko-kazakistane. Secondo
il suo autore, Rustem Lebekov, l'attuale crisi ha costituito un importante
avvertimento per Astana (capitale politica del paese). Se la prossima rivolta
uzbeka dovesse allargarsi all'insieme della Ferghana (9 milioni di residenti
solo dalla parte di TaÜkent), il Kazakistan meridionale verrebbe investito da
ondate di profughi per accogliere le quali non dispone al momento di alcuna
struttura. Ovunque è sempre più inquieta la numerosa diaspora russa.
L'eccezione dell'oasi tagika
Relativamente tranquillo resta per il momento il Tagikistan.
Sin dai tempi della guerra civile (1992-97), il paese è di fatto diviso in
signorie locali, le quali riconoscono l'autorità del presidente Imanali
Raxmonov, a sua volta gradito al momento a quasi tutti gli attori geopolitici
presenti nella regione.
In definitiva, se l'attuale regime uzbeko è riuscito a
sventare la rivolta di venerdì, il conto alla rovescia verso la sua fine è
ormai iniziato. È irrevocabilmente crollato il sogno di potenza regionale a
lungo coltivato da Karimov e con esso la sua posizione personale. Da cinque
anni a questa parte, Karimov si mantiene a galla con degli zig-zag fra Mosca e
Washington della sua politica estera, ma il suo spazio di manovra si è ridotto
sempre di più e gli ultimi eventi lo hanno esaurito del tutto, mentre le
condizioni della popolazione hanno raggiunto il limite della sopportazione
fisica. Dubbi permangono solo sul modo in cui il potere del dittatore avrà
fine: un'altra sommossa popolare o una rivolta di palazzo, per la quale i
candidati abbondano. Molto probabilmente quando la situazione non sarà più
controllabile nelle piazze, uno dei molti clan che compongono attualmente il
sistema di potere di Karimov tenterà il colpo d'autoproclamarsi «potere del popolo».
Il successore poi dovrà fare una scelta definitiva fra i due contendenti
esterni all'egemonia nella regione (la Cina per il momento resta alle spalle di
Mosca). È anche possibile che Karimov stesso, sempre più ostaggio degli eventi,
scelga una figura di transizione.
Il punto da tenere presente è che la crisi uzbeka è il
risultato di una tensione soggiacente molto più elevata di quella del
Kirghizistan. Questa si è espressa in una serie di jacquerie che in forza della frammentazione del territorio hanno
per il momento assunto una forma sostanzialmente incruenta. Al contrario in
Uzbekistan sono 15 anni che si accumulano tensioni violente le quali, data
l'elevata concentrazione demografica non potranno non assumere che esiti più
cruenti.
La partita di Mosca
È per questo che, nonostante i molti nemici del regime,
nessuno in questo momento è disposto a forzargli la mano. In particolare, la
Russia, i cui media hanno sostanzialmente fatto da cassa di risonanza per la
versione dei fatti del regime, tutta basata sul fantasma del «fondamentalismo».
Pesa anche l'attuale congiuntura internazionale: proprio alla vigilia del
disastro di Andijan il capo del Servizio di sicurezza nazionale russo era
intervenuto alla Duma riaffermando la regia anglosassone delle attuali
«rivoluzioni» post-sovietiche. A differenza che in Kirghizistan, la Russia ha
poi in Uzbekistan cospicui interessi economici, intensificatisi anch'essi nel
corso degli ultimi mesi in parallelo col ripristino dell'intesa sul piano
geopolitico. Difficilmente quindi, Mosca potrebbe reagire altrimenti.
Gli stessi Usa profondamente insoddisfatti del loro riottoso
vassallo regionale (il quale procura non pochi problemi d'immagine alla
politica centrasiatica del «democratizzatore» George Bush), non sembrano avere,
neanche loro e per il momento, nessuna figura alternativa su cui puntare.