www.resistenze.org - popoli resistenti - uzbekistan - 12-02-07

da: www.rebelion.org
 
Uzbekistan: la disputa strategica per l’Asia centrale
 
Higinio Polo “El Viejo Topo”
 
30 novembre 2006
 
La scomparsa dell’Unione Sovietica ha creato un vuoto strategico in Asia Centrale, coperto frettolosamente dalla proclamazione di cinque repubbliche (Kazakhstan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan e Tagikistan), di cui solo due, Kazakhstan e Uzbekistan, contavano su una popolazione sufficiente a creare Stati dotati di vitalità: le altre tre repubbliche presentavano tutte le condizioni per trasformarsi in protettorati o in paesi dipendenti. Così, in Uzbekistan, i giorni confusi dell’agonia gorbacioviana hanno partorito una nuova repubblica che ha sostituito la Repubblica Socialista Sovietica dell’Uzbekistan. Nessuno l’aveva chiesto: appena un mese dopo che, nel 1991, la grande maggioranza della popolazione (più del novanta per cento) della repubblica si era pronunciata in un referendum per il mantenimento dell’Unione Sovietica, i dirigenti del paese proclamarono l’indipendenza. Si trattò di un’autentica truffa con le caratteristiche della farsa, esattamente come avveniva nel resto dell’URSS, dal momento che, praticamente nella totalità del territorio sovietico, i cittadini volevano conservare l’Unione, al contrario delle elites di ogni zona (un misto di ex comunisti convertiti e di nuovi liberali) che volevano impadronirsi del potere e disporre di un paese: era cominciato il periodo della rapina della proprietà statale sovietica, dell’accumulazione del bottino, obiettivo sempre accompagnato da parole ipocrite sulla democrazia, la libertà e il futuro sviluppo. Gli Stati Uniti stimolarono questo processo, nato dal patto di Bielovezh del 1991.
 
L’Uzbekistan in realtà non è mai esistito: è il risultati della divisione amministrativa sovietica. In precedenza, nel territorio dell’Asia centrale che oggi forma il paese, erano esistiti emirati, città indipendenti, imperi. Con la proclamazione dell’attuale repubblica, che conta 25 milioni di abitanti, il nuovo potere ha dato impulso ad una politica di invenzione del passato: sono stati costruiti nuovi monumenti, come quello dell’imperatore Tamerlano in uno dei luoghi centrali di Tashkent; la statua di Lenin è stata sostituita con un mappamondo che ha l’Uzbekistan al centro; è stata riscritta la storia. Tutti i simboli che ricordavano l’URSS sono stati rimossi. La creazione di un nuovo patriottismo aveva la necessità di infangare la memoria degli anni sovietici, e a questo compito si è dedicato con impegno il nuovo governo. Il convertito Islam Karimov (attuale presidente, in precedenza dirigente comunista uzbeko) è arrivato al punto di creare un Museo delle Vittime del Colonialismo, in cui la storia della Russia zarista viene equiparata a quella dell’Unione Sovietica, come se i due sistemi politici formassero un unico nucleo imperialista per soggiogare gli uzbeki, e ha insistito sul fatto che gli attuali problemi del paese sono parte dell’ “eredità totalitaria sovietica”. In verità, la maggioranza della popolazione uzbeka ha nostalgia dell’URSS.
 
Governando con il suo nuovo Partito Democratico Popolare, Karimov ha perseguitato ogni opposizione politica, a cominciare dai comunisti che non hanno un’esistenza legale: è certo che non c’è nulla di peggio dei rinnegati. Nonostante la conservazione di una facciata democratica, i processi elettorali sono sotto il controllo del potere e, in questi ultimi quindici anni post-sovietici, è stato Karimov in persona a decidere quali partiti potevano presentarsi e quali no, dando anche vita a organizzazioni filo-governative che permettessero di dare una parvenza di pluralismo al regime. Karimov non ha provato il minimo imbarazzo nel prolungare il proprio mandato presidenziale in un referendum e, nel 2000, più del 90 per cento dei votanti lo ha rieletto per altri cinque anni, mentre in un altro referendum otteneva di allungare ulteriormente il suo mandato: le prossime elezioni, se non dovessero essere introdotte nuove modifiche, avranno luogo nel 2007. La sua aspirazione al dominio si è palesata quando, nel 1998, il parlamento uzbeko (chiamato Oly Majlis) gli ha concesso la massima onorificenza, intitolata a Tamerlano, e in seguito, nel 2003, quando lo stesso parlamento ha approvato all’unanimità l’immunità vitalizia per gli ex presidenti del paese (l’unico finora è stato Karimov), mediante una legge che assicurerà, quando verrà il momento, la tranquilla pensione dell’autocrate.
 
Nel nuovo Uzbekistan non ci si è limitati ad organizzare una gigantesca e feroce campagna di discredito dell’Unione Sovietica: occorreva rompere con il socialismo e ricostruire dalle fondamenta un nuovo rapporto storico con il passato uzbeko. L’invenzione del passato implicava che i russi e l’Unione Sovietica venissero identificati con un potere coloniale (tacendo sulla partecipazione degli uzbeki alla costruzione dell’URSS) e ciò ha spinto Karimov al punto di sostituire l’alfabeto cirillico con quello latino, nella sua versione turca, di modo che, in tutte le vie di tutte le città del paese, insegne e cartelli oggi sono scritti in uzbeko con un alfabeto, quello latino, estraneo alla storia del paese. Malauguratamente per il nuovo potere, il cambiamento non è stato mai molto gradito dalla popolazione, in una misura tale che l’anno prossimo si sarà costretti a tornare all’alfabeto cirillico. E’ stato limitato, inoltre, l’uso della lingua russa, sebbene la cruda realtà dimostri che in ogni parte del paese il russo è comunemente parlato, insieme all’uzbeko, e, a Samarcanda e Bukhara, al tagiko. Karimov ha introdotto lo studio della scrittura araba e sono state aperte scuole islamiche, compresa un’università, finanziate dall’Arabia Saudita. A Bukhara, ad esempio, questa politica di identificazione con l’Islam e di occultamento del passato sovietico è arrivata fino al punto di edificare un enorme complesso per accogliere la tomba di Bahouddin Nakshband, un sufi del XIV secolo, e di attribuire al nuovo Uzbekistan punti di riferimento storico, in cui possa identificarsi la popolazione. In tal modo, Tamerlano e l’Islam si sono trasformati in segni di identità dell’Uzbekistan.
 
Il presidente Karimov, sebbene sia stata approvata una costituzione laica, ha comunque dato impulso ad una politica tesa al recupero delle tradizioni islamiche nella vita quotidiana, che ha fatto breccia in alcuni settori del paese. Anche se contemporaneamente ha proibito i partiti che utilizzano la religione come vessillo, strumentalizzando, per mettere sull’avviso rispetto ai pericoli che potevano derivarne per l’Uzbekistan, le rivolte islamiche nella vicina repubblica del Tagikistan e la guerra civile scatenata negli anni ’90. L’islamismo si è rafforzato: attualmente sta tornando di moda far sposare le donne di sedici anni, mediante accordi tra le famiglie, una pratica, questa, che era stata sradicata con l’Unione Sovietica. Si è tornati anche ad imporre la circoncisione ai bambini, e in alcune zone la pressione religiosa è pesante. Tuttavia, la maggioranza della popolazione è laica, e il suo abbigliamento e le sue abitudini non hanno molto a che vedere con le immagini provenienti da altri paesi, di donne velate e di moltitudini che riempiono le moschee. Settanta anni di socialismo non sono passati invano.
 
La rapina della proprietà sovietica ha percorso vie simili a quelle della Russia e di altre repubbliche dell’URSS. Il furto della proprietà collettiva è arrivato ad estremi inimmaginabili: dal Museo di Samarcanda sono scomparsi pezzi e collezioni. La privatizzazione e lo smantellamento di molte delle conquiste sociali sono avvenuti al di fuori di ogni controllo, e hanno colpito sanità, educazione, cultura e tempo libero. In tal modo, la figlia di Karimov, Gulnara Karimova, ad esempio, ha potuto costruire un gigantesco gruppo imprenditoriale, mentre le conseguenze disastrose per la popolazione, provocate dal cambiamento, sono illustrate in modo esemplare dalla vendita degli appartamenti esistenti nel paese, che erano stati costruiti per i suoi abitanti in epoca sovietica. Durante gli anni sovietici, la casa era un diritto universale e gli inquilini pagavano solo una somma simbolica per l’affitto dell’appartamento, che era attribuito in uso vitalizio, e per i servizi di acqua, gas ed energia elettrica. Anche se questo sistema non era privo di inconvenienti: tra questi, l’incuria da parte della collettività e la carente manutenzione dei blocchi residenziali. Così, il nuovo governo uzbeko ha avviato la vendita degli appartamenti agli inquilini in affitto, che hanno dovuto pagare un bene che, di fatto, era già loro in forma vitalizia, attraverso un’operazione, da cui il governo ha introitato un enorme quantità di denaro, il cui destino finale non si è mai conosciuto, pur non esistendo alcun dubbio che sia servita per riempire i portafogli dei nuovi oligarchi. Attualmente, gli inquilini devono pagare l’acqua, il gas e l’energia elettrica, che prima erano praticamente gratuiti. Un appartamento nella media costa oggi tra i settemila e gli ottomila dollari (che, con quaranta dollari mensili di salario, significa per gli acquirenti uno sforzo titanico). Perciò, non appare strano che molti uzbechi affermino che “si viveva meglio con l’Unione Sovietica”.
 
La presunta libertà, conquistata nel corso del processo di indipendenza, è indicata dal regime di Karimov nella possibilità che la popolazione avrebbe oggi di viaggiare all’estero. Ma risulta molto difficile per gli uzbeki assicurare gli studi dei loro figli all’estero. I difensori del nuovo Uzbekistan affermano che questa possibilità, prima, non era mai esistita, ma una cosa è certa: che ora costa molto denaro e può essere concretizzata solo dai figli di famiglie ricche. In pratica si recano all’estero meno studenti uzbeki che in precedenza. Inoltre, l’Uzbekistan non ha ancora superato la crisi provocata dalla sparizione dell’URSS. Il cotone, l’oro e l’uranio sono le principali ricchezze del paese, ma esposte a grandi rischi di ordine strategico: l’Uzbekistan non dispone di risorse idriche a sufficienza, e l’intenso sfruttamento dell’acqua dell’Amur Daria e del Sir Daria in tutta l’Asia centrale ha fatto arretrare il Mare di Aral e ha creato nuovi problemi all’economia, dal momento che il cotone è una grande ricchezza del paese. Per questo, da più parti si sostiene che gli uzbeki hanno bisogno della Russia. L’evidente solitudine delle piccole repubbliche, in un mondo di giganti, sollecita la conservazione dei legami creati dall’Unione Sovietica.
 
Oggi Tashkent è una città nuova. Il terremoto del 26 aprile 1966 distrusse quasi completamente la capitale uzbeka e tutte le repubbliche sovietiche si prodigarono nell’aiuto e nella ricostruzione, contribuendo a creare una città con ampie strade, grandi parchi e gigantesche piazze, che è diventata la metropoli più popolata dell’Asia centrale. I segni della crisi seguiti alla scomparsa dell’URSS sono visibili, mentre il lavoro non rappresenta più un diritto collettivo. A Tashkent, il salario medio oscilla tra i quarantamila e i sessantamila som mensili, circa quaranta dollari. A Samarcanda ho visitato una fabbrica di tessuti di seta. E’ privata: è stata creata nel 1992, immediatamente dopo il collasso dell’URSS. Vi lavorano quattrocentocinquanta donne, in maggioranza giovani, che guadagnano un salario tra ottanta e centoventi dollari mensili. Queste operaie si possono considerare fortunate, se pensiamo alle difficoltà che sta attraversando il paese. A Bukhara, altra città mitica della vecchia “via della seta”, il dissesto dell’economia ha raggiunto livelli allarmanti: alcune fonti parlano di un sessanta per cento di disoccupati. In giro per la città si vedono bambini che lavorano alla fabbricazione di oggetti di artigianato: il cambiamento avvenuto nelle esigenze primarie della popolazione ha indotto anche molte famiglie a non mandare più i bambini a scuola. Si afferma che non serva a nulla, e così li si manda a lavorare.
 
La solitudine politica, in cui sono venute a trovarsi, ha trasformato le repubbliche dell’Asia centrale in bocconi appetibili per gli Stati Uniti. Nel momento in cui rompeva i legami con la Russia, Karimov si lasciava coinvolgere nel conflitto afghano, appoggiando negli anni novanta il generale Abdul Rashid Dostam, un militare di radici uzbeke e cercando di mediare con i sanguinari talebani (una creazione dei servizi segreti pakistani e nordamericani, con finanziamento saudita), che erano diventati la forza dominante in Afghanistan: era un modo per far acquisire spazio politico a Dostam e, conseguentemente, per rafforzare il peso dell’Uzbekistan nella zona. Allo stesso tempo, Karimov intensificava i suoi rapporti con gli Stati Uniti, fino al punto di organizzare esercitazioni militari della NATO in territorio uzbeko. Ma le difficoltà esterne aumentarono. Il Pakistan alimentava campi di addestramento di terroristi islamici che si infiltravano in Uzbekistan, creando focolai di crisi, mentre le relazioni con Mosca si facevano tese, in conseguenza della presenza di una nutrita minoranza russa e della decisione del governo uzbeko di abbandonare il Trattato per la Sicurezza della CSI (Confederazione degli Stati Indipendenti, che ha sostituito l’URSS), benché non venisse interrotta la collaborazione con la Russia per combattere il terrorismo islamista. Nel febbraio 1999, alcuni attentati terroristici (organizzati da un partito chiamato Hezbollah, come quello libanese) contro la sede del governo causarono quasi venti morti a Tashkent, nel corso di un’operazione che pareva diretta contro Karimov; molti indizi indicavano che, dietro tale operazione, si nascondeva un oscuro amalgama di servizi segreti. Nonostante la presenza di questo pericolo, a partire dal 1999, l’Uzbekistan abbandonava il Trattato per la Sicurezza Collettiva, che comprendeva la Russia e altre repubbliche della scomparsa Unione Sovietica, e decideva di aderire al GUAM (che, con l’incorporazione dell’Uzbekistan, divenne GUUAM), un’organizzazione che raggruppava Georgia, Ucraina, Azerbaigian e Moldavia, creata nei laboratori strategici di Washington, con il proposito di consolidare la divisione del territorio sovietico e di assicurare la penetrazione degli USA nella periferia della Russia. Occorre far notare che, a parte la loro origine sovietica, queste repubbliche in comune non hanno neppure le frontiere e che la loro forzata integrazione nel GUUAM è servita unicamente alle esigenze strategiche nordamericane. In cambio della protezione e del sostegno diplomatico, Karimov era disposto a trasformarsi in un burattino di Washington.
 
La politica estera di Karimov aveva coltivato l’amicizia e l’alleanza con gli Stati Uniti, ma oggi questo disegno strategico è stato abbandonato per ritornare all’alleanza con la Russia. Ma prima sono dovuti suonare tutti i campanelli d’allarme. Karimov aveva rifiutato di integrare l’Uzbekistan nella Comunità Economica Eurasiatica, creata nell’ottobre 2000 da Russia, Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizistan e Tagikistan: era un riflesso della sua prevenzione nei confronti della diplomazia russa, che lavorava con l’obiettivo di riunificare lo spazio economico sovietico, e un gesto ammiccante nei confronti dei nordamericani, sempre desiderosi di aumentare la propria influenza nella zona a danno di Mosca e Pechino. In seguito, gli attentati dell’11 settembre a New York inducevano Karimov a offrire la sua collaborazione agli Stati Uniti, concretizzatasi nella stipula di accordi militari, che autorizzavano l’esercito nordamericano ad utilizzare basi in territorio uzbeko, un avvenimento di portata strategica tale da spingere Colin Powell, capo della diplomazia nordamericana, a visitare Tashkent. Anche l’appoggio uzbeko al nuovo governo di Karzai, installato a Kabul dagli Stati Uniti, fu una conseguenza di questo patto. Un anno dopo, Karimov visitava Washington, consolidando l’alleanza con gli Stati Uniti e firmando nuovi accordi militari ed economici. Di fatto, si può dire che la conseguenza degli attentati dell’11 settembre più importante per la zona non sia rappresentata dall’attacco statunitense all’Afghanistan, ma dalla penetrazione nordamericana in Asia centrale. Washington non cercava Bin Laden, argomento di uso propagandistico: perseguiva il controllo dell’Asia centrale e l’Afghanistan capitava a proposito. Dopo l’offensiva militare e diplomatica, gli Stati Uniti hanno ottenuto una presenza militare in Afghanistan, Uzbekistan, Tagikistan, Kirghizistan e Kazakhstan. L’arretramento strategico di Mosca era talmente evidente che gli strateghi del governo nordamericano ventilarono la possibilità di spingere la Russia a giocare il ruolo di guardiano degli interessi economici statunitensi nelle ex repubbliche dell’Asia centrale! Ma il grande gioco non era ancora terminato.
 
Nel marzo 2004, nuovi attentati terroristici in Uzbekistan, avvenuti simultaneamente in varie città, tra cui la capitale Tashkent, causarono diciannove morti e decine di feriti. Il 12 e 13 maggio 2005, a Andizhan, importante città della valle di Fergana, la polizia represse una manifestazione dopo una convulsa incursione di guerriglieri. Gruppi di uomini armati avevano attaccato un commissariato e una caserma, uccidendo dieci poliziotti e soldati, e, subito dopo, avevano dato l’assalto al carcere, spalancando le sue porte a più di duemila prigionieri. La pericolosa crisi fu risolta prontamente da Karimov, che concordò con Putin la risposta. Secondo Amnesty International, nella repressione ordinata da Karimov sarebbero morte centinaia di persone, anche se non si è mai potuta svolgere un’inchiesta indipendente. Fino a quel momento, gli Stati Uniti avevano rappresentato il principale sostegno diplomatico di Karimov, che aveva pure accettato di accogliere i prigionieri dei nordamericani per gli interrogatori, accordandosi con costoro per l’utilizzo della tortura. L’incursione, che intendeva strumentalizzare per i propri fini il malcontento popolare provocato dal peggioramento delle condizioni di vita, le rivendicazioni islamiste, i traffici di droga e le altre attività malavitose, approfittava della vicinanza della città di Andizhan a zone turbolente come Afghanistan e Pakistan. La confusione sull’identità degli ispiratori dell’operazione di Andizhan non poteva tuttavia nascondere le attività dei gruppi islamisti, dei servizi segreti e la preparazione di provocazioni. Karimov ha accusato gli estremisti islamici di essere i responsabili dell’operazione e (senza dirlo apertamente) ha sospettato che dietro le infiltrazioni ci sarebbe stata la lunga mano di Washington. Del resto, gli Stati Uniti avevano organizzato le rivoluzioni “arancione” per instaurare regimi vassalli in ex repubbliche sovietiche, come Georgia e Ucraina, dove si erano concluse con successo, e come Bielorussia e Azerbaigian, dove erano state sconfitte. Alcuni, come Ahmed Rashid sostengono che, dopo la repressione di Andizhan, più di mille uzbeki si sarebbero rifugiati in Afghanistan, cosa che confermerebbe la supposizione fatta. Questo mondo delle reti islamiche infiltrato dall’ISI (i servizi segreti pakistani), dalla CIA, dal Mossad, è oscuro, ma svolge un suo preciso ruolo nella battaglia strategica per l’Asia centrale. Secondo il procuratore generale uzbeko, il suo governo disporrebbe di prove circa il fatto che l’operazione è stata organizzata dal Movimento Islamico del Turkestan (chiamato in passato Movimento Islamico dell’Uzbekistan), Hizb ul Tahrir e da una delle sue branchie, Akramiylar. Non è difficile indovinare chi si trova alla testa di questi gruppi.
 
Alcune fonti ritengono che l’ambasciata nordamericana a Tashkent abbia avuto un ruolo nella sollevazione di Andizhan: i servizi segreti statunitensi esercitano la loro influenza sui gruppi dell’opposizione uzbeka rifugiati a Londra, che finanziano alla stessa stregua di quanto succede con altri gruppi islamisti dell’Asia centrale. Tali gruppi coordinano permanentemente la loro azione con l’attività diplomatica e militare dispiegata dagli Stati Uniti nella zona. Ciò significa che Washington, nonostante mantenga una strategia tesa a limitare l’influenza dell’islamismo militante, non disdegna allo stesso tempo di finanziare, addestrare e tenere sotto controllo fazioni islamiste che possano tornare utili per il raggiungimento dei suoi obiettivi e per la preparazione di provocazioni ed attentati. Non bisogna perdere di vista che la regione cinese del Xingqiang si trova a soli duecento chilometri da Andizhan e che i servizi nordamericani continuano ad appoggiare i gruppi islamisti cinesi che rivendicano una presunta indipendenza: aumentare ad Est la pressione sulla Cina costituirebbe un successo strategico di Washington. Ma in ogni caso, tutto sta ad indicare che gli Stati Uniti si sono sbagliati in Uzbekistan, pretendendo di cambiare un dittatore alleato, ma imprevedibile, con un regime cliente direttamente agli ordini di Washington. Karimov ha potuto constatare che il suo allineamento agli Stati Uniti non gli assicurava la continuità del potere ed è tornato a volgere lo sguardo verso Mosca: non aveva altra alternativa. In questo modo, i tumulti di Andizhan del 2005 hanno provocato un cambiamento di alleanze.
 
Le pressioni nordamericane ed europee non si sono fatte aspettare: nell’ottobre 2006, l’Unione Europea ha approvato un embargo delle armi e ha limitato l’ingresso di dirigenti uzbeki nel suo territorio. Neppure la reazione uzbeka si è fatta aspettare: il mese seguente, Karimov decretava la chiusura del territorio e dello spazio aereo del suo paese alle forze della NATO a partire dal gennaio 2006, con una decisione che – unita allo sgombero forzato delle truppe nordamericane dalla base uzbeka di Janabad, in cui stazionavano dall’ottobre 2001 – ha reso più complicato lo spiegamento statunitense nella zona, con conseguenze sull’Afghanistan e sulla stessa ISAF. La prepotenza nordamericana, che è costata cara al governo USA, era giunta all’estremo di non pagare all’Uzbekistan l’affitto stipulato per la base di Kashi-Janabad: quando Washington si accorse che la minaccia di sgombero della base era seria, si disse disposta a pagare gli affitti arretrati, senza però che questa promessa abbia fatto retrocedere il governo di Karimov.
 
Gli Stati Uniti hanno sbagliato i calcoli in Uzbekistan, con la conseguenza di limitare la loro influenza nella regione, nonostante i continui approcci nei confronti di Kazakhstan e Turkmenistan, repubblica questa dominata in maniera dispotica da Saparmurat Niyazov (il “satrapo” turkmeno è morto poco tempo dopo la stesura dell’articolo, nota del traduttore). La politica di Washington è indirizzata a provocare cambiamenti politici nella periferia sovietica e in tutto il Medio Oriente, utilizzando a tal fine la sua pressione diplomatica, l’organizzazione di reti finanziate e l’infiltrazione; organizzazioni come Freedom House, diretta da James Woolsey, che è stato a capo della CIA; la USAID, United States Agency for International Development; e la NED, National Endowment for Democracy, insiemeall’attività dei servizi segreti e dei gruppi di mercenari completano il panorama. Non tutta questa attività è militare o terroristica. A Bukhara, per esempio, si può constatare l’infiltrazione nordamericana: USAID finanzia mercati e negozi. Si opera così su piani diversi.
 
La complessità della disputa in Asia centrale complica lo scenario per le grandi potenze. L’interesse della Russia, dell’Uzbekistan e della maggioranza delle ex repubbliche sovietiche risiede nel consolidamento della CSI, che in sostanza è l’equivalente dell’URSS, ed è evidente per la maggioranza dei governi dell’area che gli elementi che giocano a favore dell’integrazione sono molto più solidi di quelli che premono per la dispersione. Ma anche gli Stati Uniti giocano le loro carte: gli investimenti realizzati dalle loro imprese in Kazakhstan sono molto più rilevanti di quelli che hanno realizzato in Russia, e contano sul fatto che si è ridotto l’interscambio commerciale tra Mosca e il resto delle repubbliche ex sovietiche e sulla tendenza ad incrementare il commercio con i paesi occidentali. Con la Cina sullo sfondo, il panorama è completato dall’Iran, che sta ridefinendo la sua politica nei confronti dell’Asia centrale: negli anni ’90, Teheran aveva intrapreso una politica estera orientata ad esportare la sua visione della rivoluzione islamica nelle cinque repubbliche dell’area, iniziativa che si è dimostrata clamorosamente disastrosa. Il nuovo orientamento, più pragmatico che ideologico, pone l’accento sugli scambi economici: gli accordi iraniani con il Turkmenistan per l’invio di gas all’Iran, e con il Tagikistan, che comprendono progetti industriali e di costruzione di gasdotti, ne sono un esempio. Nemmeno la politica di buon vicinato tra Turkmenistan e Iran rappresenta una buona notizia per Washington, che continua a speculare sulla possibilità di utilizzare il territorio turkmeno per un ipotetico attacco all’Iran. Le relazioni dell’Iran con l’Uzbekistan sono più fredde, in conseguenza della diffidenza uzbeka verso la retorica islamista di Teheran. Non sono queste le uniche potenze attente all’evoluzione dei fatti: il precedente primo ministro giapponese, Koizumi, ha visitato questa stessa primavera Kazakhstan e Uzbekistan. Obiettivo: assicurarsi forniture energetiche e minerali (dal rame al piombo, fino all’uranio), e in modo più nascosto, collaborare con gli Stati Uniti nel contenimento della Cina e della Russia in tutta l’Asia centrale. La discreta diplomazia nipponica non esclude di stimolare lo scontro tra Russia e Cina, come una via per far prosperare i propri interessi nella zona, sempre sotto l’attento sguardo di Washington.
 
La Comunità Economica Eurasiatica (CEE), formata da Russia, Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, è la chiave dell’organizzazione economica di parte dell’antico territorio sovietico. Non bisogna dimenticare che Washington continua a sabotare il tentativo della Russia di integrarsi nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, OMC, e che una delle carte giocate da Mosca è la creazione di uno spazio economico e doganale con la maggioranza delle ex repubbliche sovietiche. Russia, Kazakhstan e Bielorussia sono andate molto avanti su questo terreno, e insieme all’Ucraina (con lo status di osservatore della CEE) rappresentano la parte più sostanziosa di quello che era l’URSS. Un’altra entità, lo Spazio Economico Comune, sta rafforzando questa lenta integrazione e la creazione di nuovi legami. Non senza problemi, certamente. Nel gennaio 2006, l’Uzbekistan è entrato nella CEE e più tardi, nell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC, composta dai paesi che formano la CSI, più l’Armenia).
 
L’integrazione delle forze militari nella zona registra dei progressi: quest’estate, la OTSC ha organizzato delle esercitazioni militari, Frontiera 2006, dirette dal ministro della difesa kazakho, Mujtar Altinbaev, orientate ad evitare l’infiltrazione di gruppi armati (delle reti islamiste internazionali, dei movimenti autoctoni, o organizzati da servizi segreti occidentali) e ad aumentare la coesione e la sicurezza in tutta l’Asia centrale: sotto questo aspetto, gli interessi russi sono perfettamente coincidenti con quelli cinesi, ed entrano in collisione diretta con quelli dei nordamericani, e, seppur in minor misura, dei turchi (occorre ricordare che i servizi segreti nordamericani, israeliani e turchi lavorano insieme in molte operazioni: il rapimento del dirigente kurdo Abdullah Ocalan a Nairobi ne è un esempio). Un’altra delle organizzazioni che si è rafforzata negli ultimi anni, l’Organizzazione della Cooperazione di Shanghai (OCS, dove insieme a Russia e Cina, sono entrati Kazakhstan, Uzbekistan e altre repubbliche minori), sta creando un nuovo equilibrio strategico nella zona e nel mondo. Uno dei frutti della collaborazione, sempre più importante, tra i suoi membri, è il nuovo oleodotto Kazakhstan-Cina, che nel maggio 2006 ha cominciato a trasportare petrolio in Cina.
 
Questo è il panorama in cui si inserisce l’Uzbekistan, e dove le sue nuove alleanze stanno inclinando la bilancia in Asia centrale. Nikolai Bordiuzha, segretario generale dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, affermava alcune settimane fa che “la recente decisione dell’Uzbekistan di reintegrarsi nell’OTSC cambia radicalmente la situazione geopolitica non solo in Asia centrale, ma anche in tutto lo spazio post-sovietico”. In questo incrocio strategico, dove Stati Uniti, Russia e Cina devono vincere o perdere, si trova l’Uzbekistan, oppresso dal regime di Karimov, con la sua popolazione che prova nostalgia per il passato sovietico, guardando un’altra volta alla Russia.
 
Traduzione dallo spagnolo per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare