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Le scelte strategiche del Venezuela di Hugo Chávez
di Stefano G. Azzarà
(Pubblicato in “Il Calendario del Popolo”, Settembre 2002)

E’ possibile, a soli pochi anni dall’avvio della presidenza di Hugo Chávez, tracciare un primo parziale bilancio dell’esperienza della rivoluzione bolivarista venezuelana? Rivolgendo lo sguardo soltanto in ultima istanza agli eventi repentini delle settimane scorse - con il tentativo di colpo di Stato operato da parte di un ampio fronte politico-sociale e coordinato con il Dipartimento per gli affari latino-americani di Washington -, si tratta, riteniamo, di cogliere il significato di questo processo politico sia nel quadro della nuova strategia dell’egemonismo statunitense, sia in quello di una più ampia trasformazione dei rapporti di forza internazionali.
A guardar bene, infatti, siamo da tempo di fronte a nuove dinamiche politiche di portata generale e le contraddizioni che sembrano aprirsi nel progetto di “nuovo ordine mondiale”, varato dagli Stati Uniti dopo la sconfitta del campo socialista, sembrano assumere, oggi, un nuovo significato. Chi, soltanto qualche tempo fa, avesse tentato di contestare la solidità della leadership statunitense e la sua capacità di costruire un ordine unipolare del mondo, plasmando a proprio beneficio il diritto internazionale e le regole del commercio mondiale, certamente e a ragion veduta sarebbe stato considerato come una sorta di eretico dal coro degli ottimisti della “globalizzazione”[1]. Come sembrava dimostrare l’esperienza della Guerra del Golfo, incontrastato appariva sia il dominio nordamericano sul resto del pianeta, sia la capacità degli USA di utilizzare i principali organismi internazionali, come la stessa ONU, quali fonti di legittimazione dei propri interessi strategici. A dieci anni di distanza – nonostante l’evidente persistere del dominio geopolitico americano e del suo insuperabile primato militare - il contesto appare drasticamente mutato, mentre i singoli episodi di contrapposizione al progetto imperialista del terzo millennio si vanno moltiplicando, fino ad assumere l’aspetto e la consistenza di una nuova ondata di resistenza internazionale.
Certo - per parlare del caso di cui qui ci occupiamo - chi poteva prevedere che in un paese così importante sul piano strategico come il Venezuela, detentore di ingenti giacimenti di petrolio e collocato nel “cortile di casa” degli USA, potesse prender vita un esperimento così promettente come la rivoluzione nazionale guidata da Hugo Chávez in nome degli ideali bolivariani di un’America Latina unita e indipendente da ogni egemonismo, nonché di una concezione multipolare dei rapporti internazionali? Ma il Venezuela non è un caso isolato. Come si poteva pensare, soltanto 10 anni fa, che la strenua resistenza del popolo cubano – stretto attorno alla sua leadership e al partito comunista nella difesa della propria dignità nazionale e del proprio esperimento di socialismo – sarebbe riuscita a sopravvivere allo strangolamento e al tentativo di genocidio perpetrato dagli Stati Uniti, attraverso la vile arma di un embargo che colpisce persino i medicinali e i generi di prima necessità? Come si poteva pensare che un popolo ancora più piccolo, come quello degli indios del Chiapas, potesse avere la forza di opporsi ai progetti neocoloniali degli USA e della locale borghesia compradora, prendendo le armi in nome – come dice lo stesso Marcos – della difesa dello Stato nazionale messicano, aggredito dall’ennesima guerra economica di conquista[2]? Come si poteva sperare nella capacità delle FARC colombiane non solo di sostenere una guerriglia di lunga durata contro i paramilitari e un esercito addestrato e armato direttamente dagli USA, ma anche di conquistare e amministrare, in nome dell’autodeterminazione dei popoli e dei principi del socialismo, la metà del territorio nazionale della Colombia? Chi, poi, avrebbe scommesso qualcosa sulle capacità del popolo palestinese e della sua leadership di proseguire la lotta di liberazione nazionale contro l’occupazione coloniale sionista, respingendo la trappola della finta “proposta di pace” di Barak e rilanciando l’Intifada?
Numerosi altri potrebbero essere gli esempi citati, a cominciare dalla lotta del popolo kurdo (pur decapitato della sua leadership) e dalla resistenza dell’Irak, anch’esso sottoposto ad un embargo feroce che, come è noto, provoca la morte di circa centomila bambini l’anno. Fino – passando per il nuovo protagonismo della Siria del giovane Bashar Assad - agli sforzi della Libia e del Sudafrica di consolidare, pur tra mille contraddizioni, uno spazio geopolitico africano coeso. Non parliamo, poi, del più generale fenomeno di crescita della Repubblica Popolare Cinese, destinato – come indicano autorevoli economisti e politologi internazionali[3] – a sconvolgere completamente, nel corso dei prossimi decenni, tutti gli scenari mondiali, sia sul piano macroeconomico che su quello politico. Sembra chiaro, insomma, che non si tratta più di singoli atti di resistenza disperata e priva di prospettive. Considerando anche il risveglio generalizzato dei fenomeni di contestazione sociale al liberismo, si può parlare di un movimento che ha assunto ormai una dimensione planetaria e un significato generale e che ben presto potrebbe essere maturo per porsi il problema di una unificazione delle lotte, chiamando l’intera sinistra mondiale ad un grande rinnovamento dei propri schemi interpretativi e ad una presa di posizione politica.
Non c’è dubbio che, in questo quadro, l’esperienza del Venezuela sia una tra le più significative e promettenti. Il Venezuela è, infatti, il terzo o il quarto paese produttore di petrolio al mondo, ed è il secondo paese di approvvigionamento per gli Stati Uniti dopo l’Arabia Saudita (il primo durante l’amministrazione Clinton). Tra i fondatori dell’OPEC - con Perez Alfonso -, il Venezuela sostiene negli anni Settanta la politica di fermezza petrolifera operata da questa organizzazione. Se le ricchezze energetiche consentono per un certo periodo la crescita del paese e il consolidarsi di una classe media relativamente consistente, negli ultimi decenni ogni processo redistributivo e ogni sviluppo generale pare però essersi arrestato. Alla fine degli anni Novanta, il Venezuela appariva sotto il saldo dominio di una borghesia compradora tanto ricca quanto corrotta, abile tessitrice di legami finanziari con le grandi compagnie petrolifere americane e tenace esportatrice di capitali all’estero. E’ così che un paese che in 25 anni ha esportato petrolio per circa 300 miliardi di dollari si vede dilaniato da una gravissima frattura sociale: mentre una ristretta élite di grandi proprietari si spartisce le immense risorse del territorio, l’80 % circa della popolazione è sotto la soglia di povertà o immediatamente al di sopra di essa. I dati sono disastrosi: prima delle elezioni del 1998, la disoccupazione raggiunge il 25 % e il lavoro nero il 33 %, mentre circa 200.000 bambini sono costretti a mendicare per sopravvivere[4]. E’ uno scenario abbastanza consueto per molti paesi dell’America Latina; aggravato però dal fatto che le ricchezze petrolifere sarebbero sufficienti, in questo caso, a garantire una vita dignitosa per tutta la popolazione.
Dopo una lunga serie di dittature, a partire dagli anni 1959-61 si inaugura in Venezuela una fase “democratica”. Nei decenni successivi, la scena politica vedrà l’alternanza di due partiti, Acción Democratica, di orientamento socialdemocratico, e il Copei, di ispirazione democratico-cristiana. Come spesso avviene in America Latina, il “monopartitismo competitivo” è però sinonimo di due diverse cordate, egualmente rapaci, che si danno il cambio nell’appropriazione delle risorse del paese: negli anni dell’alternanza “democratica”, la corruzione e la povertà dilagano senza freni e il Venezuela ne esce devastato[5].
E’ in questo contesto che avviene la formazione politica di Hugo Chávez. Ufficiale dell’esercito nel corpo dei paracadutisti, Chávez studia Scienze Politiche ed acquisisce dunque dimestichezza con le diverse correnti del pensiero politico. Nonostante approfondisca le teorie marxiste-leniniste e - come dimostrano le citazioni presenti nei suoi discorsi - legga Antonio Gramsci (autore molto conosciuto in tutta l’America Latina), la sua formazione è però sostanzialmente di stampo bolivarista[6]. Una prima data molto importante in questo percorso è il 1982: insieme ad un gruppo di ufficiali dell’esercito di orientamento progressista e nazionalista, Chávez fonda un’organizzazione segreta il Movimento Bolivariano Rivoluzionario – 200. Il movimento gode di un certo seguito negli ambienti militari e riesce a svolgere in clandestinità ben cinque congressi. E’ il 1989, però, l’anno decisivo per giovane ufficiale e per l’intero Venezuela. Il Fondo Monetario Internazionale impone al paese alcune misure di aggiustamento strutturale e il presidente, il socialdemocratico Carlos Andrès Pérez, le accoglie. Ne consegue il cosiddetto “Caracazo”: una grande rivolta popolare che viene repressa nel sangue dall’esercito. Alla fine, si conteranno circa 4.000 morti.
La maturazione politica di Hugo Chávez è ormai giunta a compimento. Nel 1992 entra prepotentemente sulla scena politica del paese capeggiando un tentativo di insurrezione militare contro il presidente Pérez[7]. L’azione fallisce e Chávez viene arrestato, ma le sue dichiarazioni al paese, trasmesse dalla televisione, gli assicurano un notevole consenso tra la popolazione. Qualche tempo dopo, il presidente Pérez è destituito e arrestato per corruzione. Il successore, il premier di centro-destra Rafael Caldera, sarà costretto a concedere l’indulto a Chávez per non urtare gli umori popolari. Nel 1996 Caldera vara un nuovo piano di austerità, che provoca nuovi scontri nel paese. Chávez, ormai libero, percorre il Venezuela per propagandare le proprie idee bolivariste e, in seguito, per sostenere il Polo Patriottico, la formazione politica nata dall’alleanza tra il suo “Movimento V Repubblica” e le sinistre, tra cui anche il Partito Comunista del Venezuela. Alle elezioni presidenziali della fine del 1998, Chávez vincerà con il 56,2 % dei consensi.
Il suo mandato inizia, nel 1999, con un’operazione politica dal grande significato. Chávez lancia il progetto di un’Assemblea Nazionale Costituente, con il compito di varare rapidamente una nuova Costituzione che ponga le basi per il rinnovamento integrale e la rinascita del paese. La proposta viene sottoposta a referendum e – nonostante il 60,9 % di astensioni – viene approvata con l’88 % di sì. Nell’Assemblea Nazionale Costituente il Polo Patriottico ha circa il 92 % dei seggi, 121 su 131. Dopo qualche tensione con il parlamento vigente, si entra in una fase di coabitazione tra le due assemblee e iniziano i lavori costituenti che mettono capo, in pochi mesi, ad un vasto ed organico progetto di riforma costituzionale che prevede il passaggio dalla Repubblica venezuelana alla Repubblica bolivariana del Venezuela. Nel dicembre 1999, il progetto costituzionale è sottoposto a referendum e viene approvato con il 71,15 % di sì. Nel luglio 2000, infine, come prevede la Costituzione appena varata, si svolgono le cosiddette “mega-elezioni”: si tratta di un rinnovamento integrale dell’architettura istituzionale venezuelana, con il simultaneo ricambio della classe dirigente ad ogni livello di responsabilità politica, dai comuni fino alla stessa Presidenza della Repubblica. E’ l’avvio di una fase politica interamente nuova, il vero inizio della Rivoluzione Bolivariana. Chávez si sottopone nuovamente alla prova elettorale e prevale sull’ex alleato Francisco Arias Cárdenas - il candidato presentato dalle opposizioni quale rappresentante di una rivoluzione “moderata” – di 20 punti, ottenendo, con il 56,93 % dei suffragi, un consenso ancora superiore, seppur di poco, rispetto a quello del primo mandato. Il Polo Patriottico conquista il governo in 15 stati su 23 e si vede assegnati 165 deputati. Nell’agosto del 2000 si insedia la nuova Assemblea Nazionale[8].
Questa imponente trasformazione costituzionale era necessaria per proseguire il progetto rivoluzionario di Chávez. Si trattava di acquisire una posizione di forza indispensabile per sconfiggere i vecchi partiti, AD e Copei, e fronteggiare il forte blocco sociale alle loro spalle: una vasta alleanza che attorno all’alta borghesia legata allo sfruttamento del petrolio vede stretti i grandi latifondisti, una fitta ragnatela di banche, le gerarchie ecclesiastiche, le grandi catene giornalistiche e i network televisivi privati e persino la CTV, il corrotto sindacato “ufficiale” venezuelano. Un blocco che poteva contare, oltretutto, sull’appoggio interessato delle grandi multinazionali petrolifere statunitensi operanti nel paese. In queste condizioni, era indispensabile dimostrare di poter contare su un consenso popolare ancora più vasto. Era indispensabile, soprattutto, acquisire una solida maggioranza parlamentare (prima del voto, AD e il Copei erano ancora in vantaggio alla Camera e al Senato), che consentisse di operare – come dice il ministro Rafael Vargas – una serie di «mutamenti nella struttura economica» e innescare, in tal modo, un processo di trasformazione generale del paese. Non si tratta certamente, sia chiaro, di un «progetto di costruzione del socialismo»[9]. Il progetto chavista consiste però, come vedremo, in un forte e progressivo programma “patriottico”, di «salvezza nazionale» o «nazional-borghese»[10], in grado di mobilitare le migliori energie del paese nella prospettiva di un radicale processo di democratizzazione, in direzione di uno sviluppo dal carattere universalistico.
Il nuovo governo è immediatamente sotto attacco da parte dell’opposizione e di tutti i mass media, a questa direttamente legati. Si accusa Chávez di aver accentrato nelle proprie mani poteri spropositati e di aver instaurato una dittatura presidenziale personalistica, all’insegna del filo-castrismo e del comunismo. In realtà, se la nuova Costituzione allunga il mandato del presidente (da 5 a 6 anni), gli conferisce però margini d’azione nettamente minori rispetto a quelli precedenti. Essa afferma il principio della separazione dei poteri – legislativo, esecutivo, giudiziario, di cittadinanza ed elettorale - e dà al presidente unicamente la guida dell’esecutivo. Lo sottopone, inoltre, a una serie di controlli, non consentendogli più di due mandati e prevedendo una procedura referendaria per rimuoverlo[11]. Anche le accuse di autoritarismo e repressione nei confronti delle opposizioni risultano palesemente calunniose: nessuna repressione si registra nel paese e nessun arresto viene effettuato, mentre praticamente tutti i mezzi di comunicazione di massa – che si impegnano in modo accanito nella campagna di diffamazione del presidente e di esasperazione artificiale delle tensioni politiche - rimangono nelle mani dell’opposizione. Nel 2000, oltretutto, riconoscendo di non poter garantire un corretto svolgimento delle votazioni, con grande senso di responsabilità il governo fa slittare di due mesi la convocazione delle “mega-elezioni”; tutti gli osservatori internazionali concorderanno, a scrutinio ultimato, sulla loro piena democraticità. Infine, del tutto incontestabile è il consenso di massa di cui Chávez gode nell’intero paese e in particolar modo tra gli strati più poveri della popolazione.
Ad uno sguardo più approfondito, poi, la Costituzione bolivarista voluta da Chávez si presenta come la più avanzata, democratica e progressista dell’intera America Latina, se si eccettua la sola Cuba. Sul piano economico, essa pone le basi per la costruzione di un sistema misto pubblico-privato. Lo Stato, dice l’art. 299, «insieme all’iniziativa privata, promuoverà lo sviluppo armonioso dell’economia nazionale». Essa riconosce la proprietà privata e l’iniziativa imprenditoriale e non è dunque - come avevamo già detto - una costituzione di natura socialista; e però conferisce allo Stato decisivi poteri di intervento nell’economia e altrettanto importanti funzioni di pianificazione economica: si tratta di «garantire una giusta distribuzione della ricchezza tramite una pianificazione strategica, democratica e partecipativa»[12]. All’articolo 307, la Costituzione dichiara il latifondo «contrario all’interesse sociale», ponendo dunque le basi per i successivi progetti di più equa distribuzione della proprietà della terra, con la trasformazione delle «terre incolte» in «unità economiche produttive» volte ad assicurare il «diritto alla proprietà della terra» da parte dei campesinos. Allo Stato è riservato lo sfruttamento dell’attività petrolifera, delle acque e del sottosuolo (artt. 302-304), mentre gli si fa obbligo di sostenere le attività artigianali e turistiche, per fronteggiare i processi di impoverimento del ceto medio (artt. 305, 309 e 310). Decisamente di enorme rilievo sono gli articoli che delineano la costruzione di un grande sistema di garanzie sociali universali: «ogni persona ha diritto alla sicurezza sociale in quanto servizio pubblico» (art. 86). Si sancisce il diritto di tutti i cittadini ad avere una pensione minima e un salario minimo (art. 80); la necessità di edificare un «sistema sanitario nazionale pubblico» secondo i «principi della gratuità e universalità» (art. 84); di assicurare una scuola pubblica «democratica, gratuita e obbligatoria» (art. 102); di garantire libero accesso all’informazione rafforzando il servizio pubblico radiotelevisivo (art. 108). La Costituzione fissa inoltre l’orario di lavoro settimanale, stabilendo il principio della riduzione dell’orario di lavoro (da 48 a 44 ore), il diritto al riposo settimanale e alle ferie pagate, i diritti sindacali e di sciopero, le garanzie per i delegati sindacali, la legittimità dei contratti collettivi (artt. 89 sgg., 118, ecc.). Essa prevede anche forti elementi di “democrazia partecipativa”, rafforzando notevolmente i poteri e l’autonomia dei comuni e degli enti locali e istituendo i referendum di iniziativa popolare. Tutti gli eletti possono essere sottoposti a una verifica elettorale a metà mandato e sono responsabili di fronte alle assemblee popolari (art. 62 sgg.).
Progressivi sono anche gli articoli che riguardano i diritti civili: si afferma l’inviolabilità del principio dell’habeas corpus e si limitano i poteri di polizia, si sancisce il diritto all’obiezione di coscienza, si istituiscono le figure del pubblico ministero e del difensore del popolo, si afferma la totale parità tra i sessi, si prevede la creazione di un “potere morale” pubblico che contrasti il dilagare della corruzione e degli abusi. Inoltre – cosa estremamente significativa – vengono sanciti i pieni diritti degli indios che abitano le regioni amazzoniche venezuelane: essi collaborano direttamente e attivamente alla scrittura della Costituzione e hanno adesso un loro rappresentante sia all’Assemblea Nazionale che nei comuni amazzonici (artt. 19 sgg., 55, 119 sgg., 273).
I problemi che il nuovo governo deve affrontare una volta insediato sono enormi: sanità, alloggi, alimentazione, strade, servizi… Il paese appare disastrato e la grande alluvione della notte tra il 15 e il 16 dicembre 1999, alla fine della quale i morti saranno decine di migliaia e i danni incalcolabili, aggraverà ancor di più la situazione. Ecco allora, tra i primi atti del governo, il Piano Bolivar 2000: l’esercito nazionale viene messo al lavoro per riparare strade ed edifici pubblici, organizzare i servizi e i mercati popolari[13]. Esso viene mobilitato in una sorta di “guerra alla povertà” che viene considerata come la più urgente priorità nazionale. Ma l’azione di Chávez si muove su più fronti. Attraverso l’istituzione di diversi enti - una Banca del Popolo, una Banca delle donne, un Fondo di sviluppo della micro-impresa e un Fondo intergovernativo per la decentralizzazione – lo Stato è ora in grado di erogare finanziamenti pubblici sulla base della presentazione di progetti di sviluppo[14]. E’ varato un piano di lavori temporanei per i disoccupati. Vengono fronteggiati i problemi più urgenti: un piano sanitario prevede la distribuzione gratuita di medicinali per i nullatenenti, la costruzione di ospedali e ambulatori, la lotta alle malattie endemiche (la malaria, ad esempio, è ancora molto diffusa in Venezuela). Con il piano scolastico, la scuola pubblica diventa gratuita e gli studenti hanno ora diritto alla mensa e a svolgere negli istituti scolastici attività culturali, sportive e manuali; il sistema scolastico viene unificato e i salari degli insegnanti – finora sottopagati – vengono aumentati. Massiccio è anche l’intervento pubblico in economia. Viene riconosciuto il diritto alla previdenza sociale alle madri e agli ultrasessantacinquenni privi di versamenti. Si sancisce il principio della “giusta causa” nella risoluzione dei rapporti di lavoro; si mette in atto la riduzione dell’orario di lavoro; si decreta – si tratta di una delle misure che più ha innescato le ire della grande borghesia – un aumento del 20 % per i salari da lavoro dipendente[15]. Più in generale, il governo si sforza di programmare per il Venezuela uno sviluppo economico autonomo. Si tratta di bloccare per quanto possibile le privatizzazioni già orchestrate dai precedenti governi, ma soprattutto di costruire un nuovo modello di sviluppo. E’ necessario diversificare l’economia del paese, cercando di renderlo meno dipendente dal petrolio, attivando un piano di sviluppo industriale e incentivando, attraverso sgravi fiscali, la creazione di nuovi poli produttivi. Intensa, anche se con risultati ancora del tutto insufficienti, è infine la lotta alla corruzione dilagante.
«Al di là della crisi economica», spiegava lo stesso Chávez con accenti gramsciani, «il Venezuela stava soprattutto attraversando una crisi morale ed etica, dovuta alla mancanza di sensibilità sociale dei suoi dirigenti. Ora, la democrazia non è solo uguaglianza politica; è anche, anzi soprattutto eguaglianza sociale, economica e culturale. Sono questi gli obiettivi della rivoluzione bolivariana»[16]. Si tratta – come ormai è chiaro – di un vasto programma di riforme di schietta ispirazione nazional-borghese. Un programma che, nelle condizioni del Venezuela e dell’America Latina più in generale, risulta però di altissimo profilo sociale ed estremamente avanzato in senso progressivo. E’ quanto basta, del resto, per scatenare una fortissima opposizione da parte dei settori sociali dominanti, che avevano fino a quel momento governato incontrastati e che vedono adesso minacciata sia la propria rendita di posizione economica, sia il proprio tradizionale monopolio politico. Ed ecco allora la scientifica campagna dei mass media contro Chávez, che può contare sul sostegno della sola televisione pubblica. Cosa non meno importante, i ceti dominanti mettono in atto un sistematico piano di lotta economica[17]. Si scatena una fuga di capitali: già nel 1999, circa 7.800 milioni di dollari sono esportati illegalmente all’estero. Viene praticato attivamente il sabotaggio della produzione industriale e agricola e così il PNL venezuelano crolla del 9 % in 18 mesi, mentre la disoccupazione cresce vertiginosamente. Ad un certo punto arriva però l’inversione. La congiuntura internazionale porta in alto il prezzo del petrolio, con consistenti ricadute sull’economia. Il PNL sale del 3,2 % nel 2000 e del 2,7 nel 2001, mentre nel resto dell’America Latina la media raggiunge appena lo 0,5 %[18]. Intanto, un milione di bambini hanno ora accesso alle scuole pubbliche divenute, dopo la riforma, gratuite. Lentamente ma significativamente calano gli indici della disoccupazione, dell’evasione fiscale e – cosa ancor più importante – della mortalità infantile[19].
Enormi, ovviamente, sono i problemi che continuano a gravare sul Venezuela e anche le difficoltà più urgenti sono ancora ben lungi dall’essere minimamente risolte. I risultati dell’azione di Chávez sono certamente troppo lenti, rispetto alle esigenze del paese e alle aspettative suscitate dalla rivoluzione. L’alleanza politica che sostiene il presidente non è priva di contraddizioni e rivalità e manca di un’organizzazione politica solida e capillare. Frequenti sono i casi di opportunismo e di corruzione. Persistono le piaghe del lavoro nero e della delinquenza. Anche il personalismo dello stesso Chávez risulta a volte eccessivo. E però, non è possibile non riconoscere la grande novità della nuova fase politica venezuelana e la sua netta controtendenza – sul piano della giustizia sociale e della garanzia dei diritti universali - rispetto alla sacralità dei principi economici liberisti sanciti dal “consenso di Washington” dopo la vittoria nella Guerra fredda. E’ decisamente una svolta, l’apertura di una nuova stagione che si pone quale possibile modello per l’intera America Latina, come è possibile verificare in maniera ancora più evidente se dal piano della politica interna ci spostiamo a quello – forse ancor più decisivo – delle questioni di politica estera.
E’ su questo terreno che l’azione politica di Hugo Chávez mostra la sua ampiezza di respiro e la sua portata strategica, rivelandosi estremamente promettente ed entrando in rotta di collisione con i progetti “globali” nordamericani. Con lo sguardo rivolto al dominio statunitense nell’emisfero occidentale, Chávez si fa infatti promotore di una linea rigorosamente antimperialistica, costruita sulla base di una visione multipolare dello sviluppo economico mondiale e di una concezione delle relazioni internazionali saldamente ancorata al principio dell’autodeterminazione dei popoli. Questa linea afferma la necessità di una totale inversione di rotta nella gestione dei rapporti tra Nord e Sud del mondo e della ricerca di una reale cooperazione, per riequilibrare i rapporti tra paesi produttori di materie prime e paesi consumatori, al fine di promuovere lo sviluppo dei primi. In questo senso, importanza decisiva assume l’affermazione dell’autonomia regionale dell’America Latina.
Il primo banco di prova al quale è possibile verificare questa impostazione è la questione petrolifera[20]. Nel corso del 2000 il Venezuela è presidente di turno dell’Opec e si fa carico di organizzare a Caracas una conferenza dei paesi produttori di petrolio. Chávez parte per promuovere l’iniziativa, in un viaggio di 10 giorni che fa tappa in tutti le capitali interessate. Il presidente venezuelano si reca però non solo in Arabia Saudita, in Indonesia o in Algeria, ma si ferma anche in Iran e, soprattutto, in Libia e in Irak. Per evitare di attraversare la zona di non sorvolo, arriva a Baghdad attraversando il deserto in automobile e incontra Saddam Hussein. Si comprende l’irritazione che questa mossa suscita nell’amministrazione americana. Tanto più che Chávez si fa sostenitore, nel corso di questi incontri e della successiva conferenza di Caracas, di una nuova politica petrolifera coordinata. Ricordiamo la brusca inversione nella congiuntura petrolifera di quei mesi, con il prezzo del greggio che – a lungo attestato tra i 10 e i 15 dollari al barile (una cifra iniqua e del tutto penalizzante per i paesi produttori) - era improvvisamente schizzato verso l’alto. Chávez propone ai paesi dell’Opec di stabilizzare i prezzi entro una forbice tra i 22 e i 28 dollari al barile, attraverso un controllo sistematico e concertato della produzione. Coerentemente, il Venezuela si impegnerà a ridurre unilateralmente le proprie estrazioni. Chávez, inoltre, spinge per integrare stabilmente nell’Opec paesi come la Russia, il Messico e la Norvegia, e propone di dotare l’organizzazione di una propria Banca di sviluppo, che funga da «contrappeso» al Fondo Monetario Internazionale e si ponga al servizio del Terzo Mondo[21].
E’ un fatto: la presidenza Chávez coincide con uno dei maggiori cicli di rialzo del prezzo del greggio degli ultimi anni; e coincide, inoltre, con il minimo storico delle riserve petrolifere degli Stati Uniti. Non è difficile capire – sottolinea l’editorialista di “Le Monde” Jean-Michel Caroit - come Chávez stia cercare di utilizzare la questione petrolifera e la congiuntura energetica per porre in rilievo la più generale «questione dello scambio diseguale»[22] tra paesi produttori e paesi consumatori, tra Sud e Nord del mondo. Ed è comprensibile, dunque, che in questa prospettiva risulti decisiva la trasformazione dell’Opec da organizzazione meramente «passiva» e prona ai desiderata degli Usa e delle grandi multinazionali occidentali a organizzazione «attiva» e capace di promuovere una politica di sviluppo alternativa[23]. Se ricordiamo in quali direzioni si siano orientati gli interventi militari degli Stati Uniti nel corso dell’ultimo decennio, non ci vuole molto a constatare, a questo punto, come si apra qua un vero e proprio conflitto strategico con Washington e con il suo progetto egemonico di controllo politico (ma anche territoriale) delle aree su cui giacciono le residue maggiori petrolifere mondiali residue[24].
Ma le novità della politica estera di Chávez non finiscono qua, perché il presidente venezuelano mostra di avere anche una chiara progettualità geopolitica in ambito regionale. Ricordiamo che la nuova Costituzione del Venezuela si impegna a «promuovere la cooperazione pacifica tra le nazioni e a portare avanti e consolidare il processo di integrazione latino-americana in accordo con il principio della non interferenza e dell’autodeterminazione dei popoli», nella «prospettiva della creazione di una comunità di nazioni» dell’area (Preambolo; art. 153). Come se non bastasse, il testo pone coerentemente il divieto all’installazione di «basi militari straniere» sul territorio nazionale venezuelano (art. 13). E’ chiaro a cosa tutto ciò faccia riferimento. Ispirandosi ai principi del bolivarismo, la Costituzione chavista si fa promotrice della visione di un’America Latina concorde e libera, capace di svilupparsi armonicamente in autonomia e indipendenza da ogni condizionamento politico esterno e, soprattutto, dall’egemonismo dell’invadente vicino statunitense.
E’ movendo da queste basi ideali che Chávez condurrà la sua politica regionale[25]. Ispirandosi allo slogan «con Bolivar e Martì», il Venezuela stabilisce ora rapporti privilegiati con Cuba. Chávez incontra personalmente Fidel Castro, difende a spada tratta l’indipendenza dell’isola socialista e dichiara ammirazione per il leader comunista. Violando l’embargo imposto dagli Stati Uniti, soprattutto, il Venezuela esporterà massicciamente petrolio verso l’isola, assicurando ben il 30 % dei rifornimenti su cui questa può oggi contare. In cambio, Cuba si impegnerà a fornire al Venezuela quel personale medico e quei servizi sanitari di cui il paese latino-americano risulta estremamente carente.
Ma non è tutto. Con un gesto clamoroso, Chávez interrompe la prassi delle esercitazioni militari congiunte che da anni le forze armate venezuelane svolgevano assieme a quelle statunitensi. Rifiutando di adeguarsi ai diktat altrui, poi, si dichiara nettamente contrario al “Plan Colombia”, il progetto regionale statunitense di sostegno alle autorità colombiane, varato con l’obiettivo ufficiale della lotta al narcotraffico e al narcoterrorismo ma rivolto, in realtà, a stroncare la guerriglia marxista-leninista delle FARC. Conseguentemente, Chávez proibisce agli aerei militari americani in rotta verso la Colombia il sorvolo dello spazio aereo venezuelano. Infine, al vertice della Comunità andina del 9 giugno 2000 – al quale partecipano anche Bolivia, Ecuador, Perù e Colombia – Chávez promuove la creazione di un mercato comune regionale che unisca i paesi dell’area e si coordini al Mercosur. Inoltre, si fa sostenitore della creazione di un blocco nazionalista andino da realizzare entro il 2005[26].
Cosa significa tutto ciò e che conseguenze comporta? E’ chiaro che si apre su queste questioni un secondo fronte di conflitto strategico con gli Stati Uniti. Non si tratta solo del fatto che la politica estera venezuelana si muove per quanto possibile autonomamente, collocandosi al di fuori dei rigidi dettami di quella Dottrina Monroe che regola da sempre la politica regionale degli USA e definisce lo spazio panamericano come il “cortile di casa” di Washington. Ancor più che le questioni di principio, valgono quelle materiali: si apre qui lo spazio per un contenzioso estremamente concreto, legato ai progetti di cooperazione regionale promossi dagli USA. E’ noto, infatti, che proprio il 2005 dovrebbe essere l’anno di entrata in funzione dell’Alca (o Ftaa), il trattato di libero commercio che istituisce l’area di libero scambio panamericana, integrando il Nafta con le altre organizzazioni regionali. E’ un progetto di portata strategica per gli Stati Uniti, che – nell’ambito della più generale tendenza al consolidamento su scala mondiale di Grandi Spazi geopolitici e geoeconomici[27] - stanno cercando ormai da anni di integrare l’intera piattaforma continentale dell’emisfero occidentale, per creare a proprio vantaggio un unico immenso mercato. Nella prospettiva di rilancio della leadership planetaria americana per il XXI secolo, si tratta di un progetto di vitale importanza, considerato imprescindibile per sostenere la crescente competizione tra grandi poli imperialistici e, soprattutto, in vista della crescita prorompente dell’area sinica e del suo ingresso sullo scenario internazionale. Oltretutto, strettamente connessi con questi progetti di natura economica sono, non bisogna dimenticarlo, i piani paralleli di integrazione militare dell’area (complementari a quelli di riforma e allargamento della Nato nell’altro emisfero). Sono piani rivolti ad assicurare agli Stati Uniti – tramite la costituzione di organismi di coordinamento e di strutture militari congiunte – una possibilità di intervento immediato e capillare in ogni paese della regione, a garanzia del rispetto e del funzionamento degli accordi da parte di tutti i partner, per impedire inopportune dissociazioni dall’allineamento filo-americano e per prevenire ogni possibilità di “disturbo”, nonché per contenere sul piano militare ogni forma di conflittualità sociale[28].
E’ chiaro, a questo punto, che le ricadute del processo politico avviato dalla rivoluzione bolivarista in Venezuela hanno avuto una portata tale da aprire enormi contraddizioni, sia sul piano della politica interna che, soprattutto, su quello della politica estera. Già il 29 gennaio 1999 il sottosegretario americano Peter Romero avverte: «In Venezuela, il governo è senza guida e noi, i gringos, non siamo noti per essere pazienti»[29]. Le opposizioni interne, poi, non lasciano passare giorno senza denunciare la pericolosa ingerenza del governo Chávez nel libero svolgimento dell’attività economica. Ce n’è abbastanza, come abbiamo visto, per determinare una pronta controffensiva da parte di tutti quei settori che sono stati direttamente e pesantemente colpiti nei propri interessi vitali dal nuovo corso della politica chavista. Era del tutto prevedibile, dunque, date queste condizioni oggettive, che la situazione precipitasse molto rapidamente.
L’occasione per l’apertura del conflitto si ha 13 novembre del 2001, quando Chávez tenta di operare una forte radicalizzazione della rivoluzione emanando 49 decreti legge, alcuni dei quali riguardano questioni dirimenti[30]. Con la Legge della terra, il governo venezuelano vara una vasta riforma agraria, imponendo l’esproprio delle terre sottoutilizzate. Ricordiamo, a tal proposito, che in Venezuela l’1 % della popolazione detiene tuttora più del 50 % delle terre coltivabili. Si tratta, dunque, di una misura del tutto ragionevole, indispensabile per garantire condizioni minime di sviluppo per le masse contadine della regione, ridotte alla fame. E però si tratta di una radicale “riforma di struttura”, una riforma che interviene direttamente – in controtendenza su scala mondiale – nell’ambito degli stessi diritti di proprietà. E’ una decisione dalle ripercussioni enormi. Così come lo è quella presa con la Legge sugli idrocarburi, che impone un fortissimo aumento (dal 16,6 al 30 %) delle royalties sullo sfruttamento del petrolio dovute allo Stato venezuelano dalle compagnie petrolifere, e alza al 51 % la partecipazione statale nelle imprese del settore degli idrocarburi[31]. Anche in questo caso, la sacralità della proprietà privata è violata, anche se indirettamente.
Con queste leggi, il governo di Chávez interviene direttamente a colpire gli interessi vitali dei segmenti più forti del blocco sociale dominante, gli agrari e la grande borghesia petrolifera. A questo punto, il decorso degli eventi appare segnato[32]. Si rinserra l’alleanza tra Federcámaras (la Confindustria locale) e il sindacato CTV, che proclamano un primo sciopero generale per il 10 dicembre 2001. Da quel momento, mentre le marce anti-chaviste si susseguono nella capitale - con la risposta immediata dei sostenitori del presidente –, i mass media in mano all’opposizione intensificano la loro campagna di disinformazione e di sobillazione del ceto medio, invitando apertamente alla pratica dei “cacerolazos”[33]. Il 5 marzo 2002, Federcámaras e CTV, autoproclamatesi “società civile”, stringono un accordo esplicito, alla presenza di alcuni vescovi, per un «patto nazionale di governabilità» e per «la rimozione democratica e costituzionale» del presidente[34]. Intanto, quattro militari dissidenti – tra i quali Pedro Soto, fino a poco prima stretto collaboratore di Chávez – annunciano pubblicamente in televisione la loro presa di distanze dal “regime”.
E’ a questo punto che interviene la questione della PDVSA, la grande compagnia petrolifera venezuelana[35]. Si tratta di un’enorme compagnia anonima, avente come solo azionista lo Stato e diretta da una quarantina di alti funzionari, designati spesso come i “generali del petrolio”. Una ricca e privilegiata borghesia compradora, che conduce una politica ostile alla linea del governo violando apertamente le quote stabilite dall’Opec e spianando la strada alla privatizzazione dell’ente. Chávez intende assumere il controllo di questo istituto, il cui ruolo è strategico per il governo di uno Stato che nel petrolio ha la sua risorsa praticamente esclusiva. Designa un nuovo presidente e una nuova direzione ed entra così in conflitto diretto con la gestione in carica, che - gridando allo scandalo per la violazione della “meritocrazia” e per la “politicizzazione” dell’ente pubblico - mobilita i quadri della compagnia appellandosi anche ai lavoratori. La “società civile” chiama subito allo “sciopero” del settore, uno sciopero che è in realtà una vera e propria serrata.
Già il 6 febbraio 2002, da Washington, Colin Powell ha pubblicamente messo in dubbio «che Chávez creda realmente alla democrazia» e ha aspramente criticato le sue visite a «governi ostili agli USA e sospetti di sostenere il terrorismo, come Saddam Hussein e Gheddafi»[36]. Gli Stati Uniti minacciano una sospensione delle esportazioni verso il Venezuela, mentre cominciano a intensificarsi i contatti tra il Dipartimento Esteri americano e i settori che guidano l’opposizione a Chávez. Il famigerato sottosegretario per gli Affari intra-americani Otto Reich - strettamente legato agli ambienti dei fuoriusciti cubani di Miami – riceve il sindaco dell’area metropolitana di Caracas, grande oppositore di Chávez, e incontra in seguito il presidente di Federcámaras Pedro Carmona e il vicesegretario della CTV Manuel Cova. Il capo del Comando Sud delle forze armate statunitensi, intanto, non nasconde la sua fiducia: «Il Venezuela è il paese in cui c’è il maggior numero di ufficiali formati nelle nostre accademie nordamericane, e perciò noi siamo sicuri di questo paese»[37].
Siamo all’epilogo. Lo sciopero del 9 e 10 aprile a “difesa” della PDVSA ha un successo soltanto parziale, ma l’opposizione proclama lo sciopero generale illimitato. I militari appaiono nuovamente sulle televisioni private. L’11 aprile, una marcia di circa 300.000 persone, diretta verso la sede della PDVSA, incitata dai leader della CVT devia improvvisamente verso il palazzo di Miraflores, sede della Presidenza della Repubblica, per accerchiarlo. Chávez, che vuole far appello al paese, viene oscurato dalle televisioni private, che mostrano soltanto immagini del corteo dell’opposizione. Mentre i chavisti dei Circoli Bolivariani si schierano a protezione di Miraflores, l’esercito – nel quale si è ormai aperto il conflitto tra nemici e sostenitori del presidente - non interviene a schierare i tank e fa arrivare al palazzo la folla dei manifestanti. Misteriosi cecchini[38], dall’alto di alcuni palazzi, sparano prima sui chavisti, uccidendo quattro persone, e poi rivolgono il tiro sui manifestanti dell’opposizione: è il caos. «Sconvolti per il numero delle vittime»[39] (si conteranno 15 morti e 350 feriti), i generali dell’esercito sconfessano Chávez, che viene fatto prigioniero mentre iniziano le epurazioni e gli arresti tra le file dei suoi sostenitori.
Sembra la fine della rivoluzione bolivariana in Venezuela, con il ritorno alla piena “normalità” americana. Pedro Carmona assume i poteri presidenziali, presta giuramento e, dichiarando il ripristino della vecchia Costituzione – presenta il suo governo e il suo programma di transizione, in vista di nuove elezioni entro un anno. Mentre le borse schizzano verso l’alto, il portavoce di Bush, Ari Fleischer, dichiara che «azioni incoraggiate dal governo Chávez», i cui sostenitori hanno aperto il fuoco sull’opposizione, hanno fatto precipitare la situazione. «Il governo ha soppresso una pacifica dimostrazione popolare» e ciò ha presto condotto ad una «situazione incandescente, al termine della quale Chávez ha rassegnato le dimissioni»; il presidente degli Stati Uniti spera che in Venezuela torni la calma e che si apra una fase di «tranquillità e democrazia»[40]. Gli USA riconoscono prontamente il nuovo governo e il loro ambasciatore a Caracas, Charles Shapiro, si reca in visita da Carmona insieme all’ambasciatore spagnolo[41]. Anche la Spagna, dunque – presidente di turno dell’Unione Europea, ma con ingenti interessi nazionali in America Latina –, riconosce il governo confindustriale. Ma i paesi dell’area membri del Gruppo di Rio (primi fra tutti il Cile con Alejandro Toledo e l’Argentina con Eduhardo Duhalde) si rifiutano di legittimare il colpo di Stato[42], mentre – grazie anche al corretto comportamento della CNN in lingua spagnola - le prime informazioni corrette cominciano a filtrare e si comprende che la notizia delle dimissioni spontanee di Chávez è falsa. Gli eventi si rincorrono con estrema celerità e in poche ore scendono verso il centro della capitale imponenti masse popolari, rispondendo all’appello dei Circoli Bolivariani. Le forze armate fedeli al presidente riprendono il controllo di Miraflores, e Hugo Chávez viene liberato e può fare ritorno al palazzo presidenziale per riprendere i propri poteri.
Non tutto è chiaro nello svolgimento repentino di questi fatti convulsi. Certamente, la pronta mobilitazione popolare a difesa di un leader politico che sembrava incarnare la speranza di una rinascita generale del paese e di concreti cambiamenti per larghe masse di diseredati è stata decisiva per la salvezza della Repubblica Bolivariana del Venezuela. Altrettanto lo è stata la fedeltà dell’esercito e della maggior parte dei suoi ufficiali. Non è ancora possibile capire, però, se e quanto Chávez abbia dovuto cedere in quelle ore drammatiche, per evitare ciò che sembrava profilarsi come una vera e propria guerra civile, foriera di catastrofi ancora maggiori. Nei giorni successivi al fallimento del golpe, Condeleeza Rice auspica per il Venezuela l’apertura di una fase di «riconciliazione nazionale». Certo, il Consigliere di Stato di Bush spera «che Hugo Chávez raccolga il messaggio che il suo popolo gli ha inviato» e lo invita ad «aggiustare la sua rotta»[43], ma è certamente ancora presto per dire una parola definitiva. Nelle dichiarazioni rilasciate al momento del riassunzione dei poteri e nei giorni successivi, Chávez lancia appelli alla pacificazione nazionale, riconoscendo la propria parte di responsabilità nell’esasperazione dello scontro con certi settori dell’opposizione, ribadendo la volontà di portare fino in fondo i propri progetti politici ma ripromettendosi di cercare un consenso più ampio attorno alle sue scelte. In un’intervista al “New York Times”, il presidente venezuelano riafferma il senso della rivoluzione in corso. «Il sistema di governo più perfetto che sia possibile», dice, «è quello che dà al popolo la maggior quantità di stabilità politica, di sicurezza sociale e di felicità»; «l’essenza di questo processo rivoluzionario pacifico e democratico», dunque, «consiste nel dare al nostro popolo, a tutti senza eccezione alcuna, a prescindere dalla classe sociale, dal colore della pelle o dal credo religioso, la maggior quantità di felicità possibile». Il presidente assicura di essere «lo stesso Chávez di sempre». E però accoglie l’invito a «rinfoderare» la spada e si dichiara disposto a «dedicare più tempo ad ascoltare le critiche» e a tener conto del punto di vista dei «poteri economici, dei gruppi politici, delle opposizioni». «A Washington c’è una falsa percezione di ciò che accade in Venezuela», continua Chávez: «dobbiamo fare di più affinché comprendano ciò che siamo: un paese democratico, con un presidente legittimo, rispettoso dei diritti umani, e in cui vige la libertà d’espressione». Infine, Chávez minimizza diplomaticamente il ruolo degli Stati Uniti nella preparazione del golpe, ammettendo che le relazioni tra i due paesi hanno «attraversato un momento di difficoltà» e limitandosi a sostenere che sarebbe «orribile» se si comprovasse una loro responsabilità: «chiedo a Dio che ciò si riveli falso»[44].
Saranno gli eventi dei prossimi mesi a dire quale piega prenderà il processo politico in Venezuela; se Chávez riuscirà a proseguire nella propria politica di riforme di struttura e di estensione dei diritti (e di spregiudicata autonomia nei rapporti internazionali) o se questo «clone di Castro», i cui «precedenti da presidente sono terribili»[45], sarà costretto a tener conto di altre – e insuperabili – “compatibilità”. Rimane ferma però, sino a questo momento, la grande importanza del suo esperimento politico nel contesto dell’America Latina, un esperimento che non sempre e non subito la sinistra occidentale ha saputo comprendere. Sin dall’inizio della sua esperienza, Chávez non suscita soltanto i sospetti dell’Internazionale Socialista e di Human Rights Watch: ancora due anni fa, anche Gabriel Garcia Marquez – e “la rivista del manifesto” con lui - sospendeva il giudizio, paventando che Chávez potesse alla fine rivelarsi «un illusionista», o persino «un nuovo tiranno»[46]. Mariano Aguirre invece, nel denunciare come i militari latinoamericani coinvolti nei regimi dittatoriali dei decenni precedenti siano stati capaci, più recentemente, di riciclarsi nei nuovi ordinamenti “democratici”, finiva per accostare – sia pur distinguendone le figure – Hugo Chávez e Augusto Banzer[47]. Persino Gianni Minà, nel commentare gli eventi di Caracas, si lascia sfuggire che Chávez «era un tipo contraddittorio e ultimamente aveva dato una svolta autoritaria al suo governo»[48]. E’ probabile che questa sospettosità della sinistra occidentale sia da ricondurre ad una sorta di pregiudizio “antimilitarista”, che scatta immediatamente nei confronti di qualunque leader politico, anche di sinistra, che provenga dai settori delle forze armate. E’ una visione errata in sé (e legata probabilmente ad una generale deriva ideologica populista della sinistra europea), ma del tutto inadatta per comprendere il ruolo dei militari in America Latina. Questi settori, infatti - come spiega João Quartim de Moraes –, se troppo spesso sono stati fedeli cani da guardia addestrati alla “scuola dei dittatori” e pronti ad eseguire gli ordini delle classi dominanti e del sovrano americano, hanno in tanti altri casi saputo conservare un’ispirazione patriottica e nazionalistica, eredità dell’Ottocento, che non può certo essere sottovalutata[49].
Un discorso a parte andrebbe fatto per certe letture “interessate” degli avvenimenti venezuelani. Inutile deplorare le versioni fornite da quotidiani come il “Corriere della sera”, che – con malcelata stizza e delusione - parla di «golpe e controgolpe». Ancora il giorno prima della crisi, “Liberazione” sembrava escludere la possibilità di una precipitazione degli eventi a Caracas[50]. Nei giorni successivi, poi, del tutto incomprensibili e strumentali apparivano certi titoli, come “Golpe liberista”, su “Liberazione”. Così, poi, commentava un editoriale non firmato di questo stesso giornale: «sbaglieremmo, e di molto, se, nel colpo di stato di Caracas, vedessimo la semplice ripetizione dello schema autoritario e golpista, così diffuso in quel continente e nei paesi del Sud del mondo. In realtà, tra il Cile di ieri e il Venezuela di oggi c'è una differenza molto concreta: questo è il primo golpe del neoliberismo. Dopo la deposizione di Chávez, il potere non è stato assunto dal “solito” generale, ma da Pedro Carmona, leader degli imprenditori e della Confindustria venezuelana, nonché capo indiscusso della “rivolta”. Il capitale, appunto, opera ormai direttamente: si avvale del sostegno americano, certo, così come della complicità di sindacati complici, ed ha bisogno dell'intervento finale del potere militare. Ma per governare in prima persona: e per lanciare al resto del continente, e del mondo, un messaggio inequivocabile. I “poteri forti” non si toccano. Chi prova a metterli davvero in discussione ne pagherà tutte le conseguenze. E chi aveva sperato che l'America Latina fosse finalmente uscita dalla “minorità” non deve fare altro che ricredersi. Più che mai, dunque, nonostante si svolga a migliaia di chilometri di distanza, il Venezuela ci parla di noi, del futuro della civiltà occidentale, dei nostri destini politici» (13 aprile).
E’ chiaro, qui, che la negazione dell’analogia tra gli eventi del Venezuela e il colpo di Stato contro Allende ha il solo scopo di negare l’esistenza stessa dell’imperialismo americano. Quel “condizionamento esterno” che, invece, da duecento anni a questa parte decide i destini dell’America Latina e che a nostro avviso ha presieduto tanto al riuscito soffocamento della democrazia progressiva cilena, quanto alla fallita decapitazione dell’esperimento chavista in Venezuela. Ma questi sono i problemi di un’altra storia, che – per rovesciare l’editoriale citato - « ci parla di noi», riguarda soltanto noi e l’eurocentrica sinistra europea.


Note:

[1] E’ il caso, per qualche tempo, di Samuel P. Huntington, strenuo contestatore della teoria della “globalizzazione”; cfr. Huntington, 2000, pp. 28-30; Arrighi, 1996, pp. 17 sgg. e 433-4.
[2] Cfr. Marcos, 1997, pp. 16 e 42-3: in questa fase, è «necessaria la difesa dello Stato nazionale di fronte alla globalizzazione».
[3] Cfr. Huntington, 2000, pp. 174, 243-53 e 340: «l’avvento della Cina al ruolo di grande potenza surclasserà qualunque altro fenomeno comparabile verificatosi nella seconda metà del secondo millennio».
[4] Cfr. Ramonet, 1999.
[5] Per una descrizione particolareggiata della situazione economica e sociale venezuelana nella fase pre-Chávez, cfr. anche Matteuzzi, 1999.
[6] Cfr. Marquez, 2000.
[7] Cfr. Quartim, 2002, pp. 30-1.
[8] Cfr. Aiquel, 2000.
[9] Di questo sembra convinto Miguel Urbano Rodrigues, editorialista del settimanale del Partito comunista portoghese “Avante!” ed esperto di questioni latino-americane; cfr. Rodrigues, 2000, p. 34.
[10] Cfr. Anonimo, 2000.
[11] Cfr. Gouveia, 2000, p. 36.
[12] Per tutto ciò, cfr. Rodrigues, 2000; Gouveia, 2000; Ramonet, 1999; infine, la Constitución de la República Bolivariana de Venezuela.
[13] Cfr. Barthélémy, 2000.
[14] Cfr. Lemoine, 2002b ; Lemoine, 2002c.
[15] Cfr. Lemoine, 2000; Barthélémy, 2000.
[16] In Ramonet, 1999.
[17] Cfr. Rodrigues, 2000, p. 34.
[18] Cfr. Matteuzzi, 2002, p. 18.
[19] Cfr. Barthélémy, 2000.
[20] Su questo tema cfr. Caroit, 2000; Hong, 2000; Ricaldone, 2000.
[21] Caroit, 2000, p. 38.
[22] Caroit, 2000, p. 38.
[23] Hong, 2000, p. 39.
[24] Cfr. Sarkis, 2000; l’autore prevede una grande crisi petrolifera mondiale entro il 2005.
[25] Su questo tema, cfr. Ricaldone, 2000; Lemoine, 2002a.
[26] Cfr. Habel, 2000.
[27] Cfr. Azzarà, 1999.
[28] Cfr. Habel, 2002.
[29] In Lemoine, 2000.
[30] Matteuzzi, 2002.
[31] Morandi, 2002.
[32] Per una ricostruzione della preparazione del golpe e una cronaca particolareggiata delle giornate di Caracas, cfr. Matteuzzi, 2002 e Lemoine, 2002b.
[33] Cfr. Lemoine, 2002a.
[34] In Lemoine, 2002b.
[35] Cfr. Lemoine, 2002b.
[36] In Lemoine, 2002b.
[37] In Lemoine, 2002b.
[38] Cfr. anche Nocioni, 2002.
[39] In Lemoine, 2002b.
[40] In Ross, 2002.
[41] Matteuzzi, 2002, p. 20.
[42] Cfr. Rohter, 2002.
[43] In Rohter, 2002.
[44] In Fornero, 2002.
[45] NYT, 2002.
[46] Marquez, 2000; cfr. Matteuzzi, 1999.
[47] Aguirre, 1999.m
[48] In Bonanni, 2002.
[49] Cfr. Quartim, 2002, pp. 14-5.
[50] Cfr. Consolo, 2002.

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