Le scelte strategiche del Venezuela di Hugo Chávez
di Stefano G. Azzarà
(Pubblicato in “Il Calendario del Popolo”, Settembre 2002)
E’ possibile, a soli pochi anni dall’avvio della presidenza di Hugo Chávez, tracciare
un primo parziale bilancio dell’esperienza della rivoluzione bolivarista
venezuelana? Rivolgendo lo sguardo soltanto in ultima istanza agli eventi
repentini delle settimane scorse - con il tentativo di colpo di Stato operato
da parte di un ampio fronte politico-sociale e coordinato con il Dipartimento
per gli affari latino-americani di Washington -, si tratta, riteniamo, di
cogliere il significato di questo processo politico sia nel quadro della nuova
strategia dell’egemonismo statunitense, sia in quello di una più ampia
trasformazione dei rapporti di forza internazionali.
A guardar bene, infatti, siamo da
tempo di fronte a nuove dinamiche politiche di portata generale e le
contraddizioni che sembrano aprirsi nel progetto di “nuovo ordine mondiale”,
varato dagli Stati Uniti dopo la sconfitta del campo socialista, sembrano
assumere, oggi, un nuovo significato. Chi, soltanto qualche tempo fa, avesse
tentato di contestare la solidità della leadership statunitense e la sua
capacità di costruire un ordine unipolare del mondo, plasmando a proprio
beneficio il diritto internazionale e le regole del commercio mondiale,
certamente e a ragion veduta sarebbe stato considerato come una sorta di
eretico dal coro degli ottimisti della “globalizzazione”
Certo - per parlare
del caso di cui qui ci occupiamo - chi poteva prevedere che in un paese così
importante sul piano strategico come il Venezuela, detentore di ingenti
giacimenti di petrolio e collocato nel “cortile di casa” degli USA, potesse
prender vita un esperimento così promettente come la rivoluzione nazionale
guidata da Hugo Chávez in nome degli ideali bolivariani di un’America Latina
unita e indipendente da ogni egemonismo, nonché di una concezione multipolare
dei rapporti internazionali? Ma il Venezuela non è un caso isolato. Come si
poteva pensare, soltanto 10 anni fa, che la strenua resistenza del popolo
cubano – stretto attorno alla sua leadership e al partito comunista nella
difesa della propria dignità nazionale e del proprio esperimento di socialismo
– sarebbe riuscita a sopravvivere allo strangolamento e al tentativo di
genocidio perpetrato dagli Stati Uniti, attraverso la vile arma di un embargo
che colpisce persino i medicinali e i generi di prima necessità? Come si poteva
pensare che un popolo ancora più piccolo, come quello degli indios del Chiapas,
potesse avere la forza di opporsi ai progetti neocoloniali degli USA e della
locale borghesia compradora, prendendo le armi in nome – come dice lo stesso
Marcos – della difesa dello Stato nazionale messicano, aggredito dall’ennesima
guerra economica di conquista[2]?
Come si poteva sperare nella capacità delle FARC colombiane non solo di
sostenere una guerriglia di lunga durata contro i paramilitari e un esercito
addestrato e armato direttamente dagli USA, ma anche di conquistare e
amministrare, in nome dell’autodeterminazione dei popoli e dei principi del
socialismo, la metà del territorio nazionale della Colombia? Chi, poi, avrebbe
scommesso qualcosa sulle capacità del popolo palestinese e della sua leadership
di proseguire la lotta di liberazione nazionale contro l’occupazione coloniale
sionista, respingendo la trappola della finta “proposta di pace” di Barak e
rilanciando l’Intifada?
Numerosi altri
potrebbero essere gli esempi citati, a cominciare dalla lotta del popolo kurdo
(pur decapitato della sua leadership) e dalla resistenza dell’Irak, anch’esso
sottoposto ad un embargo feroce che, come è noto, provoca la morte di circa
centomila bambini l’anno. Fino – passando per il nuovo protagonismo della Siria
del giovane Bashar Assad - agli sforzi della Libia e del Sudafrica di
consolidare, pur tra mille contraddizioni, uno spazio geopolitico africano
coeso. Non parliamo, poi, del più generale fenomeno di crescita della
Repubblica Popolare Cinese, destinato – come indicano autorevoli economisti e
politologi internazionali[3]
– a sconvolgere completamente, nel corso dei prossimi decenni, tutti gli
scenari mondiali, sia sul piano macroeconomico che su quello politico. Sembra
chiaro, insomma, che non si tratta più di singoli atti di resistenza disperata
e priva di prospettive. Considerando anche il risveglio generalizzato dei
fenomeni di contestazione sociale al liberismo, si può parlare di un movimento
che ha assunto ormai una dimensione planetaria e un significato generale e che
ben presto potrebbe essere maturo per porsi il problema di una unificazione
delle lotte, chiamando l’intera sinistra mondiale ad un grande rinnovamento dei
propri schemi interpretativi e ad una presa di posizione politica.
Non c’è dubbio che, in questo quadro, l’esperienza del Venezuela sia una tra le
più significative e promettenti. Il Venezuela è, infatti, il terzo o il quarto
paese produttore di petrolio al mondo, ed è il secondo paese di
approvvigionamento per gli Stati Uniti dopo l’Arabia Saudita (il primo durante
l’amministrazione Clinton). Tra i fondatori dell’OPEC - con Perez Alfonso -, il
Venezuela sostiene negli anni Settanta la politica di fermezza petrolifera
operata da questa organizzazione. Se le ricchezze energetiche consentono per un
certo periodo la crescita del paese e il consolidarsi di una classe media
relativamente consistente, negli ultimi decenni ogni processo redistributivo e
ogni sviluppo generale pare però essersi arrestato. Alla fine degli anni
Novanta, il Venezuela appariva sotto il saldo dominio di una borghesia
compradora tanto ricca quanto corrotta, abile tessitrice di legami finanziari
con le grandi compagnie petrolifere americane e tenace esportatrice di capitali
all’estero. E’ così che un paese che in 25 anni ha esportato petrolio per circa
300 miliardi di dollari si vede dilaniato da una gravissima frattura sociale:
mentre una ristretta élite di grandi proprietari si spartisce le immense
risorse del territorio, l’80 % circa della popolazione è sotto la soglia di
povertà o immediatamente al di sopra di essa. I dati sono disastrosi: prima
delle elezioni del 1998, la disoccupazione raggiunge il 25 % e il lavoro nero
il 33 %, mentre circa 200.000 bambini sono costretti a mendicare per sopravvivere[4]. E’ uno
scenario abbastanza consueto per molti paesi dell’America Latina; aggravato
però dal fatto che le ricchezze petrolifere sarebbero sufficienti, in questo
caso, a garantire una vita dignitosa per tutta la popolazione.
Dopo una lunga serie di dittature, a partire dagli anni 1959-61 si inaugura in
Venezuela una fase “democratica”. Nei decenni successivi, la scena politica
vedrà l’alternanza di due partiti, Acción Democratica, di orientamento
socialdemocratico, e il Copei, di ispirazione democratico-cristiana. Come
spesso avviene in America Latina, il “monopartitismo competitivo” è però
sinonimo di due diverse cordate, egualmente rapaci, che si danno il cambio
nell’appropriazione delle risorse del paese: negli anni dell’alternanza
“democratica”, la corruzione e la povertà dilagano senza freni e il Venezuela
ne esce devastato[5].
E’ in questo contesto che avviene la formazione politica di Hugo Chávez.
Ufficiale dell’esercito nel corpo dei paracadutisti, Chávez studia Scienze
Politiche ed acquisisce dunque dimestichezza con le diverse correnti del
pensiero politico. Nonostante approfondisca le teorie marxiste-leniniste e -
come dimostrano le citazioni presenti nei suoi discorsi - legga Antonio Gramsci
(autore molto conosciuto in tutta l’America Latina), la sua formazione è però
sostanzialmente di stampo bolivarista[6].
Una prima data molto importante in questo percorso è il 1982: insieme ad un
gruppo di ufficiali dell’esercito di orientamento progressista e nazionalista,
Chávez fonda un’organizzazione segreta il Movimento Bolivariano Rivoluzionario
– 200. Il movimento gode di un certo seguito negli ambienti militari e riesce a
svolgere in clandestinità ben cinque congressi. E’ il 1989, però, l’anno
decisivo per giovane ufficiale e per l’intero Venezuela. Il Fondo Monetario
Internazionale impone al paese alcune misure di aggiustamento strutturale e il
presidente, il socialdemocratico Carlos Andrès Pérez, le accoglie. Ne consegue
il cosiddetto “Caracazo”: una grande rivolta popolare che viene repressa nel
sangue dall’esercito. Alla fine, si conteranno circa 4.000 morti.
La maturazione politica di Hugo Chávez è ormai giunta a compimento. Nel 1992
entra prepotentemente sulla scena politica del paese capeggiando un tentativo
di insurrezione militare contro il presidente Pérez[7]. L’azione
fallisce e Chávez viene arrestato, ma le sue dichiarazioni al paese, trasmesse
dalla televisione, gli assicurano un notevole consenso tra la popolazione.
Qualche tempo dopo, il presidente Pérez è destituito e arrestato per
corruzione. Il successore, il premier di centro-destra Rafael Caldera, sarà
costretto a concedere l’indulto a Chávez per non urtare gli umori popolari. Nel
1996 Caldera vara un nuovo piano di austerità, che provoca nuovi scontri nel
paese. Chávez, ormai libero, percorre il Venezuela per propagandare le proprie
idee bolivariste e, in seguito, per sostenere il Polo Patriottico, la
formazione politica nata dall’alleanza tra il suo “Movimento V Repubblica” e le
sinistre, tra cui anche il Partito Comunista del Venezuela. Alle elezioni
presidenziali della fine del 1998, Chávez vincerà con il 56,2 % dei consensi.
Il suo mandato inizia, nel 1999, con un’operazione politica dal grande
significato. Chávez lancia il progetto di un’Assemblea Nazionale Costituente,
con il compito di varare rapidamente una nuova Costituzione che ponga le basi
per il rinnovamento integrale e la rinascita del paese. La proposta viene
sottoposta a referendum e – nonostante il 60,9 % di astensioni – viene
approvata con l’88 % di sì. Nell’Assemblea Nazionale Costituente il Polo
Patriottico ha circa il 92 % dei seggi, 121 su 131. Dopo qualche tensione con
il parlamento vigente, si entra in una fase di coabitazione tra le due
assemblee e iniziano i lavori costituenti che mettono capo, in pochi mesi, ad
un vasto ed organico progetto di riforma costituzionale che prevede il
passaggio dalla Repubblica venezuelana alla Repubblica bolivariana del
Venezuela. Nel dicembre 1999, il progetto costituzionale è sottoposto a
referendum e viene approvato con il 71,15 % di sì. Nel luglio 2000, infine,
come prevede la Costituzione appena varata, si svolgono le cosiddette
“mega-elezioni”: si tratta di un rinnovamento integrale dell’architettura
istituzionale venezuelana, con il simultaneo ricambio della classe dirigente ad
ogni livello di responsabilità politica, dai comuni fino alla stessa Presidenza
della Repubblica. E’ l’avvio di una fase politica interamente nuova, il vero
inizio della Rivoluzione Bolivariana. Chávez si sottopone nuovamente alla prova
elettorale e prevale sull’ex alleato Francisco Arias Cárdenas - il candidato
presentato dalle opposizioni quale rappresentante di una rivoluzione “moderata”
– di 20 punti, ottenendo, con il 56,93 % dei suffragi, un consenso ancora
superiore, seppur di poco, rispetto a quello del primo mandato. Il Polo
Patriottico conquista il governo in 15 stati su 23 e si vede assegnati 165
deputati. Nell’agosto del 2000 si insedia la nuova Assemblea Nazionale[8].
Questa imponente trasformazione costituzionale era necessaria per proseguire il
progetto rivoluzionario di Chávez. Si trattava di acquisire una posizione di forza
indispensabile per sconfiggere i vecchi partiti, AD e Copei, e fronteggiare il
forte blocco sociale alle loro spalle: una vasta alleanza che attorno all’alta
borghesia legata allo sfruttamento del petrolio vede stretti i grandi
latifondisti, una fitta ragnatela di banche, le gerarchie ecclesiastiche, le
grandi catene giornalistiche e i network televisivi privati e persino la CTV,
il corrotto sindacato “ufficiale” venezuelano. Un blocco che poteva contare,
oltretutto, sull’appoggio interessato delle grandi multinazionali petrolifere
statunitensi operanti nel paese. In queste condizioni, era indispensabile
dimostrare di poter contare su un consenso popolare ancora più vasto. Era
indispensabile, soprattutto, acquisire una solida maggioranza parlamentare (prima
del voto, AD e il Copei erano ancora in vantaggio alla Camera e al Senato), che
consentisse di operare – come dice il ministro Rafael Vargas – una serie di
«mutamenti nella struttura economica» e innescare, in tal modo, un processo di
trasformazione generale del paese. Non si tratta certamente, sia chiaro, di un
«progetto di costruzione del socialismo»[9].
Il progetto chavista consiste però, come vedremo, in un forte e progressivo
programma “patriottico”, di «salvezza nazionale» o «nazional-borghese»[10], in grado di
mobilitare le migliori energie del paese nella prospettiva di un radicale
processo di democratizzazione, in direzione di uno sviluppo dal carattere
universalistico.
Il nuovo governo è immediatamente sotto attacco da parte dell’opposizione e di
tutti i mass media, a questa direttamente legati. Si accusa Chávez di aver
accentrato nelle proprie mani poteri spropositati e di aver instaurato una
dittatura presidenziale personalistica, all’insegna del filo-castrismo e del
comunismo. In realtà, se la nuova Costituzione allunga il mandato del
presidente (da 5 a 6 anni), gli conferisce però margini d’azione nettamente
minori rispetto a quelli precedenti. Essa afferma il principio della
separazione dei poteri – legislativo, esecutivo, giudiziario, di cittadinanza
ed elettorale - e dà al presidente unicamente la guida dell’esecutivo. Lo
sottopone, inoltre, a una serie di controlli, non consentendogli più di due
mandati e prevedendo una procedura referendaria per rimuoverlo[11]. Anche le
accuse di autoritarismo e repressione nei confronti delle opposizioni risultano
palesemente calunniose: nessuna repressione si registra nel paese e nessun
arresto viene effettuato, mentre praticamente tutti i mezzi di comunicazione di
massa – che si impegnano in modo accanito nella campagna di diffamazione del
presidente e di esasperazione artificiale delle tensioni politiche - rimangono
nelle mani dell’opposizione. Nel 2000, oltretutto, riconoscendo di non poter
garantire un corretto svolgimento delle votazioni, con grande senso di
responsabilità il governo fa slittare di due mesi la convocazione delle
“mega-elezioni”; tutti gli osservatori internazionali concorderanno, a scrutinio
ultimato, sulla loro piena democraticità. Infine, del tutto incontestabile è il
consenso di massa di cui Chávez gode nell’intero paese e in particolar modo tra
gli strati più poveri della popolazione.
Ad uno sguardo più approfondito, poi, la Costituzione bolivarista voluta da
Chávez si presenta come la più avanzata, democratica e progressista dell’intera
America Latina, se si eccettua la sola Cuba. Sul piano economico, essa pone le
basi per la costruzione di un sistema misto pubblico-privato. Lo Stato, dice
l’art. 299, «insieme all’iniziativa privata, promuoverà lo sviluppo armonioso
dell’economia nazionale». Essa riconosce la proprietà privata e l’iniziativa
imprenditoriale e non è dunque - come avevamo già detto - una costituzione di
natura socialista; e però conferisce allo Stato decisivi poteri di intervento
nell’economia e altrettanto importanti funzioni di pianificazione economica: si
tratta di «garantire una giusta distribuzione della ricchezza tramite una
pianificazione strategica, democratica e partecipativa»[12].
All’articolo 307, la Costituzione dichiara il latifondo «contrario
all’interesse sociale», ponendo dunque le basi per i successivi progetti di più
equa distribuzione della proprietà della terra, con la trasformazione delle
«terre incolte» in «unità economiche produttive» volte ad assicurare il
«diritto alla proprietà della terra» da parte dei campesinos. Allo Stato è
riservato lo sfruttamento dell’attività petrolifera, delle acque e del
sottosuolo (artt. 302-304), mentre gli si fa obbligo di sostenere le attività
artigianali e turistiche, per fronteggiare i processi di impoverimento del ceto
medio (artt. 305, 309 e 310). Decisamente di enorme rilievo sono gli articoli
che delineano la costruzione di un grande sistema di garanzie sociali
universali: «ogni persona ha diritto alla sicurezza sociale in quanto servizio
pubblico» (art. 86). Si sancisce il diritto di tutti i cittadini ad avere una
pensione minima e un salario minimo (art. 80); la necessità di edificare un
«sistema sanitario nazionale pubblico» secondo i «principi della gratuità e
universalità» (art. 84); di assicurare una scuola pubblica «democratica,
gratuita e obbligatoria» (art. 102); di garantire libero accesso
all’informazione rafforzando il servizio pubblico radiotelevisivo (art. 108).
La Costituzione fissa inoltre l’orario di lavoro settimanale, stabilendo il
principio della riduzione dell’orario di lavoro (da 48 a 44 ore), il diritto al
riposo settimanale e alle ferie pagate, i diritti sindacali e di sciopero, le
garanzie per i delegati sindacali, la legittimità dei contratti collettivi
(artt. 89 sgg., 118, ecc.). Essa prevede anche forti elementi di “democrazia
partecipativa”, rafforzando notevolmente i poteri e l’autonomia dei comuni e
degli enti locali e istituendo i referendum di iniziativa popolare. Tutti gli
eletti possono essere sottoposti a una verifica elettorale a metà mandato e
sono responsabili di fronte alle assemblee popolari (art. 62 sgg.).
Progressivi sono anche gli articoli che riguardano i diritti civili: si afferma
l’inviolabilità del principio dell’habeas corpus e si limitano i poteri di
polizia, si sancisce il diritto all’obiezione di coscienza, si istituiscono le
figure del pubblico ministero e del difensore del popolo, si afferma la totale
parità tra i sessi, si prevede la creazione di un “potere morale” pubblico che
contrasti il dilagare della corruzione e degli abusi. Inoltre – cosa
estremamente significativa – vengono sanciti i pieni diritti degli indios che
abitano le regioni amazzoniche venezuelane: essi collaborano direttamente e
attivamente alla scrittura della Costituzione e hanno adesso un loro
rappresentante sia all’Assemblea Nazionale che nei comuni amazzonici (artt. 19
sgg., 55, 119 sgg., 273).
I problemi che il nuovo governo deve affrontare una volta insediato sono
enormi: sanità, alloggi, alimentazione, strade, servizi… Il paese appare
disastrato e la grande alluvione della notte tra il 15 e il 16 dicembre 1999,
alla fine della quale i morti saranno decine di migliaia e i danni
incalcolabili, aggraverà ancor di più la situazione. Ecco allora, tra i primi
atti del governo, il Piano Bolivar 2000: l’esercito nazionale viene messo al
lavoro per riparare strade ed edifici pubblici, organizzare i servizi e i mercati
popolari[13].
Esso viene mobilitato in una sorta di “guerra alla povertà” che viene
considerata come la più urgente priorità nazionale. Ma l’azione di Chávez si
muove su più fronti. Attraverso l’istituzione di diversi enti - una Banca del
Popolo, una Banca delle donne, un Fondo di sviluppo della micro-impresa e un
Fondo intergovernativo per la decentralizzazione – lo Stato è ora in grado di
erogare finanziamenti pubblici sulla base della presentazione di progetti di sviluppo[14]. E’ varato
un piano di lavori temporanei per i disoccupati. Vengono fronteggiati i
problemi più urgenti: un piano sanitario prevede la distribuzione gratuita di
medicinali per i nullatenenti, la costruzione di ospedali e ambulatori, la
lotta alle malattie endemiche (la malaria, ad esempio, è ancora molto diffusa
in Venezuela). Con il piano scolastico, la scuola pubblica diventa gratuita e
gli studenti hanno ora diritto alla mensa e a svolgere negli istituti scolastici
attività culturali, sportive e manuali; il sistema scolastico viene unificato e
i salari degli insegnanti – finora sottopagati – vengono aumentati. Massiccio è
anche l’intervento pubblico in economia. Viene riconosciuto il diritto alla
previdenza sociale alle madri e agli ultrasessantacinquenni privi di
versamenti. Si sancisce il principio della “giusta causa” nella risoluzione dei
rapporti di lavoro; si mette in atto la riduzione dell’orario di lavoro; si
decreta – si tratta di una delle misure che più ha innescato le ire della
grande borghesia – un aumento del 20 % per i salari da lavoro dipendente[15]. Più in
generale, il governo si sforza di programmare per il Venezuela uno sviluppo
economico autonomo. Si tratta di bloccare per quanto possibile le
privatizzazioni già orchestrate dai precedenti governi, ma soprattutto di
costruire un nuovo modello di sviluppo. E’ necessario diversificare l’economia
del paese, cercando di renderlo meno dipendente dal petrolio, attivando un
piano di sviluppo industriale e incentivando, attraverso sgravi fiscali, la
creazione di nuovi poli produttivi. Intensa, anche se con risultati ancora del
tutto insufficienti, è infine la lotta alla corruzione dilagante.
«Al di là della crisi economica», spiegava lo stesso Chávez con accenti
gramsciani, «il Venezuela stava soprattutto attraversando una crisi morale ed
etica, dovuta alla mancanza di sensibilità sociale dei suoi dirigenti. Ora, la
democrazia non è solo uguaglianza politica; è anche, anzi soprattutto
eguaglianza sociale, economica e culturale. Sono questi gli obiettivi della
rivoluzione bolivariana»[16].
Si tratta – come ormai è chiaro – di un vasto programma di riforme di schietta
ispirazione nazional-borghese. Un programma che, nelle condizioni del Venezuela
e dell’America Latina più in generale, risulta però di altissimo profilo
sociale ed estremamente avanzato in senso progressivo. E’ quanto basta, del
resto, per scatenare una fortissima opposizione da parte dei settori sociali
dominanti, che avevano fino a quel momento governato incontrastati e che vedono
adesso minacciata sia la propria rendita di posizione economica, sia il proprio
tradizionale monopolio politico. Ed ecco allora la scientifica campagna dei
mass media contro Chávez, che può contare sul sostegno della sola televisione
pubblica. Cosa non meno importante, i ceti dominanti mettono in atto un
sistematico piano di lotta economica[17].
Si scatena una fuga di capitali: già nel 1999, circa 7.800 milioni di dollari
sono esportati illegalmente all’estero. Viene praticato attivamente il
sabotaggio della produzione industriale e agricola e così il PNL venezuelano
crolla del 9 % in 18 mesi, mentre la disoccupazione cresce vertiginosamente. Ad
un certo punto arriva però l’inversione. La congiuntura internazionale porta in
alto il prezzo del petrolio, con consistenti ricadute sull’economia. Il PNL
sale del 3,2 % nel 2000 e del 2,7 nel 2001, mentre nel resto dell’America
Latina la media raggiunge appena lo 0,5 %[18]. Intanto, un
milione di bambini hanno ora accesso alle scuole pubbliche divenute, dopo la
riforma, gratuite. Lentamente ma significativamente calano gli indici della
disoccupazione, dell’evasione fiscale e – cosa ancor più importante – della
mortalità infantile[19].
Enormi, ovviamente, sono i problemi che continuano a gravare sul Venezuela e
anche le difficoltà più urgenti sono ancora ben lungi dall’essere minimamente
risolte. I risultati dell’azione di Chávez sono certamente troppo lenti,
rispetto alle esigenze del paese e alle aspettative suscitate dalla
rivoluzione. L’alleanza politica che sostiene il presidente non è priva di
contraddizioni e rivalità e manca di un’organizzazione politica solida e
capillare. Frequenti sono i casi di opportunismo e di corruzione. Persistono le
piaghe del lavoro nero e della delinquenza. Anche il personalismo dello stesso
Chávez risulta a volte eccessivo. E però, non è possibile non riconoscere la
grande novità della nuova fase politica venezuelana e la sua netta
controtendenza – sul piano della giustizia sociale e della garanzia dei diritti
universali - rispetto alla sacralità dei principi economici liberisti sanciti
dal “consenso di Washington” dopo la vittoria nella Guerra fredda. E’
decisamente una svolta, l’apertura di una nuova stagione che si pone quale
possibile modello per l’intera America Latina, come è possibile verificare in maniera
ancora più evidente se dal piano della politica interna ci spostiamo a quello –
forse ancor più decisivo – delle questioni di politica estera.
E’ su questo terreno che l’azione politica di Hugo Chávez mostra la sua
ampiezza di respiro e la sua portata strategica, rivelandosi estremamente
promettente ed entrando in rotta di collisione con i progetti “globali”
nordamericani. Con lo sguardo rivolto al dominio statunitense nell’emisfero
occidentale, Chávez si fa infatti promotore di una linea rigorosamente
antimperialistica, costruita sulla base di una visione multipolare dello
sviluppo economico mondiale e di una concezione delle relazioni internazionali
saldamente ancorata al principio dell’autodeterminazione dei popoli. Questa
linea afferma la necessità di una totale inversione di rotta nella gestione dei
rapporti tra Nord e Sud del mondo e della ricerca di una reale cooperazione,
per riequilibrare i rapporti tra paesi produttori di materie prime e paesi
consumatori, al fine di promuovere lo sviluppo dei primi. In questo senso,
importanza decisiva assume l’affermazione dell’autonomia regionale dell’America
Latina.
Il primo banco di prova al quale è possibile verificare questa impostazione è
la questione petrolifera[20].
Nel corso del 2000 il Venezuela è presidente di turno dell’Opec e si fa carico
di organizzare a Caracas una conferenza dei paesi produttori di petrolio.
Chávez parte per promuovere l’iniziativa, in un viaggio di 10 giorni che fa
tappa in tutti le capitali interessate. Il presidente venezuelano si reca però
non solo in Arabia Saudita, in Indonesia o in Algeria, ma si ferma anche in
Iran e, soprattutto, in Libia e in Irak. Per evitare di attraversare la zona di
non sorvolo, arriva a Baghdad attraversando il deserto in automobile e incontra
Saddam Hussein. Si comprende l’irritazione che questa mossa suscita
nell’amministrazione americana. Tanto più che Chávez si fa sostenitore, nel
corso di questi incontri e della successiva conferenza di Caracas, di una nuova
politica petrolifera coordinata. Ricordiamo la brusca inversione nella
congiuntura petrolifera di quei mesi, con il prezzo del greggio che – a lungo
attestato tra i 10 e i 15 dollari al barile (una cifra iniqua e del tutto
penalizzante per i paesi produttori) - era improvvisamente schizzato verso
l’alto. Chávez propone ai paesi dell’Opec di stabilizzare i prezzi entro una
forbice tra i 22 e i 28 dollari al barile, attraverso un controllo sistematico
e concertato della produzione. Coerentemente, il Venezuela si impegnerà a
ridurre unilateralmente le proprie estrazioni. Chávez, inoltre, spinge per
integrare stabilmente nell’Opec paesi come la Russia, il Messico e la Norvegia,
e propone di dotare l’organizzazione di una propria Banca di sviluppo, che
funga da «contrappeso» al Fondo Monetario Internazionale e si ponga al servizio
del Terzo Mondo[21].
E’ un fatto: la presidenza Chávez coincide con uno dei maggiori cicli di rialzo
del prezzo del greggio degli ultimi anni; e coincide, inoltre, con il minimo
storico delle riserve petrolifere degli Stati Uniti. Non è difficile capire –
sottolinea l’editorialista di “Le Monde” Jean-Michel Caroit - come Chávez stia
cercare di utilizzare la questione petrolifera e la congiuntura energetica per
porre in rilievo la più generale «questione dello scambio diseguale»[22] tra paesi
produttori e paesi consumatori, tra Sud e Nord del mondo. Ed è comprensibile,
dunque, che in questa prospettiva risulti decisiva la trasformazione dell’Opec
da organizzazione meramente «passiva» e prona ai desiderata degli Usa e delle
grandi multinazionali occidentali a organizzazione «attiva» e capace di
promuovere una politica di sviluppo alternativa[23]. Se
ricordiamo in quali direzioni si siano orientati gli interventi militari degli
Stati Uniti nel corso dell’ultimo decennio, non ci vuole molto a constatare, a
questo punto, come si apra qua un vero e proprio conflitto strategico con
Washington e con il suo progetto egemonico di controllo politico (ma anche
territoriale) delle aree su cui giacciono le residue maggiori petrolifere
mondiali residue[24].
Ma le novità della politica estera di Chávez non finiscono qua, perché il
presidente venezuelano mostra di avere anche una chiara progettualità
geopolitica in ambito regionale. Ricordiamo che la nuova Costituzione del
Venezuela si impegna a «promuovere la cooperazione pacifica tra le nazioni e a
portare avanti e consolidare il processo di integrazione latino-americana in
accordo con il principio della non interferenza e dell’autodeterminazione dei
popoli», nella «prospettiva della creazione di una comunità di nazioni»
dell’area (Preambolo; art. 153). Come se non bastasse, il testo pone
coerentemente il divieto all’installazione di «basi militari straniere» sul
territorio nazionale venezuelano (art. 13). E’ chiaro a cosa tutto ciò faccia
riferimento. Ispirandosi ai principi del bolivarismo, la Costituzione chavista
si fa promotrice della visione di un’America Latina concorde e libera, capace
di svilupparsi armonicamente in autonomia e indipendenza da ogni
condizionamento politico esterno e, soprattutto, dall’egemonismo dell’invadente
vicino statunitense.
E’ movendo da queste basi ideali che Chávez condurrà la sua politica regionale[25]. Ispirandosi
allo slogan «con Bolivar e Martì», il Venezuela stabilisce ora rapporti
privilegiati con Cuba. Chávez incontra personalmente Fidel Castro, difende a
spada tratta l’indipendenza dell’isola socialista e dichiara ammirazione per il
leader comunista. Violando l’embargo imposto dagli Stati Uniti, soprattutto, il
Venezuela esporterà massicciamente petrolio verso l’isola, assicurando ben il
30 % dei rifornimenti su cui questa può oggi contare. In cambio, Cuba si
impegnerà a fornire al Venezuela quel personale medico e quei servizi sanitari
di cui il paese latino-americano risulta estremamente carente.
Ma non è tutto. Con un gesto clamoroso, Chávez interrompe la prassi delle
esercitazioni militari congiunte che da anni le forze armate venezuelane
svolgevano assieme a quelle statunitensi. Rifiutando di adeguarsi ai diktat
altrui, poi, si dichiara nettamente contrario al “Plan Colombia”, il progetto
regionale statunitense di sostegno alle autorità colombiane, varato con
l’obiettivo ufficiale della lotta al narcotraffico e al narcoterrorismo ma
rivolto, in realtà, a stroncare la guerriglia marxista-leninista delle FARC.
Conseguentemente, Chávez proibisce agli aerei militari americani in rotta verso
la Colombia il sorvolo dello spazio aereo venezuelano. Infine, al vertice della
Comunità andina del 9 giugno 2000 – al quale partecipano anche Bolivia,
Ecuador, Perù e Colombia – Chávez promuove la creazione di un mercato comune
regionale che unisca i paesi dell’area e si coordini al Mercosur. Inoltre, si
fa sostenitore della creazione di un blocco nazionalista andino da realizzare
entro il 2005[26].
Cosa significa tutto ciò e che conseguenze comporta? E’ chiaro che si apre su
queste questioni un secondo fronte di conflitto strategico con gli Stati Uniti.
Non si tratta solo del fatto che la politica estera venezuelana si muove per
quanto possibile autonomamente, collocandosi al di fuori dei rigidi dettami di
quella Dottrina Monroe che regola da sempre la politica regionale degli USA e
definisce lo spazio panamericano come il “cortile di casa” di Washington. Ancor
più che le questioni di principio, valgono quelle materiali: si apre qui lo
spazio per un contenzioso estremamente concreto, legato ai progetti di
cooperazione regionale promossi dagli USA. E’ noto, infatti, che proprio il
2005 dovrebbe essere l’anno di entrata in funzione dell’Alca (o Ftaa), il
trattato di libero commercio che istituisce l’area di libero scambio
panamericana, integrando il Nafta con le altre organizzazioni regionali. E’ un
progetto di portata strategica per gli Stati Uniti, che – nell’ambito della più
generale tendenza al consolidamento su scala mondiale di Grandi Spazi
geopolitici e geoeconomici[27]
- stanno cercando ormai da anni di integrare l’intera piattaforma continentale
dell’emisfero occidentale, per creare a proprio vantaggio un unico immenso
mercato. Nella prospettiva di rilancio della leadership planetaria americana
per il XXI secolo, si tratta di un progetto di vitale importanza, considerato
imprescindibile per sostenere la crescente competizione tra grandi poli
imperialistici e, soprattutto, in vista della crescita prorompente dell’area
sinica e del suo ingresso sullo scenario internazionale. Oltretutto,
strettamente connessi con questi progetti di natura economica sono, non bisogna
dimenticarlo, i piani paralleli di integrazione militare dell’area
(complementari a quelli di riforma e allargamento della Nato nell’altro
emisfero). Sono piani rivolti ad assicurare agli Stati Uniti – tramite la
costituzione di organismi di coordinamento e di strutture militari congiunte –
una possibilità di intervento immediato e capillare in ogni paese della
regione, a garanzia del rispetto e del funzionamento degli accordi da parte di
tutti i partner, per impedire inopportune dissociazioni dall’allineamento
filo-americano e per prevenire ogni possibilità di “disturbo”, nonché per contenere
sul piano militare ogni forma di conflittualità sociale[28].
E’ chiaro, a questo punto, che le ricadute del processo politico avviato dalla
rivoluzione bolivarista in Venezuela hanno avuto una portata tale da aprire
enormi contraddizioni, sia sul piano della politica interna che, soprattutto,
su quello della politica estera. Già il 29 gennaio 1999 il sottosegretario
americano Peter Romero avverte: «In Venezuela, il governo è senza guida e noi,
i gringos, non siamo noti per essere pazienti»[29]. Le
opposizioni interne, poi, non lasciano passare giorno senza denunciare la
pericolosa ingerenza del governo Chávez nel libero svolgimento dell’attività
economica. Ce n’è abbastanza, come abbiamo visto, per determinare una pronta
controffensiva da parte di tutti quei settori che sono stati direttamente e
pesantemente colpiti nei propri interessi vitali dal nuovo corso della politica
chavista. Era del tutto prevedibile, dunque, date queste condizioni oggettive,
che la situazione precipitasse molto rapidamente.
L’occasione per l’apertura del conflitto si ha 13 novembre del 2001, quando
Chávez tenta di operare una forte radicalizzazione della rivoluzione emanando
49 decreti legge, alcuni dei quali riguardano questioni dirimenti[30]. Con la
Legge della terra, il governo venezuelano vara una vasta riforma agraria,
imponendo l’esproprio delle terre sottoutilizzate. Ricordiamo, a tal proposito,
che in Venezuela l’1 % della popolazione detiene tuttora più del 50 % delle
terre coltivabili. Si tratta, dunque, di una misura del tutto ragionevole,
indispensabile per garantire condizioni minime di sviluppo per le masse
contadine della regione, ridotte alla fame. E però si tratta di una radicale
“riforma di struttura”, una riforma che interviene direttamente – in
controtendenza su scala mondiale – nell’ambito degli stessi diritti di
proprietà. E’ una decisione dalle ripercussioni enormi. Così come lo è quella
presa con la Legge sugli idrocarburi, che impone un fortissimo aumento (dal
16,6 al 30 %) delle royalties sullo sfruttamento del petrolio dovute allo Stato
venezuelano dalle compagnie petrolifere, e alza al 51 % la partecipazione
statale nelle imprese del settore degli idrocarburi[31]. Anche in
questo caso, la sacralità della proprietà privata è violata, anche se
indirettamente.
Con queste leggi, il governo di Chávez interviene direttamente a colpire gli
interessi vitali dei segmenti più forti del blocco sociale dominante, gli
agrari e la grande borghesia petrolifera. A questo punto, il decorso degli
eventi appare segnato[32].
Si rinserra l’alleanza tra Federcámaras (la Confindustria locale) e il
sindacato CTV, che proclamano un primo sciopero generale per il 10 dicembre
2001. Da quel momento, mentre le marce anti-chaviste si susseguono nella
capitale - con la risposta immediata dei sostenitori del presidente –, i mass
media in mano all’opposizione intensificano la loro campagna di disinformazione
e di sobillazione del ceto medio, invitando apertamente alla pratica dei
“cacerolazos”[33].
Il 5 marzo 2002, Federcámaras e CTV, autoproclamatesi “società civile”,
stringono un accordo esplicito, alla presenza di alcuni vescovi, per un «patto
nazionale di governabilità» e per «la rimozione democratica e costituzionale»
del presidente[34].
Intanto, quattro militari dissidenti – tra i quali Pedro Soto, fino a poco
prima stretto collaboratore di Chávez – annunciano pubblicamente in televisione
la loro presa di distanze dal “regime”.
E’ a questo punto che interviene la questione della PDVSA, la grande compagnia
petrolifera venezuelana[35].
Si tratta di un’enorme compagnia anonima, avente come solo azionista lo Stato e
diretta da una quarantina di alti funzionari, designati spesso come i “generali
del petrolio”. Una ricca e privilegiata borghesia compradora, che conduce una
politica ostile alla linea del governo violando apertamente le quote stabilite
dall’Opec e spianando la strada alla privatizzazione dell’ente. Chávez intende
assumere il controllo di questo istituto, il cui ruolo è strategico per il
governo di uno Stato che nel petrolio ha la sua risorsa praticamente esclusiva.
Designa un nuovo presidente e una nuova direzione ed entra così in conflitto
diretto con la gestione in carica, che - gridando allo scandalo per la
violazione della “meritocrazia” e per la “politicizzazione” dell’ente pubblico
- mobilita i quadri della compagnia appellandosi anche ai lavoratori. La
“società civile” chiama subito allo “sciopero” del settore, uno sciopero che è
in realtà una vera e propria serrata.
Già il 6 febbraio 2002, da Washington, Colin Powell ha pubblicamente messo in
dubbio «che Chávez creda realmente alla democrazia» e ha aspramente criticato
le sue visite a «governi ostili agli USA e sospetti di sostenere il terrorismo,
come Saddam Hussein e Gheddafi»[36].
Gli Stati Uniti minacciano una sospensione delle esportazioni verso il
Venezuela, mentre cominciano a intensificarsi i contatti tra il Dipartimento
Esteri americano e i settori che guidano l’opposizione a Chávez. Il famigerato
sottosegretario per gli Affari intra-americani Otto Reich - strettamente legato
agli ambienti dei fuoriusciti cubani di Miami – riceve il sindaco dell’area
metropolitana di Caracas, grande oppositore di Chávez, e incontra in seguito il
presidente di Federcámaras Pedro Carmona e il vicesegretario della CTV Manuel
Cova. Il capo del Comando Sud delle forze armate statunitensi, intanto, non
nasconde la sua fiducia: «Il Venezuela è il paese in cui c’è il maggior numero
di ufficiali formati nelle nostre accademie nordamericane, e perciò noi siamo
sicuri di questo paese»[37].
Siamo all’epilogo. Lo sciopero del 9 e 10 aprile a “difesa” della PDVSA ha un
successo soltanto parziale, ma l’opposizione proclama lo sciopero generale
illimitato. I militari appaiono nuovamente sulle televisioni private. L’11
aprile, una marcia di circa 300.000 persone, diretta verso la sede della PDVSA,
incitata dai leader della CVT devia improvvisamente verso il palazzo di
Miraflores, sede della Presidenza della Repubblica, per accerchiarlo. Chávez,
che vuole far appello al paese, viene oscurato dalle televisioni private, che
mostrano soltanto immagini del corteo dell’opposizione. Mentre i chavisti dei
Circoli Bolivariani si schierano a protezione di Miraflores, l’esercito – nel
quale si è ormai aperto il conflitto tra nemici e sostenitori del presidente -
non interviene a schierare i tank e fa arrivare al palazzo la folla dei
manifestanti. Misteriosi cecchini[38],
dall’alto di alcuni palazzi, sparano prima sui chavisti, uccidendo quattro
persone, e poi rivolgono il tiro sui manifestanti dell’opposizione: è il caos.
«Sconvolti per il numero delle vittime»[39]
(si conteranno 15 morti e 350 feriti), i generali dell’esercito sconfessano
Chávez, che viene fatto prigioniero mentre iniziano le epurazioni e gli arresti
tra le file dei suoi sostenitori.
Sembra la fine della rivoluzione bolivariana in Venezuela, con il ritorno alla
piena “normalità” americana. Pedro Carmona assume i poteri presidenziali,
presta giuramento e, dichiarando il ripristino della vecchia Costituzione –
presenta il suo governo e il suo programma di transizione, in vista di nuove
elezioni entro un anno. Mentre le borse schizzano verso l’alto, il portavoce di
Bush, Ari Fleischer, dichiara che «azioni incoraggiate dal governo Chávez», i
cui sostenitori hanno aperto il fuoco sull’opposizione, hanno fatto precipitare
la situazione. «Il governo ha soppresso una pacifica dimostrazione popolare» e
ciò ha presto condotto ad una «situazione incandescente, al termine della quale
Chávez ha rassegnato le dimissioni»; il presidente degli Stati Uniti spera che
in Venezuela torni la calma e che si apra una fase di «tranquillità e
democrazia»[40].
Gli USA riconoscono prontamente il nuovo governo e il loro ambasciatore a
Caracas, Charles Shapiro, si reca in visita da Carmona insieme all’ambasciatore
spagnolo[41].
Anche la Spagna, dunque – presidente di turno dell’Unione Europea, ma con
ingenti interessi nazionali in America Latina –, riconosce il governo
confindustriale. Ma i paesi dell’area membri del Gruppo di Rio (primi fra tutti
il Cile con Alejandro Toledo e l’Argentina con Eduhardo Duhalde) si rifiutano
di legittimare il colpo di Stato[42],
mentre – grazie anche al corretto comportamento della CNN in lingua spagnola -
le prime informazioni corrette cominciano a filtrare e si comprende che la
notizia delle dimissioni spontanee di Chávez è falsa. Gli eventi si rincorrono
con estrema celerità e in poche ore scendono verso il centro della capitale
imponenti masse popolari, rispondendo all’appello dei Circoli Bolivariani. Le
forze armate fedeli al presidente riprendono il controllo di Miraflores, e Hugo
Chávez viene liberato e può fare ritorno al palazzo presidenziale per
riprendere i propri poteri.
Non tutto è chiaro nello svolgimento repentino di questi fatti
convulsi. Certamente, la pronta mobilitazione popolare a difesa di un leader
politico che sembrava incarnare la speranza di una rinascita generale del paese
e di concreti cambiamenti per larghe masse di diseredati è stata decisiva per
la salvezza della Repubblica Bolivariana del Venezuela. Altrettanto lo è stata
la fedeltà dell’esercito e della maggior parte dei suoi ufficiali. Non è ancora
possibile capire, però, se e quanto Chávez abbia dovuto cedere in quelle ore
drammatiche, per evitare ciò che sembrava profilarsi come una vera e propria
guerra civile, foriera di catastrofi ancora maggiori. Nei giorni successivi al
fallimento del golpe, Condeleeza Rice auspica per il Venezuela l’apertura di
una fase di «riconciliazione nazionale». Certo, il Consigliere di Stato di Bush
spera «che Hugo Chávez raccolga il messaggio che il suo popolo gli ha inviato»
e lo invita ad «aggiustare la sua rotta»[43], ma è
certamente ancora presto per dire una parola definitiva. Nelle dichiarazioni
rilasciate al momento del riassunzione dei poteri e nei giorni successivi,
Chávez lancia appelli alla pacificazione nazionale, riconoscendo la propria
parte di responsabilità nell’esasperazione dello scontro con certi settori dell’opposizione,
ribadendo la volontà di portare fino in fondo i propri progetti politici ma
ripromettendosi di cercare un consenso più ampio attorno alle sue scelte. In
un’intervista al “New York Times”, il presidente venezuelano riafferma il senso
della rivoluzione in corso. «Il sistema di governo più perfetto che sia
possibile», dice, «è quello che dà al popolo la maggior quantità di stabilità
politica, di sicurezza sociale e di felicità»; «l’essenza di questo processo
rivoluzionario pacifico e democratico», dunque, «consiste nel dare al nostro
popolo, a tutti senza eccezione alcuna, a prescindere dalla classe sociale, dal
colore della pelle o dal credo religioso, la maggior quantità di felicità
possibile». Il presidente assicura di essere «lo stesso Chávez di sempre». E
però accoglie l’invito a «rinfoderare» la spada e si dichiara disposto a
«dedicare più tempo ad ascoltare le critiche» e a tener conto del punto di
vista dei «poteri economici, dei gruppi politici, delle opposizioni». «A
Washington c’è una falsa percezione di ciò che accade in Venezuela», continua
Chávez: «dobbiamo fare di più affinché comprendano ciò che siamo: un paese
democratico, con un presidente legittimo, rispettoso dei diritti umani, e in
cui vige la libertà d’espressione». Infine, Chávez minimizza diplomaticamente
il ruolo degli Stati Uniti nella preparazione del golpe, ammettendo che le
relazioni tra i due paesi hanno «attraversato un momento di difficoltà» e
limitandosi a sostenere che sarebbe «orribile» se si comprovasse una loro
responsabilità: «chiedo a Dio che ciò si riveli falso»[44].
Saranno gli eventi dei prossimi mesi a dire quale piega prenderà il processo
politico in Venezuela; se Chávez riuscirà a proseguire nella propria politica
di riforme di struttura e di estensione dei diritti (e di spregiudicata
autonomia nei rapporti internazionali) o se questo «clone di Castro», i cui
«precedenti da presidente sono terribili»[45],
sarà costretto a tener conto di altre – e insuperabili – “compatibilità”.
Rimane ferma però, sino a questo momento, la grande importanza del suo
esperimento politico nel contesto dell’America Latina, un esperimento che non
sempre e non subito la sinistra occidentale ha saputo comprendere. Sin
dall’inizio della sua esperienza, Chávez non suscita soltanto i sospetti
dell’Internazionale Socialista e di Human Rights Watch: ancora due anni fa,
anche Gabriel Garcia Marquez – e “la rivista del manifesto” con lui -
sospendeva il giudizio, paventando che Chávez potesse alla fine rivelarsi «un
illusionista», o persino «un nuovo tiranno»[46].
Mariano Aguirre invece, nel denunciare come i militari latinoamericani
coinvolti nei regimi dittatoriali dei decenni precedenti siano stati capaci,
più recentemente, di riciclarsi nei nuovi ordinamenti “democratici”, finiva per
accostare – sia pur distinguendone le figure – Hugo Chávez e Augusto Banzer[47].
Persino Gianni Minà, nel commentare gli eventi di Caracas, si lascia sfuggire
che Chávez «era un tipo contraddittorio e ultimamente aveva dato una svolta
autoritaria al suo governo»[48].
E’ probabile che questa sospettosità della sinistra occidentale sia da
ricondurre ad una sorta di pregiudizio “antimilitarista”, che scatta
immediatamente nei confronti di qualunque leader politico, anche di sinistra,
che provenga dai settori delle forze armate. E’ una visione errata in sé (e
legata probabilmente ad una generale deriva ideologica populista della sinistra
europea), ma del tutto inadatta per comprendere il ruolo dei militari in
America Latina. Questi settori, infatti - come spiega João Quartim de Moraes –,
se troppo spesso sono stati fedeli cani da guardia addestrati alla “scuola dei
dittatori” e pronti ad eseguire gli ordini delle classi dominanti e del sovrano
americano, hanno in tanti altri casi saputo conservare un’ispirazione
patriottica e nazionalistica, eredità dell’Ottocento, che non può certo essere sottovalutata[49].
Un discorso a parte andrebbe fatto per certe letture “interessate” degli
avvenimenti venezuelani. Inutile deplorare le versioni fornite da quotidiani
come il “Corriere della sera”, che – con malcelata stizza e delusione - parla
di «golpe e controgolpe». Ancora il giorno prima della crisi, “Liberazione”
sembrava escludere la possibilità di una precipitazione degli eventi a Caracas[50].
Nei giorni successivi, poi, del tutto incomprensibili e strumentali apparivano
certi titoli, come “Golpe liberista”, su “Liberazione”. Così, poi, commentava
un editoriale non firmato di questo stesso giornale: «sbaglieremmo, e di molto,
se, nel colpo di stato di Caracas, vedessimo la semplice ripetizione dello
schema autoritario e golpista, così diffuso in quel continente e nei paesi del
Sud del mondo. In realtà, tra il Cile di ieri e il Venezuela di oggi c'è una
differenza molto concreta: questo è il primo golpe del neoliberismo. Dopo la deposizione
di Chávez, il potere non è stato assunto dal “solito” generale, ma da Pedro
Carmona, leader degli imprenditori e della Confindustria venezuelana, nonché
capo indiscusso della “rivolta”. Il capitale, appunto, opera ormai
direttamente: si avvale del sostegno americano, certo, così come della
complicità di sindacati complici, ed ha bisogno dell'intervento finale del
potere militare. Ma per governare in prima persona: e per lanciare al resto del
continente, e del mondo, un messaggio inequivocabile. I “poteri forti” non si
toccano. Chi prova a metterli davvero in discussione ne pagherà tutte le
conseguenze. E chi aveva sperato che l'America Latina fosse finalmente uscita
dalla “minorità” non deve fare altro che ricredersi. Più che mai, dunque,
nonostante si svolga a migliaia di chilometri di distanza, il Venezuela ci
parla di noi, del futuro della civiltà occidentale, dei nostri destini
politici» (13 aprile).
E’ chiaro, qui, che la negazione dell’analogia tra gli eventi del Venezuela e
il colpo di Stato contro Allende ha il solo scopo di negare l’esistenza stessa
dell’imperialismo americano. Quel “condizionamento esterno” che, invece, da
duecento anni a questa parte decide i destini dell’America Latina e che a
nostro avviso ha presieduto tanto al riuscito soffocamento della democrazia
progressiva cilena, quanto alla fallita decapitazione dell’esperimento chavista
in Venezuela. Ma questi sono i problemi di un’altra storia, che – per
rovesciare l’editoriale citato - « ci parla di noi», riguarda soltanto noi e l’eurocentrica
sinistra europea.
Note:
[1] E’
il caso, per qualche tempo, di Samuel P. Huntington, strenuo contestatore della
teoria della “globalizzazione”; cfr. Huntington, 2000, pp. 28-30; Arrighi,
1996, pp. 17 sgg. e 433-4.
[2]
Cfr. Marcos, 1997, pp. 16 e 42-3: in questa fase, è «necessaria la difesa dello
Stato nazionale di fronte alla globalizzazione».
[3]
Cfr. Huntington, 2000, pp. 174, 243-53 e 340: «l’avvento della Cina al ruolo di
grande potenza surclasserà qualunque altro fenomeno comparabile verificatosi
nella seconda metà del secondo millennio».
[4]
Cfr. Ramonet, 1999.
[5]
Per una descrizione particolareggiata della situazione economica e sociale
venezuelana nella fase pre-Chávez, cfr. anche Matteuzzi, 1999.
[6]
Cfr. Marquez, 2000.
[7]
Cfr. Quartim, 2002, pp. 30-1.
[8]
Cfr. Aiquel, 2000.
[9]
Di questo sembra convinto Miguel Urbano Rodrigues, editorialista del
settimanale del Partito comunista portoghese “Avante!” ed esperto di questioni
latino-americane; cfr. Rodrigues, 2000, p. 34.
[10]
Cfr. Anonimo, 2000.
[11]
Cfr. Gouveia, 2000, p. 36.
[12] Per tutto ciò, cfr.
Rodrigues, 2000; Gouveia, 2000; Ramonet, 1999; infine, la Constitución de la República Bolivariana de
Venezuela.
[13]
Cfr. Barthélémy, 2000.
[14]
Cfr. Lemoine, 2002b ; Lemoine, 2002c.
[15]
Cfr. Lemoine, 2000; Barthélémy,
2000.
[16] In Ramonet, 1999.
[17] Cfr. Rodrigues, 2000, p. 34.
[18]
Cfr. Matteuzzi, 2002, p. 18.
[19]
Cfr. Barthélémy, 2000.
[20]
Su questo tema cfr. Caroit, 2000; Hong, 2000; Ricaldone, 2000.
[21]
Caroit, 2000, p. 38.
[22] Caroit, 2000, p. 38.
[23]
Hong, 2000, p. 39.
[24]
Cfr. Sarkis, 2000; l’autore prevede una grande crisi petrolifera mondiale entro
il 2005.
[25]
Su questo tema, cfr. Ricaldone, 2000; Lemoine, 2002a.
[26]
Cfr. Habel, 2000.
[27]
Cfr. Azzarà, 1999.
[28]
Cfr. Habel, 2002.
[29] In Lemoine, 2000.
[30]
Matteuzzi, 2002.
[31]
Morandi, 2002.
[32]
Per una ricostruzione della preparazione del golpe e una cronaca
particolareggiata delle giornate di Caracas, cfr. Matteuzzi, 2002 e Lemoine,
2002b.
[33]
Cfr. Lemoine, 2002a.
[34]
In Lemoine, 2002b.
[35]
Cfr. Lemoine, 2002b.
[36]
In Lemoine, 2002b.
[37]
In Lemoine, 2002b.
[38]
Cfr. anche Nocioni, 2002.
[39]
In Lemoine, 2002b.
[40]
In Ross, 2002.
[41]
Matteuzzi, 2002, p. 20.
[42]
Cfr. Rohter, 2002.
[43]
In Rohter, 2002.
[44]
In Fornero, 2002.
[45]
NYT, 2002.
[46]
Marquez, 2000; cfr. Matteuzzi, 1999.
[47]
Aguirre, 1999.m
[48]
In Bonanni, 2002.
[49]
Cfr. Quartim, 2002, pp. 14-5.
[50]
Cfr. Consolo, 2002.
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