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- popoli resistenti - venezuela - 26-11-07 - n. 204
da Rebelion.org
Il “cattivo esempio” del Venezuela
Alberto Cruz* - Ceprid
26/11/2007
Il processo bolivariano è sistematicamente satanizzato; lo fanno i media borghesi ma anche lo fanno anche settori di un preteso progressismo che si concentra sulla figura di Chavezed ed ignora ciò che significa in termini di trasformazione sociale per le masse, quelle masse emarginate ed oppresse fin dalla liberazione coloniale da parte di una èlite politica, economica e .. bianca.
Il mondo è pieni di liderismi discutibili, ma non è questo il caso di Chavez.
Eletto, rieletto, appoggiato da un’ampia maggioranza del popolo venezuelano, eppure la superpotenza imperialista e i suoi alleati ne sono disturbati in modo particolare.
Che succede? Ciò che succede in Venezuela non è altro, né più né meno, che la dura espressone della lotta di classe in cui il rapporto di forze, pur non essendo ancora apertamente favorevole al popolo, esprime però un chiaro equilibrio con l’oligarchia.
Si tratta di una lotta che va ben al di là quel paese, e i capitalisti lo hanno capito bene in ogni angolo del mondo, soprattutto lo hanno capito bene gli imbonitori, quelli che scrivono ed opinano sulla base di pregiudizi e stereotipi impregnati, in molti casi, di una chiara prospettiva classista e neocoloniale.
Nessuno si chiede se il processo venezuelano sta davvero mandando a gambe all’aria il sistema economico mondiale, se il suo trionfo metta in dubbio la globalizzazione neoliberale e se - come ritengono vari analisti statunitensi come Alexander Cockburn, editore del foglio alternativo Counterpunch - stia mettendo in crisi l’egemonia mondiale degli USA.
Un esempio si è visto nei giorni scorsi, durante la riunione dell’Opec svoltasi a Riad (capitale dell’Arabia Saudita). Il solo suggerimento venezuelano circa la sostituzione del dollaro - data la sua debolezza - quale valuta di riferimento per le transazioni commerciali, ha scatenato gli allarmismi.
Dall’arrivo di Chavez alla presidenza dell’Opec nel 1998, quell’organizzazione si è trasformata in uno dei grandi fattori della politica estera venezuelana.
In primo luogo, rivitalizzando un’organizzazione in decadenza e armonizzando la produzione per il controllo del prezzo del greggio. Per gli USA e l’Occidente più in generale, il prezzo del barile considerato corretto è di 30 dollari; senza tenere conto dei differenti costi d’estrazione nei vari paesi produttori, dal più basso in Arabia Saudita fino al più caro in Iran. Il Venezuela si trova in mezzo, ma ha ritenuto che il prezzo più adatto al riequilibrio sia sui 50 dollari.
In secondo luogo, lanciando una battaglia interna all’Opec per democratizzare il Fondo di Sviluppo e Cooperazione (con un capitale di 40.000 milioni di dollari) e per far sì che la gestione di questo fondo non dipendesse esclusivamente dall’Arabia Saudita, che consegnava la gestione nelle mani di aziende statunitensi ed europee. Il Venezuela ha vinto quella battaglia ed ora il fondo non è più gestito solo da imprese occidentali, ma dagli stessi paesi dell’Opec più altri paesi non occidentali ed estranei al cartello petrolifero.
Il progetto gioiello di questa nuova forma di gestione, è che ora s’incarichi di questioni sociali che gravano sui paesi dell’Opec, ad esempio, come evitare la desertificazione del delta del Niger.
Gesti come questi hanno reso il Venezuela un paese accettato come paese osservatore nell’Organizzazione per l’Unità Africana.
Ma c’è dell’altro. Il Venezuela sta mandando all’aria il sistema tradizionale di scambio commerciale varando istituzioni come Petrocaribe o sviluppando il baratto tra stati.
Come fanno notare analisti latinoamericani, se non ci fosse Petrocaribe, le 16 nazioni che lo compongono - povere, carenti di infrastrutture e dipendenti dagli aiuti internazionali - oggi, ad eccezione di Venezuela e Cuba, di fronte ai prezzi astronomici del petrolio e dei suoi derivati ed al rincaro alimentare dovuto alla produzione di agrocombustibili, si troverebbero di fronte ad una prospettiva tragica. Il risparmio della fattura petrolifera per quei paesi ammonta a 450 milioni di dollari, e ciò solo grazie alla liberazione dagli intermediari e speculatori che operano nel mercato petrolifero.
Col baratto (petrolio in cambio di medici cubani, di carne e navi argentine, di latte e formaggio uruguaiano, ecc.), il Venezuela ha messo in moto uno scambio diretto di merci che rompe le norme dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e fornisce ai paesi più deboli un peso maggiore al momento della negoziazione dei loro prodotti e materie prime. Con le regole del mercato, i paesi poveri produttori di materie prime vedono sempre le loro esportazioni soggette a fluttuazioni di prezzi che sono stabiliti non in funzione della domanda reale, ma degli interessi politici delle grandi corporazioni politico - finanziarie. Solo così si capisce la recente ribellione di paesi del sud in seno ai negoziati dell’OMC a proposito delle questioni agricole; hanno richiesto ai paesi sviluppati meno esigenze ed un trattamento giusto non solo in materia di prezzi, ma anche circa le protezioni doganali. Il caso degli USA è emblematico: proteggono determinati loro prodotti agricoli ma pretendono un’assoluta libertà di mercato all’estero.
Se ciò pare ancora poco, si consideri che il Venezuela, se si consoliderà la costituzione del Banco del Sur, ha fatto in modo che Il Fondo Monetario Internazionale sia sul punto di scomparire.
La “riforma” che si preannuncia nel FMI, dalla disposizione a non imporre crediti in cambio di aggiustamenti strutturali fino all’essere più flessibile con gli stati, non sarebbe stata possibile senza il Venezuela trasformato in un importante finanziatore alternativo e molto meno oneroso del FMI o della Banca Mondiale. Il successo economico dell’Argentina si deve, in gran parte, proprio all’aiuto economico offerto dal Venezuela, che ha permesso al governo di Kirchner di fare una politica ai margini delle indicazioni del FMI.
La virata a sinistra, più o meno radicale, che si sta vivendo in America Latina dietro l’esempio venezuelano, è la conseguenza del fallimento di una macroeconomia imposta dal neoliberlaismo, che ha aumentato enormemente la disuguaglianza e la povertà nella stragrande maggioranza della popolazione, mentre una minoranza, quella di sempre, si è arricchita ancora di più.
Il fatto che ora si lancino certe iniziative sociali, come quella della recente conferenza Iberoamericana, si deve a tutto ciò. Senza il “cattivo esempio” venezuelano né il governo spagnolo né altri governi latinoamericani adulati dai media avrebbero avuto orecchie per ascoltare. Ora ci manca solo che questi governi combattano il “cattivo esempio” venezuelano instaurando la giornata lavorativa di sei ore e la proprietà sociale insieme a quella pubblica e privata; consentano che cariche pubbliche siano valutate mediante referendum popolari e revocati, se quella è la volontà popolare.
Alcune di queste proposte sono all’interno della proposta di riforma costituzionale, quella che sarà votata il prossimo 2 dicembre. Se approvata, rafforzerà la prospettiva di una democratizzazione politica e sociale di lungo periodo, specialmente in politica estera.
Proprio questo è ciò che disturba di più i guru della globalizzazione, incluse le imprese spagnole tanto difese in questi ultimi giorni. Quando quegli imprenditori cosiddetti democratici parlano di “insicurezza giuridica” in alcuni paesi, e citano sempre Venezuela, Bolivia ed Ecuador, lo fanno da una prospettiva neocoloniale, criticando l’approvazione di leggi con cui quei paesi recuperano il controllo sulle loro risorse energetiche. Le modifiche proposte nella riforma costituzionale riaffermano il ricupero delle ricchezze del paese, anche se parzialmente criticate da settori della sinistra venezuelana, e aprono alla partecipazione popolare in termini sconosciuti in gran parte del mondo, inclusa l’Europa.
In Venezuela non è in corso un attacco al capitalismo in quanto tale, ma si sta costruendo un’alternativa, nel senso che si cerca di costruire una società in cui la meta esplicita non sia la crescita del capitale o dei mezzi materiali di produzione, ma la crescita dello sviluppo umano.
Fino a quando il processo bolivariano non ha creato questa alternativa concreta, fra i rappresentanti della destra di questo processo non si sono verificate diserzioni significative. Adesso invece sì, perché si sta approfondendo la lotta di classe e ciascuno si posiziona a difesa della propria classe di appartenenza. Petras lo ha detto in modo molto chiaro: “La coalizione dell’opposizione, quella di ricchi e privilegiati teme le riforme costituzionali perché con quelle dovrà consegnare una maggiore percentuale dei suoi benefici alla classe operaia, e perderà il monopolio delle transazioni del mercato”, che passeranno in mano a compagnie locali e al potere esecutivo.
Mentre i media destroidi e liberali di Venezuela, Europa e USA inventano accuse sensazionali contro le riforme definite “autoritarie”, sono proprio quelle propongono una democrazia più ampia e profonda.
Questo è il “cattivo esempio” del Venezuela, il cattivo esempio di una buona sinistra.
*Alberto Cruz è giornalista, politologo e scrittore specializzato in Relazioni Internazionali
albercruz (arroba) eresmas.com