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La guerra economica spiegata ai principianti (e ai giornalisti) (1/4)

Maurice Lemoine | medelu.org
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

11/08/2017

Parte 1

Il 18 gennaio 2013, mentre l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Alimentazione e l'Agricoltura (in inglese FAO) ha da poco pubblicato il suo rapporto annuale [1], il suo ambasciatore Marcelo Resende de Souza visita in Venezuela un mercato di Valencia (Stato di Carabobo), accompagnato dall'allora vicepresidente Nicolás Maduro. "Possediamo tutti i dati sulla fame nel mondo - dichiara. Ottocento milioni di persone soffrono per fame; 49 milioni in America latina e nei Caraibi, ma nessuna in Venezuela perché qui la sicurezza alimentare è assicurata".

Stranamente, passati appena quattro mesi, avendo la malattia portato via Hugo Chávez ed essendo stato eletto capo dello Stato il suo ex-vice-presidente, il quotidiano (e portavoce ufficioso delle multinazionali spagnole) El País intona tutta un'altra canzone: "La penuria mette in difficoltà Maduro" [2].

Certo, la penuria riguardava principalmente, in quel momento, la carta igienica (che, nelle settimane successive diventerà un appassionante argomento di dissertazione per i piscia-copie del mondo intero), ma, dice El País, si aggiunge a "un'assenza ciclica (…) di farina, polli, deodoranti, olio di mais, zucchero e formaggio (…) nei supermercati"

Così esordisce mediaticamente ciò che diventerà "la peggiore crisi economica" conosciuta da questo paese, "potenzialmente uno dei più ricchi al mondo", a causa della sua "dipendenza dall'oro nero", del "calo del prezzo del barile di petrolio" e dello "sperpero del governo". Mentre i portavoce dell'opposizione incolpano di ciò l'eccessivo intervento dello Stato, la regolazione "autoritaria" dei prezzi, l'impossibilità che ne consegue per l'impresa privata di coprire i suoi costi di produzione, la mancanza di valute concesse dal potere per importare materie prime e prodotti finiti, la penuria diventa cronica, i reparti dei supermercati desolatamente vuoti, le file in attesa interminabili, il "mercato nero" onnipresente. "In Venezuela, il ribasso del petrolio fa divampare i prezzi dei preservativi" potrà ben presto titolare Le Figaro (17 febbraio 2015). Anche i medicinali diventano introvabili, attizzando l'angoscia e le sofferenze della popolazione.

Una tale situazione ha di che commuovere gli umanitaristi del mondo intero. "Se c'è una crisi umanitaria importante, ovvero un cedimento dell'economia, al punto che loro [i venezuelani] abbiano disperatamente bisogno di alimenti, di acqua e di cose simili, allora potremmo reagire", annuncia alla CNN, il 28 ottobre 2015, il capo del Comando sud dell'esercito degli Stati Uniti , (Southern Command), il generale John Kelly, in risposta agli appelli "disperati" della "società civile" venezuelana. Fin da 2014, mentre il Tavolo di unità democratica (MUD) chiamava al rovesciamento del capo dello Stato, lanciando l'operazione "La Salida" ("l'uscita"), una delle sue dirigenti, María Corina Machado, aveva tracciato la via: "Certi dicono che dobbiamo aspettare le elezioni fra qualche anno. Ma chi non riesce a dar da mangiare ai suoi bambini può aspettare? (…) Il Venezuela non può più aspettare!". La violenta sequenza sovversiva fallisce, ma si chiude con 43 morti e oltre 800 feriti. Ed i venezuelani continuarono a trovare ogni giorno difficoltà sempre più insopportabili per rifornirsi.

Il 6 dicembre 2015, al momento delle elezioni legislative, avendo le preoccupazioni, le privazioni e il malcontento eroso il morale dei cittadini di ogni parte, il chavismo perde 1.900.000 voti e diventa minoritario in parlamento. Invertendo i termini dell'equazione, la grande internazionale neoliberale celebra questo trionfo della "democrazia" sul "caos". Sottomessi a un'informazione scelta e raccolta per rinforzare questa visione a priori, ben pochi, in particolare all'estero, hanno consapevolezza che questa vittoria si è fondamentalmente adagiata sul torpore della "rivoluzione bolivariana", con una destabilizzazione economica simile a quella utilizzata negli anni 1970 in Cile contro Salvador Allende. Denunciata a suo tempo dai progressisti (più organizzati, lucidi e coraggiosi all'epoca rispetto a oggi) quest'ultima fu confermata ufficialmente, trentacinque anni più tardi, dalla declassificazione di ventimila documenti provenienti dagli archivi segreti del governo degli Stati Uniti. Per la "crisi venezuelana", si può sperare quindi di vedere cessato lo scollamento tra discorso mediatico e realtà tra circa tre decenni. Cosa che, purtroppo, arriverà un po' tardi per la comprensione degli avvenimenti e la difesa urgente, sulla terra di Bolivar, di una democrazia particolarmente minacciata. Ma permetterà probabilmente a quelli che oggi, per vendere giornali, chiudono intenzionalmente gli occhi o deviano vilmente lo sguardo, di pubblicare e commentare con indignazione queste "stupefacenti rivelazioni".

Niente di nuovo sotto il sole, pertanto. In materia di "destabilizzazione economica" con sbocco in un colpo di Stato, il Cile dell'Unità popolare (4 settembre 1970, 11 settembre1973), resta evidentemente un riferimento indiscusso. Niente di più chiaro dell'ordine dato da Richard Nixon alla Central Intelligence Agency (CIA): "Make the economy scream!" (fate urlare - di dolore - l'economia). Così come la moltiplicazione delle misure di ritorsione messe in atto contro Santiago: blocco dei beni e averi cileni negli Stati Uniti, sparizione di macchine e pezzi di ricambio per le miniere, manovre a livello internazionale per impedire il consolidamento del debito cileno, pressioni sul corso del rame, sequestro-arresto delle esportazioni di questo metallo verso l'Europa... Nel 1972, a causa delle misure sociali e dell'aumento del potere di acquisto, il consumo popolare aumenta considerevolmente. Sospendendo la messa in vendita delle scorte, trattenendo le merci, le imprese private provocano deliberatamente problemi di rifornimento. File d'attesa interminabili si formano all'entrata dei negozi. La maggior parte dei beni di prima necessità - fra cui l'inevitabile carta igienica! - non si trovano che al mercato nero. Il quotidiano cileno "di riferimento", El Mercurio, si rallegra: "Il socialismo è penuria". Casseruole vuote alla mano, migliaia di oppositori si radunano nelle strade. Il 25 luglio 1973, abbondantemente "innaffiata" con 2 milioni di dollari dalla CIA, la potente federazione dei camionisti dichiara un sciopero illimitato e immobilizza il proprio parco di automezzi pesanti per impedire agli alimenti di giungere alla popolazione. In pochissimo tempo, al generale Augusto Pinochet non resterà che intervenire per porre termine al crollo della "economia socialista".

Le difficoltà del popolo costituiscono un costante fermento di rivolte. Tecniche che seguono la stessa filosofia erano state già utilizzate contro Cuba. Prendendo atto che non si poteva contare su un sollevamento popolare per rovesciare Fidel Castro, il sottosegretario di Stato americano agli affari internazionali Lester D. Malory consigliava nel suo rapporto del 6 aprile 1960: "Il solo mezzo ipotizzabile per ridurre il sostegno interno passa per il disincanto e lo scoraggiamento basato sull'insoddisfazione e le difficoltà economiche (…) Tutti i mezzi per indebolire l'economia di Cuba devono essere utilizzati rapidamente (...) allo scopo di provocare la fame, la disperazione e il rovesciamento del governo". Il 3 febbraio 1962, allo scopo di strangolare l'isola, John Fitzgerald Kennedy annuncerà la messa in atto dell'embargo - attualmente sempre in vigore. Senza esito in questo caso, eccettuate le inutili sofferenze inflitte al popolo cubano.

Vent'anni dopo Cuba con Fulgencio Batista, il Nicaragua sandinista si sbarazzava nel 1979 del suo dittatore, Anastasio Somoza. Nel momento in cui si dovevano tenere le prime elezioni libere, il 4 novembre 1984, e mentre le truppe controrivoluzionarie - i "contras" - finanziate, addestrate ed equipaggiate dagli Stati Uniti, tormentavano il paese dopo quelli vicini di Honduras e Costa Rica, agenti delle forze speciali americane minavano le acque dei porti nicaraguensi. Numerose navi furono danneggiate facendo aumentare i premi assicurativi e spingendo le navi commerciali straniere a evitare quella destinazione, colpendo pesantemente l'economia per la riduzione drastica delle importazioni e delle esportazioni. Obiettivo raggiunto! "La penuria al cuore delle elezioni", titola Libération, il 2 novembre 1984: "Al mercato nero si può praticamente acquistare tutto, a condizione di mettere il prezzo: 65 cordobas due pile per radio (prodotto raro), 160 il tubo di dentifricio. L'occupazione principale di alcune centinaia di "gufi" consiste nel procurarsi dollari al mercato nero (circa dieci volte il tasso ufficiale) poi partire per rifornirsi in Costa Rica o Guatemala. I prodotti sono quindi rivenduti fino a venti volte il prezzo ufficiale sui banchi [del mercato] de "l'Oriental" di Managua. (…) La statalizzazione economica si rafforza di giorno in giorno. (…) I partiti di opposizione affermano che i problemi di approvvigionamento hanno costituito il tema più mobilitante [enfasi nostra]. "

Il fatto che i nicaraguensi non fossero caduti nella trappola e che il sandinista Daniele Ortega malgrado tutto fu eletto presiede della Repubblica con il 67% dei voti, spinse Washington a raddoppiare gli sforzi imponendo al Nicaragua un embargo commerciale totale nel 1985. Questa aggressione militare ed economica aggravò di molto la situazione. Il paese si indebiterà, arenandosi in una gestione di sopravvivenza, fino a cedere "vinto dalla fame e dalla guerra" al momento delle elezioni presidenziali del 25 febbraio 1990.

In Venezuela, se Hugo Chávez ha evocato il concetto di "guerra economica" fin da 2010, il primo a teorizzarla, nel 2013, è stato Luis Salas. La fonte di ispirazione iniziale di questo ricercatore del Centro strategico latino-americano di geopolitica (Celag), fugace ministro dell'economia nel 2016, è sorprendente: lontano dagli esempi latino-americani precedentemente citati, egli spiega di avere fondato l'inizio della sua riflessione sul lavoro Aspetti politici del pieno impiego [3] che l'autore polacco Michal Kalecki (1899-1970) scrisse basandosi sull'esperienza vissuta... in Francia, sotto il Fronte popolare. "Dice che, da un punto di vista marxista convenzionale, non si può comprendere ciò che è accaduto. Perché, paradossalmente, durante i suoi tre anni, attraverso i rialzi salariali e l'aumento dei consumi, così come la crescita registrata, il governo di Léon Blum aveva permesso un arricchimento degli imprenditori e dei commercianti".

Ora, anche supponendo che questi abbiano ogni interesse a che un governo, attraverso il pieno impiego, aumenti il potere d'acquisto della popolazione, questo tipo di politica pone al capitale un problema fondamentale. "Per i padroni, il pieno impiego rende la manodopera più cara e i lavoratori meno docili, meno disposti ad accettare un impiego qualunque. Tra gli altri inconvenienti, il capitale non può più giocare sulla minaccia del licenziamento. Peraltro, il governo Blum aveva cominciato ad assumere numerose funzioni che normalmente appartenevano ai padroni, come la distribuzione degli alimenti. Il loro potere poggiava su questo...". Politica a breve termine, il problema diventa economico a lungo termine. "Il loro potere, in quanto classe, poteva essere spostato". La stampa di destra si scatenò allora contro i "mascalzoni col berretto" che approfittavano delle ferie pagate; finanzieri e industriali specularono e trasferirono i loro capitali all'estero. Il seguito appartiene alla storia di Francia. Ma presenta di fatto alcune similitudini con ciò che accade in Venezuela dove, stimandosi minacciato, il "mondo dell'impresa" partecipa attivamente al sabotaggio dell'economia.

"Nel 2013, quando Maduro è arrivato al potere, ricorda Salas, la legge sul lavoro, l'ultima firmata da Chávez [il 30 aprile 2012], era appena stata approvata. E questa legge, sebbene non alteri la relazione capitale/lavoro, crea un nuovo rapporto che complica il dominio sui lavoratori. Concede la stabilità salariale, riduce la durata del lavoro a quaranta ore settimanali, sanziona i licenziamenti ingiustificati, rende le vacanze obbligatorie, crea dei vantaggi nuovi, ecc. Da allora, padronato e commercianti hanno affinato le loro tecniche per sbarazzarsi di Maduro".

"Affinare" è un eufemismo, perché non erano degli esordienti. Nel 2001, dopo la firma di 49 decreti-legge emblematici - legge sugli idrocarburi, legge sulla terra e lo sviluppo agrario, legge sulla pesca, ecc. -, e soprattutto, dal 2002, dopo il fallimento dell'effimero colpo di Stato americano-militare-mediatico-padronale d'aprile, Chávez stesso ha dovuto fronteggiare questo tipo di destabilizzazione. Dal 2 dicembre 2002 al 9 febbraio 2003, mentre i suoi alti quadri dirigenti paralizzavano la compagnia petrolifera PDVSA e il paese affondava, vittima non di uno "sciopero generale" ma di una "serrata" padronale, gli alimenti ed altri beni di prima necessità sparirono dai "barrios". È l'epoca in cui, nello Stato di Zulia, si potevano vedere i produttori di latte gettare nei fiumi milioni di litri del loro prodotto per generare la penuria.

Particolarmente colpita e apertamente spinta a rivoltarsi, come fece, spontaneamente, all'epoca del "caracazo" nel 1989 [4], la popolazione modesta, base sociale del chavismo, mantenne il sangue freddo, senza cadere nella provocazione. Al termine di una battaglia di 63 giorni, il "comandante" riprese il controllo, ma la paralisi dell'attività economica era costata 20 miliardi di dollari al paese e una risalita spettacolare della povertà - passata da 60% nel 1997 a 39% nel 2001, raggiunse il 48% nel 2002, quindi il 55,1% nel 2003. Quasi 590 000 lavoratori, principalmente donne, si ritrovarono senza lavoro dal 2001 al 2003; le morti per denutrizione aumentarono del 31%.

La ripresa del controllo di PDVSA [compagnia petrolifera statale venezuelana, ndt] e l'indirizzamento degli introiti petroliferi al finanziamento delle politiche sociali permetterà di rovesciare la situazione (il 21,2% di povertà nel 2012), fino all'attuale fase di destabilizzazione.

Così, dunque, a credere alle vulgate in voga, da quando la crisi finanziaria internazionale ha orientato al ribasso il corso del petrolio nel 2008, la rendita non basta più a coprire la spesa per le importazioni. Stupendo, no? Dopo essere arrivato ai vertici a metà 2008 (150 dollari il barile), l'oro nero è certo ridisceso a 38 dollari nel 2015, prima di oscillare tra 21 e 24 dollari nel 2016, ma si vendeva a... 7 dollari il barile nel 1998, al momento dell'arrivo al potere di Chávez. E nessuno si ricorda di avere visto all'epoca lunghe file in attesa davanti dai luoghi di commercio, dai chioschi fino ai supermercati.

Qualcuno potrebbe obiettare che, in una situazione di povertà di massa, i venezuelani consumavano molto meno all'epoca che oggi (che è vero!). Ma questa obiezione la fanno in pochi perché sarebbe evidentemente un omaggio reso implicitamente dal vizio alla virtù. Ma ad ogni modo, con un petrolio risalito nel 2017 a quota 40 dollari, la teoria della popolazione "sul ciglio della carestia" a causa di un "paese in fallimento" esce malconcia dalla riflessione (per poco, certo, che ci sia una riflessione).

Cominciamo dall'inizio - secondo il portavoce ufficiale ed ufficioso del padronato, il governo non concede alle imprese i dollari necessari all'importazione e alla produzione - e tentiamo di analizzare la situazione...

Il 95% delle valute del paese proviene dall'esportazione del petrolio. Questa situazione strutturale data 1920, anno in cui è stata approvata la prima legge sugli idrocarburi e dove si è stabilito il meccanismo attraverso cui lo Stato trattiene una parte, più o meno importante secondo i periodi, della rendita petrolifera. Dall'inizio del XX secolo, la borghesia si è ingegnata per riappropriarsi di questa rendita scambiando i suoi bolivar contro dollari e utilizzandoli essenzialmente per importare - cosa che non presenta alcun rischio e non richiede investimento. Ne risulta che, per tornare al periodo attuale, il 10% delle esportazioni non petrolifere del Venezuela sono costituite da prodotti minerali (26%), chimici (45%), di plastica e gomma (3%), di metallo (10%), tutti prodotti dalle... imprese pubbliche. Il contributo del settore privato, in media, non supera l'1% del totale delle esportazioni [5].

Non è dunque il petrolio che costituisce un problema, ma il fatto che se le valute si trovano inizialmente e quasi totalmente nelle mani dello Stato, è perché il settore privato, autoproclamatosi motore di un'economia "dinamica" ed "efficace", si è limitato (nel migliore dei casi) a fornire l'importazione per il mercato interno, prendendo un comodo margine dalla transazione, e non partecipando quasi all'incremento della ricchezza nazionale. Piuttosto che nell'investire, la preoccupazione sta nel riprendere il gruzzolo e utilizzarlo a proprio profitto.

Una volta stabilito questo quadro globale, si cercherà l'errore: da quando nel 2003 è stato instaurato un controllo dei cambi per evitare la fuga dei capitali, le imprese private hanno ricevuto dello Stato 338,341 miliardi di dollari per l'importazione di beni e di servizi. Nel 2004, quando hanno potuto disporre a questo fine di 15,75 miliardi di dollari, non si è constatata alcuna penuria. Nel 2013, mentre la somma attribuita è quasi raddoppiata, raggiungendo 30,859 miliardi di dollari, i principali beni essenziali spariscono [6]. Si deve parlare di magia? Forse, ma in questo caso di magia nera.

Se la crisi economica mondiale e l'abbassamento dei prezzi del petrolio hanno evidentemente un ruolo nella degenerazione della situazione, essi non sono in nessun modo la causa principale. La convinzione dei neoliberali nazionali e internazionali che bisognava approfittare della morte di Chávez per dare "il colpo di grazia" alla " rivoluzione bolivariana" ha incontestabilmente segnato il punto di svolta verso l'organizzazione del disastro. Da allora, secondo Pascualina Curcio, professore di scienze economiche all'Università Simón Bolivar, si articolano quattro fenomeni: una penuria programmata e selettiva dei beni di prima necessità; un'inflazione artificialmente provocata; un embargo commerciale camuffato; un blocco finanziario internazionale. Ai quali si aggiungerà, da aprile 2017, la violenza insurrezionale sostenuta da Stati Uniti, i loro alleati regionali (Argentina, Brasile, Messico) e dall'Unione europea, santificata dai commissari politici dei media. Quella che alcuni chiamano "guerra di quarta generazione".

Nel 2004, mentre erano importati beni alimentari per 2,1 miliardi di dollari, ciascuno poteva nutrirsi in condizioni normali. Nel 2014, con 7,7 miliardi, un aumento del 91% - sapendo che, dal 2004, il governo concede dollari a un tasso preferenziale per l'acquisto dei beni essenziali - sugli scaffali dei negozi e dei grandi magazzini non si trovavano più né burro, né olio, né farina di mais precotta, né riso, né latte in polvere, né mais alimentare, né latte pastorizzato, né carne di manzo, né formaggio, né maionese, né zucchero, né caffè. In compenso, abbondano le bevande gassose, i biscotti, i dolci, leccornie e altri prodotti zuccherati, le conserve esotiche, i surgelati sofisticati. Cosa che lascia dubbi sulla curiosa "crisi umanitaria" di cui il mondo intero ha sentito parlare.

Il 20 maggio 2016, Agustín Otxotorena, un imprenditore basco non particolarmente "chavista" residente a Caracas, stanco di rispondere ai suoi amici e parenti che, dalla Spagna, si allarmavano per la sua salute in un paese afflitto da una carestia simile a quelle che colpiscono la Somalia o l'Etiopia, si è deciso a pubblicare sulla sua pagina Facebook una serie di fotografie particolarmente edificanti prese negli stabilimenti commerciali dei settori delle classi media e superiore dell'est e del sud-est di Caracas, i feudi dell'opposizione.

"Se hai del denaro - scrive - c'è del whisky invecchiato 18 anni, del rum venezuelano squisito, del champagne francese, della vodka russa o svedese, delle caramelle belghe, delle carni saporite, delle aragoste, dei vestiti di marca, dei ristoranti esclusivi, delle discoteche spettacolari, delle spiagge con gli yacht, dei club di golf ed ippici, dei campi da tennis e di calcio, e tutto un paese dentro ad un altro paese, dove non ci sono poveri, dove le donne e i bambini sono biondi, vanno nei collegi esclusivi, nelle università esclusive, e si divertono a Isla La Tortuga o nell'arcipelago di Los Roques, là dove gli unici Neri o poveri sono i servitori, il personale dei servizi o della sicurezza", prima di concludere (e in maiuscolo): "SONO STANCO DELLE MENZOGNE! [7]"

Da qui la domanda che ciascuno, a patto di non essere un giornalista, si pone necessariamente: perché c'è penuria di certi prodotti e non di altri, perché degli alimenti sono così difficili da ottenere e altri no? Perché la frutta e la verdura, per esempio, non sono scomparse?

(continua)

Note

1. « Panorama de la Seguridad Alimentaria y Nutricional en América Latina y el Caribe 2012 », FAO, Rome, 2012.

2. Alfredo Meza, « El desabastecimiento acorrala a Maduro », El País, Madrid, 16 mai 2013.

3. Essai initialement publié en 1943 dans le Political Quarterly, fondé à Londres en 1930 par Leonard Woolf (époux de Virginia Woolf).

4. Révolte populaire brutalement réprimée par le gouvernement du social-démocrate Carlos Andrés Pérez – 3 000 morts – en février 1989, à la suite d'un ajustement structurel imposé par le Fonds monétaire international (FMI).

5. Pascualina Curcio, « Mitos sobre la economia venezolana », 15 y ultimo, Caracas, 17 juin 2017.

6. Pascualina Curcio, La Mano visible del Mercado. Guerra económica en Venezuela, Editorial Nosotros Mismos, Caracas 2016. De nombreux chiffres mentionnés dans cet article proviennent de cette étude. Voir également sur le Web : « Venezuela : tout comprendre sur l'inflation et les pénuries », Venezuela Infos, 29 mai 2017.

8. Voir : https://www.youtube.com/watch?v=p447jwE7lac


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