di Sergio Ricaldone
Il titolo formato “scoop” del Corsera di venerdì 18/11, “Accordo tra Washington
ed Hanoi contro la potenza cinese”, ha fatto sobbalzare molti ammiratori del
Vietnam, inclusi gli ex, che continuano a considerarlo unicamente come simbolo
di una lotta eroica e inorridiscono all’idea che anche i nipoti di Ho Ci Minh,
posato il fucile, si lascino contaminare dalle seducenti follie della crescita
economica e dei consumi connessi.
Lo stesso Mario Capanna, leader del movimento che sostenne in quegli anni
“l’eroico popolo vietnamita vittima dell’aggressione imperialista” teme che
ormai che il leggendario coraggio del piccolo Davide vietcong che sconfigge il
potente e feroce Golia americano, sia stato cedevolmente sacrificato e
archiviato dalla nuova leadership di Hanoi in cambio di dollari e di bussines.
Mi domando se c’è qualcuno sano di mente che pensa sul serio che il Vietnam,
dopo trent’anni di guerra, pressoché ininterrotta, contro le più grandi potenze
imperialiste del pianeta – Giappone, Francia, USA – sia ora in procinto di
stringere un’alleanza militare con gli Stati Uniti in vista di una futura
guerra contro la Cina ? Contro la Cina, nientedimeno! Il grande vicino il cui
modello economico sta ispirando e aiutando il Vietnam – non in astratto, ma
attraverso multiformi e concreti rapporti politici ed economici – ad uscire dal
sottosviluppo per farlo entrare a pieno titolo, con tassi di crescita vicino a
quelli di Pechino, nel temutissimo club delle tigri asiatiche guidate ora –
quale orrore! – da due stati governati dai comunisti.
Intendiamoci, lo “scoop” del Corsera ( che non pare abbia lasciato il mondo col
fiato sospeso), ridotto all’essenziale, è una banalissima notizia concernete
l’invio di un gruppo di ufficiali vietnamiti (27 o 32?) in una accademia
militare americana perché imparino l’inglese e aggiornino la loro conoscenza
della medicina militare. Ossia uno dei tanti, tantissimi accordi e iniziative
bilaterali intercorse in questi ultimi anni, su iniziativa del Vietnam, per
uscire dall’isolamento e per ricomporre un normale rapporto di scambi politici,
economici e culturali con il paese con cui la guerra si è conclusa ormai da
trent’anni.
Qualche compagno mi telefona preoccupato. Qualche altro più scafato sentenzia:
“l’avevo detto che comunismo e mercato sono incompatibili”. Altri ancora
lasciano trasparire il dubbio atroce che, prima o poi, il Vietnam entrerà nella
Nato. Che fare, che dire? Alzo il telefono e ne parlo con Nahm, neo
ambasciatore del Vietnam a Roma e amico da lunga data. Sebbene lo stia
distogliendo da impegni molto più seri, quando gli espongo il tema e i quesiti
connessi appare piuttosto divertito. Quando poi alludo alla futura alleanza
anticinese di Vietnam e Stati Uniti, evocata nello “scoop” del Corsera, mi
seppellisce con una micidiale risata assassina. Poi, con la consumata e
paziente abilità diplomatica degli orientali, mi rassicura circa le reali
dimensioni dello scambio di “cortesie militari” tra Hanoi e Washington. E per
evitare equivoci futuri mi preannuncia che la visita, che sarà compiuta
prossimamente da ufficiali vietnamiti in Italia su invito della nostra Marina
militare, non prelude a future, minacciose alleanze italo-vietnamite contro
chicchessia, ma fa parte del repertorio politico-diplomatico teso a consolidare
i rapporti tra i paesi e i governi, con buona pace dei nostalgici dei tempi
eroici
Il Vietnam non è nuovo a queste iniziative. Sono ormai anni che il paese viene
visitato da numerose delegazioni militari americane non sempre animate, per la
verità, da spirito amichevole. Il che è del tutto comprensibile. In fin dei
conti dopo la sconfitta di Custer nella battaglia di Little Big Horn, nel
Montana, ad opera di Toro Seduto e di Cavallo Pazzo, è stato appunto il Vietnam
che ha inflitto alla superpotenza la sconfitta più umiliante e sofferta di
tutta la sua storia militare. E considerati gli psicodrammi provocati da quella
sconfitta e dal dilagare della “sindrome vietnamita” è comprensibile il
perdurare di certi risentimenti. Ma ci sono stati anche dei gesti molto
importanti di segno contrario. Il più clamoroso, ma anche il più conciliante ed
apprezzabile, è stata la visita compiuta una decina di anni fa da Robert Mc
Namara, ex Segretario alla difesa di Kennedy, che, nell’agosto 1964, avallò e
coprì la famosa provocazione del Golfo del Tonchino che diede inizio alla più
sanguinosa delle guerre del 20° secolo. Quel faccia a faccia ad Hanoi tra i due
ex nemici, Mc Namara e Nguyen Vo Giap, la sincera ammissione di colpa dell’americano
per tutti i crimini commessi e l’accoglienza amichevole manifestata da Giap, il
vincitore della guerra di liberazione, ha avuto una grande valenza simbolica e
spianato la strada alla riconciliazione tra i due popoli. “Quella guerra –
dichiarò allora Mc Namara – è stata un grande errore e una delle pagine più
vergognose della storia americana”.
Ora, il fatto nuovo e sicuramente straordinario, è di sapere che questo
Vietnam, dopo essere riuscito a suscitare attorno alla sua guerra di
liberazione un sostegno solidale di dimensione planetaria, ed essere riuscito
ad esportare in casa del nemico le dirompenti contraddizioni di quella guerra
infame, ci fa pure immaginare il divertente episodio degli impettiti marines di
West Point che, bongrè ou malgrè, accolgono la delegazione di quella armata
popolare che ha loro inflitto la più clamorosa delle sconfitte. Coi tempi che
corrono non è certamente poco.
Tranquilli dunque. Il malessere oscuro che l’America ha introiettato, “la
sindrome vietnamita” appunto, non si è dissolta. Riappare puntualmente sulle
rive del Potomac nei momenti in cui la soverchiante potenza delle armi di
distruzione di massa degli Stati Uniti si dimostra impotente a piegare la
resistenza dei popoli aggrediti. L’intelligenza dei leaders di Hanoi, la loro
capacità di aprirsi al mondo esterno e di costruire amicizie e solidarietà
anche nel cuore delle cittadelle imperialiste, la loro lungimiranza nel
ricostruire in pace un legame con gli ex nemici, il superamento di sentimenti
di vendetta contro gli aggressori sono virtù politiche che spiegano la
sorprendente rapidità con cui oggi il Vietnam stia risalendo dal sottosviluppo
e sconfiggendo la povertà. Oggi la sua più potente artiglieria pesante è
rappresentata dai prezzi e dalla qualità competitiva dei suoi manufatti
industriali. E la sua aggressività si manifesta nella capacità con cui penetra
e conquista nuovi mercati, incluso quello americano, senza il supporto delle
cannoniere.
Che c’è di scandaloso in tutto questo?
Sergio Ricaldone