www.resistenze.org - popoli resistenti - vietnam - 21-10-10 - n. 337

Resoconto di viaggio
 
Hanoi, Vietnam
 
di Davide Rossi (*)
 
17 agosto 2010
 
Fuori dall’aeroporto di Hanoi uomini e soprattutto donne raccolgono il riso in immense piantagioni. I cartelloni pubblicitari, ben più numerosi dei manifesti politici, costeggiano l’autostrada che separa l’aeroporto per una trentina di chilometri dal centro cittadino. Più ci si avvicina al cuore della città, più si moltiplicano i motorini che sfrecciano anche con quattro passeggeri sotto le poche gocce, oggi, della stagione delle piogge. L’umidità è tropicale e anche di più. Prendo a passeggiare tra le vie del quartiere che da nove secoli è fiorente mercato all’aperto, o meglio, dalle case, che sono al contempo abitazione e negozio, le merci debordano senza limite sui marciapiedi e oltre. Chi vende, chi mangia, chi cerca di convincere i passanti a trasformarsi in acquirenti. Mi avvio verso il lago Hoam Kiem. il nome significa: lago della spada restituita, in questo caso alla poderosa tartaruga che l’aveva consegnata al difensore della città, emergendo dalle acque. Sulla strada incontro un tempio buddista, entro e tra antichi dragoni di pietra colorata inizio a parlare con due ragazze simpatiche, poi l’arrivo di una monaca le richiama al riordino del luogo sacro, interrompendo le nostre parole e i nostri sorrisi. Intorno al lago e sull’isoletta che è anche tempio, dove accendo un incenso, sono tante le ragazze che mi fermano per scambiare qualche parola. Incontro un gruppo di studentesse delle superiori con la camicia bianca e sulla spalla il distintivo della gioventù comunista, quindi tre universitarie, due di lingue, studiano inglese e giapponese, e una di economia. Le ragazze vietnamite sono belle, tra loro le più carine sono lievi, leggere, fuggevoli, come cerbiatte. Le prime impressioni della capitale offrono l’immagine di una nazione tranquilla, con ridotti squilibri sociali e fortunatamente persistenti tutele degne di uno stato socialista. Il piccolo commercio, come la libera professione, penso a un modesto dentista trovato tra negozi di vestiti e di cibo, testimoniano della vitalità sociale e dell’incontro intelligente tra libertà di iniziativa personale e i limiti che vietano speculazioni e arricchimenti a danno del prossimo. È quindi un socialismo molto aperto, diverso da quello che possiamo immaginare, ma certamente efficace.
 
18 agosto 2010
 
Mi sveglio alle 4 del mattino, quando in Italia sono ancora le 23 del 17 agosto e alle sei sono per strada, raggiungo a piedi il mausoleo del grande Ho Chi Min. costeggiando il lungo parco prospiciente. È davvero triste che di Ho Chi Min e del Viet Nam i giovani europei, anche di sinistra, quelli che sanno chi sono Fidel e il Che, sappiano così poco. È stato un grande, comunista, sempre, rappresentante dell’Indocina in Francia, quindi fondatore del partito comunista francese e della terza Internazionale. A Milano, al tempo del fascismo, negli anni ’20, in incognito, per sopravvivere lavava i piatti all’Osteria della pesa, che oggi è un ristorante per ricchi e non una trattoria a buon mercato come allora. Arrivo al mausoleo che sono le 7.15 e credo di essere il primo e il solo, visto che apre alle 7.30. Niente affatto, la coda è chilometrica e mi metto in fila dietro a dei vietnamiti e davanti a dei cinesi di Zhang Jiajie, città della provincia dell’Hunan, terra natale di Mao, parlo con alcune di loro, ragazze simpatiche, un po’ chiassose. Troppo per i militari vietnamiti che chiedono silenzio. All’interno il mausoleo è come quello di Lenin a Mosca, stesso percorso, stesse luci, stessa posizione del corpo, anche se sulla parete posteriore due grandi marmi rossi riproducono la bandiera del Vietnam, con stella gialla e del partito, con falce e martello. Vedere da vicino Ho Chi Min mi emoziona. All’entrata vi è scritta una sua frase: “Non vi è niente di più prezioso della libertà”, sono assolutamente d’accordo, ma nella sostanza, ovvero in una libertà costruita e vissuta in uno stato socialista, ovvero assolutamente differente da quella occidentale, arrogante e consumista, una libertà che non dimentica e non esclude nessuno, che garantisce a tutti casa, scuola, lavoro e sanità. Oltre il museo ci sono le due case in cui ha vissuto il presidente, la prima in muratura dal ’54 al ‘58, la seconda di legno, dal ’58 alla morte nel ’69. Sono modeste, una sala per lavorare e una per le riunioni, i telefoni, qualche libro, le foto di Marx e di Lenin. Quindi c’è il museo a lui dedicato. È in stile sovietico brezneviano, monumentale, con una entrata in cui spiccano la falce e il martello come piacciono a me, dritti all’insù. All’interno fotografie, cimeli, una vita ripercorsa nel suo amore per il popolo e la nazione vietnamita di cui è fondatore. Uscendo un viale alberato porta ad una statua di Lenin in un parco, davanti si trova il museo dell’esercito che celebra la gloriosa vittoria del 30 aprile 1975 sugli statunitensi, che segue di un ventennio quella imposta a Dien Bien Phu ai francesi. Carcasse di aerei statunitensi conquistati e abbattuti, tra i tanti che dal 1967 hanno sorvolato e bombardato la città, si trovano a fianco dei Mig sovietici in dotazione all’esercito popolare vietnamita e ancora bandiere e carri armati, compreso, quello al contempo storico ed eroico, entrato nell’ambasciata a stelle e strisce di Saigon, oggi Ho Chi Min City, il giorno della Liberazione. Nel pomeriggio conosco Nguyet, di giorno vende dvd e io ne acquisto alcuni di film vietnamiti, la sera studia lingue, il suo nome significa “luna lieve”. Trovo dei manifesti politici e ne faccio incetta, anche se non sono a un buon prezzo, incontro quindi Nhung, anche lei gentile e bella, vende quadri e la sera studia arte. Si capisce che c’è una grande attesa per un futuro che può essere migliore, un entusiasmo, comprensibile e condivisibile, opposto a quanto si vive da noi in Europa, in cui i giovani una occupazione non la trovano e studiano poco convinti, sapendo che le opportunità di lavoro sono sempre meno.
 
19 agosto 2010
 
Alle 6.30 del mattino ai motorini, alle automobili, si aggiunge, nel traffico vorticoso, una marea di biciclette. Sono gli studenti delle superiori che vanno a scuola. Le scuole infatti sono aperte e le lezioni iniziano alle sette. I ragazzi della primaria camminano spediti, a piedi, nelle loro divise di pionieri, camicia bianca e fazzoletto rosso al collo, quelli della secondaria con la camicia bianca e il distintivo della gioventù comunista sul braccio. È bello vedere, qui come a Cuba, il diritto allo studio garantito per tutti, nessuno escluso, se si pensa a tanta parte dell'Asia e dell'America latina in cui tale diritto è negato, censitario, ovvero garantito solo ai ricchi e orientato a valori di esclusione sociale. Nei paesi socialisti invece tutti, nessuno escluso, hanno accesso ai saperi e possono attraverso questi portare il loro contributo alla società. Parto quindi verso le nove per la baia di Ha Long che si trova in quello che i francesi chiamavano mare del Tonchino. La baia è un insieme di rocce prepotenti e aguzze che sorgono in mezzo al mare. Hanoi non ha periferie degradate, solo abitazioni più modeste. Per una città in forsennata espansione è il segno di un impegno sociale forte, parallelo alle aperture verso le imprese occidentali che si appoggiano ad una manodopera dai costi contenuti, che da un lato mi lascia perplesso, ma dall’altro mette in evidenza come il governo vietnamita esiga e ottenga salari equi, perchè le operaie e gli operai che ho visto uscire dalle fabbriche giapponesi, canadesi, statunitensi non mostravano i segni dello svuotamento umano dello sfruttamento. Molti, estesi e infiniti i campi di riso, che si alternano alle fabbriche pesanti di antica tradizione socialista e ai capannoni di moderna costruzione, che ospitano le aziende terziarie occidentali. Ad Ha Long, tra le barche galleggianti di pescatori ne emerge una più grande, tinteggiata di un verde vivo, è la scuola elementare. Qui i ragazzi non portano la divisa dei pionieri come in città, ma quando passano i turisti salutano con gioia e cercano nell’insegnante l’autorizzazione per un tuffo in mare e un paio di bracciate di saluto. La docente cede con un sorriso. Sul far della sera, mentre torniamo ad Hanoi, un bufalo renitente si fa strattonare da una giovane contadina sul ciglio della strada, al limitare dei campi di riso. L’imbufalita volontà della ragazza poco serve a vincere l’impassibile fermezza della bestia. Intanto Hanoi è in festa, il 19 agosto 1945 il comitato rivoluzionario del partito comunista di Hanoi ha promosso l’insurrezione cittadina e liberato la città dall’occupazione giapponese, balli e canti nelle piazze ne ricordano il 65° anniversario.
 
20 agosto 2010
 
Hanoi festeggia questo anno i mille della sua fondazione. Nel 1010 nasce come Thang Long, ovvero: “il drago che prende il volo”, il nome attuale arriva solo nel 1831 e significa: “la città in mezzo allo scorrere del fiume”, essendo Hanoi attraversata dal fiume rosso. Il cuore di quella città nata allora è, da allora, Van Mieu, la più antica università indocinese e al contempo tempio della Letteratura. Quanta ammirevole passione civile e umana nel venerare la cultura non come elemento di spocchiosa superiorità, ma come bene profondo, intimo, dell’essere umano. Nata con la città, questa università confuciana impiega due secoli per liberarsi dall’essere al semplice servizio dei ricchi e dei nobili e aprirsi a tutti i giovani meritevoli. Dopo Van Mieu visito il parco intitolato a Lenin, diverso da quello con la statua, per molto tempo abbandonato e ora in fase di ristrutturazione e il museo della Rivoluzione vietnamita, un grande omaggio al ruolo e all’impegno dei comunisti di questa nazione, i quali prima contro i francesi e poi contro gli statunitensi hanno combattuto il colonialismo e l’imperialismo, vincendoli in entrambe i casi. Nella grande frenesia dei consumi, cui si volge la società vietnamita oggi, ci si domanda quale sia ancora il valore e la considerazione di quella pagina importante e indelebile di storia. È il problema di che cosa sia una società socialista. Il monopolio politico e le conseguenti tutele sociali da esso garantite, contro profittatori e speculatori, dovrebbero farne uno stato diverso da quello social – liberal - democratico di tipo occidentale. Resto comunque convinto che il socialismo e la società socialista debbano anche, come ripeteva Salvador Allende, costruire una società nella quale emergano, prevalgano e si affermino il valore della cultura su quello del possesso e del consumo dei beni, in cui la solidarietà sociale, nel lavoro e nella vita quotidiana prevalga sull’interesse personale o corporativo. Senza tirar in ballo l’utopia, è certamente una sfida difficile quella che all’arricchimento e al benessere personale costruito a scapito degli altri, riesca a far vincere l’arricchimento e il benessere complessivo di tutti, ovvero la giustizia declinata secondo i principi dell’uguaglianza. Perché solo una società che riesca a far funzionare i propri telefoni cellulari senza ammazzar bambini nelle miniere congolesi di coltan – come facciamo noi occidentali, anche se i giornali non ce lo ricordano - è degna di questo nome. La forza del capitalismo è sempre stata quella di nascondere agli occhi dei suoi cittadini, falsamente informati, l’origine vera, autentica del loro benessere, ovvero lo sfruttamento di milioni di persone, fino alla morte, in tutto il resto del pianeta. La forza del socialismo, anche di matrice sovietica, è stata invece quella di non praticare nel campo socialista quelle relazioni di sfruttamento e di avere la forza e il coraggio di denunciare il sangue e la fame su cui si fondava e si fonda il luccichio della ricchezza occidentale. Tutto ciò presupponeva e presuppone di orientare la società verso un sistema di valori che a loro volta si fondino su una cultura interpretativa del mondo libera dal giogo degli interessi. La diversità del socialismo rispetto al capitalismo risiede proprio nell’essere diversa per valori e riferimenti culturali dall’Occidente. Tuttavia questo è uno sforzo immane, il pensiero occidentale e la sua logica di consumi è aggressiva e pervasiva, la guerra mediatica che è in grado di condurre attraverso la pubblicità è un nemico troppo difficile da combattere e da vincere, così quasi tutte le nazioni ancora socialiste ne sono venute in qualche maniera a patti. Di tutto questo e della totale eco-insostenibilità del consumismo siamo consapevoli, ma siamo comunque pochi, una piccola minoranza, soprattutto in Occidente.
 
(*) Davide Rossi è insegnante, segretario del Sindacato Indipendente Scuola e Ambiente (http://www.sisascuola.it) e direttore del Centro Studi Anna Seghers (http://www.annaseghers.it)
 
 

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