www.resistenze.org - proletari resistenti - lavoro - 30-06-08 - n. 234

Proponiamo un testo del 2000 della Cgil Lombardia frutto dell’analisi sui tempi di lavoro. Il suo valore risiede nello sforzo documentale e nella correttezza della previsione confermata dall'entrata in vigore della legge 30 sul piano nazionale, nel nuovo orientamento denominato flexicurity in seno alla UE.

     
da www.cgil.lombardia.it/contrattazione/convegno8giugno-rel-chiodo.htm
 
Tempi di lavoro e flessibilità: quali prospettive per l’azione sindacale
 
Milano, 8 Giugno 2000
 
Dipartimento Politiche contrattuali Cgil Lombardia
 
La crescente flessibilizzazione del rapporto di lavoro e delle modalità di svolgimento della prestazione pongono problemi nuovi all’azione sindacale sul sistema degli orari.Partire dalle esperienze di contrattazione e dall’analisi dei mutamenti in atto per attualizzare e arricchire le nostre strategie contrattuali.
 
Dipartimento Politiche Contrattuali - Ufficio Studi
 
Relazioni di Luciano Chiodo, dip. politiche contrattuali e di Giovanna Giorgetti, Ufficio Studi Cgil Lombardia "I tempi e gli orari"
 
Relazione di Luciano Chiodo
 
Indice
 
- Le origini della lotta sui tempi di lavoro 
- I modelli di orario nella fabbrica fordista 
- Gli strumemti di flessibilità nella fabbrica fordista 
- Dal modello Fordista alla stagione della flessibilità 
- Nascono i nuovi modelli di orario pluriperiodali e le nuove figure del mercato del lavoro 
- La situazione attuale del dibattito politico in Europa: dalla riduzione dell'orario all'esasperazione della flessibilità 
- Prospettive per la contrattazione
 
Le origini della lotta sui tempi di lavoro
 
I tempi della prestazione lavorativa, insieme alla sua remunerazione, hanno rappresentato da sempre il motivo più significativo di conflitto tra i lavoratori e il padronato.
 
La nascita dell’industria era avvenuta all’insegna delle forme di rapporto esistenti nel lavoro agricolo, considerando normale la prestazione lavorativa che si protraeva dall’alba al tramonto.
 
Le regole erano inesistenti, così come le pause nel corso della giornata e le ferie.
 
Le prime lotte operaie riuscirono a conquistare oltre cento anni fa la giornata lavorativa di 12 ore, dal lunedì al sabato, secondo la divisione classica di 12 ore per lavorare e 12 ore per riconquistare le energie.
 
Le lotte operaie per la riduzione dell’orario di lavoro avevano conseguito la conquista delle 10 ore già dall’inizio del 1900, mediamente 3000 ore all’anno, ma l’obiettivo più ambizioso della riduzione a 8 ore era già presente e aveva portato a lotte operaie importanti, come lo sciopero di 25 giorni dei 400 operai dell’Ansaldo di San Pier D’Arena, nel 1869.
 
La celebrazione del 1° Maggio nasce proprio dal ricordo degli operai assassinati a Chicago nel 1886, mentre manifestavano per rivendicare le 8 ore giornaliere.
 
Uno dei primi accordi sulla giornata lavorativa di 8 ore fu raggiunto a Torino nel 1919, tra la FIOM e il Consorzio Fabbriche Automobili, che seguiva un accordo pilota a livello nazionale, che fissava l’orario settimanale a 48 ore su 6 giorni.
 
Un anno dopo, nel 1920, viene conquistata la prima settimana di ferie.
 
L’allargamento delle lotte operaie per la riduzione dell’orario e le prime importanti conquiste, incoraggiarono anche tentativi di avanzamenti legislativi di riduzione dell’orario di lavoro, come la proposta di legge per le 40 ore settimanali, presentata senza successo dal socialista Filippo Turati nel 1920.
 
Il movimento di lotta sugli orari, nonostante l’avvento del fascismo, riuscì a consolidare e a generalizzare quelle conquiste, creando le condizioni per il varo del Regio decreto legislativo n. 692 del 1923 che regolava per legge l’orario di lavoro a 48 ore settimanali.
 
Verso la fine degli anni ’50 in alcune grandi aziende come FIAT e Olivetti si realizzano alcuni importanti accordi di riduzione dell’orario che aprono la strada alle 40 ore di orario settimanale, con il sabato libero, raggiunto nel contratto dei metalmeccanici privati nel 1970, seguito nel 1972 dal contratto dei siderurgici pubblici che scende a 39 ore settimanali, e viene conquistato anche il diritto per tutti alle quattro settimane di ferie.
 
I modelli di orario nella fabbrica fordista
 
All’inizio degli anni ’70, la situazione degli orari di lavoro è ancora caratterizzata da modelli fortemente standardizzati.
 
In tutti i paesi europei vengono conseguiti forti incrementi di produttività, resi possibili da modelli di produzione fordista, che sfruttano le economie di scala e una accentuata standardizzazione di tutti i fattori produttivi.
 
In questo modello, gli orari di lavoro hanno una caratteristica di forte uniformità e rigidità, per rispondere a una produzione facilmente prevedibile, in un mercato che non presenta ancora necessità di risposte immediate ai picchi della domanda.
 
Il modello di organizzazione del lavoro e degli orari risponde pertanto a queste caratteristiche.
 
La forza lavoro è composta esclusivamente da lavoratori con contratto full-time, gli orari sono uniformi e di 8 ore giornaliere, su uno o due turni, a parte casi di tre turni, limitati a lavorazioni particolari, come i cicli continui e la siderurgia.
 
Anche nel terziario e nella stessa Grande distribuzione, la distribuzione degli orari è uniforme e fortemente standardizzata sul turno spezzato che aderisce perfettamente agli orari di apertura dei negozi, cioè l’inizio alle 9 del mattino, l’intervallo anche di 3 ore tra il mattino e il pomeriggio, e la chiusura serale alle 19,30, impegnando i lavoratori per un nastro orario complessivo di 10 ore e trenta.
 
Questi modelli di orari standard rispondono alle esigenze delle aziende di garantire una facilità di gestione e controllo degli organici.
 
A livello sociale, l’uniformità degli orari, risponde anche alle forti spinte all’egualitarismo e all’equità, che hanno caratterizzato le lotte dell’autunno caldo del 1969, prevedendo quantità e distribuzione di orario identiche per giovani e anziani, donne e uomini.
 
Sul piano sindacale, la rappresentanza dei lavoratori e il coordinamento degli interessi è certamente facilitato dall’inesistenza di differenziazioni nelle condizioni di lavoro, quantomeno sulla materia degli orari.
 
Queste caratteristiche di uniformità e di spiccata standardizzazione degli orari, hanno determinato le condizioni per lo sviluppo di un forte movimento di lotta per la riduzione generalizzata degli orari di lavoro, che viene sentita da tutti i lavoratori come lo strumento per ridurre la fatica e il disagio della prestazione lavorativa e migliorare le condizioni di vita.
 
Mentre sul piano legislativo, si è sempre fermi al Regio Decreto del 1923, a livello sindacale vengono conquistati sensibili miglioramenti sull’orario di lavoro in tutti i CCNL, con la settimana a 40 o 39 ore e le quattro settimane di ferie, con ulteriori riduzioni nella contrattazione aziendale.
 
A livello europeo comincia a prendere corpo il movimento per le 35 ore, tradotto per la prima volta in accordo in Germania, nel settore industriale.
 
Gli strumenti di flessibilita’ nella fabbrica fordista
 
Ma il modello fordista comincia ad entrare in crisi per effetto di una competizione che assume sempre di più caratteristiche mondiali e si gioca sul massimo contenimento dei costi.
 
Le necessità di flessibilità vengono risolte con gli strumenti tradizionali, la Cassa Integrazione Guadagni, per diminuire la produzione e gli straordinari, per rispondere ai picchi, che non mettono in discussione il modello fordista e il suo carattere rigido e standardizzato, bensì ne rappresentano dei correttivi per intervenire su quelle che sono ancora considerate anomalie contingenti e momentanee.
 
Va ricordato peraltro che la CIG e gli straordinari offrono una forte convenienza alle imprese per il duplice vantaggio rappresentato dal fatto che l’indennità di CIG viene coperta dall’INPS e il costo di un’ora straordinaria è inferiore al costo di un’ora di lavoro ordinaria.
 
Nella grande industria, l’incidenza delle ore straordinarie sul totale delle ore lavorate, passa dal 2,8% del 1982 al 5,9% del 1989.
 
L’utilizzo della CIG e degli straordinari, determinano un’oscillazione di fatto dell’orario di lavoro su base annua, che nel 1993 nel settore metalmeccanico tocca il 14%, corrispondente a 6 settimane di lavoro in più o in meno pro capite.
 
L’accentuarsi dei processi di crisi aziendale e l’allargarsi a livello europeo del dibattito politico e culturale sulla riduzione dell’orario di lavoro, portano ai primi accordi di riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, con la riduzione proporzionalmente inferiore del salario.
 
Il caso forse più conosciuto è quello della Volkswagen, dove l’accordo sindacale ha portato alla riduzione dell’orario di lavoro a 28,8 ore per tutti, distribuito su 4 giornate lavorative, salvando circa 30.000 posti di lavoro.
 
In Italia lo strumento del Contratto di Solidarietà, viene introdotto dalla L.863 del 1984 e trova applicazione in tutti i settori industriali e del terziario privato, in particolare con importanti accordi in grosse realtà del settore chimico, come la ENICHEM, l’AGIP e la PIRELLI.
 
Il Contratto di Solidarietà, si basa sulla riduzione dell’orario di lavoro di tutto l’organico nella misura della quantità di minor lavoro che l’impresa vorrebbe conseguire con i licenziamenti e la diminuzione degli organici.
 
La solidarietà deriva appunto dal coinvolgimento nella riduzione di orario anche di reparti o attività aziendali non direttamente interessati allo stato di crisi.
 
La quota di minor salario conseguente al minore orario di lavoro, che può essere su base giornaliera, settimanale, mensile o plurimensile, è compensata parzialmente dall’INPS e, in misura minore, dall’azienda.
 
A titolo di informazione, è importante sottolineare che nei settori di servizio, come le Imprese di Pulizia, ogni volta che si procede al rinnovo del contratto di appalto, anche annualmente, le aziende committenti impongono condizioni contrattuali con drastiche riduzioni dei costi, che poi le imprese appaltatrici scaricano completamente sui lavoratori, tagliando gli organici.
 
Ciò ha dato luogo a una consuetudine di contrattazioni, in condizioni di forti difficoltà per il sindacato, con l’obiettivo di ridistribuzione e riduzione dell’orario di lavoro pro-capite, su tutti i lavoratori, come risultante del minore monte ore di lavoro complessivo che si sarebbe determinato con la riduzione dei posti di lavoro, per evitare i licenziamenti.
 
E’ un po’ il modello del Contratto di Solidarietà, con una piccola differenza: la perdita di salario, conseguente al minore orario, è pagata esclusivamente dai lavoratori.
 
Dal modello fordista alla stagione della flessibilità
 
Presto però questi strumenti di regolazione dei livelli occupazionali, in un modello di organizzazione del lavoro e degli orari di lavoro che restano sostanzialmente rigidi, si dimostrano insufficienti.
 
L’innovazione tecnologica e organizzativa, che richiedono un sempre maggiore utilizzo degli impianti e la necessità di rispondere a un mercato sempre più imprevedibile, mettono in crisi definitivamente i modelli di orario rigidi e standardizzati.
 
Si afferma il mito della produttività del modello giapponese, in cui il tempo non viene più considerato un vincolo per l’organizzazione del lavoro e la produzione, bensì l’opportunità su cui fare leva per rispondere più velocemente, just in time, alle sollecitazioni produttive del mercato e al contenimento delle scorte.
 
Le esigenze di incremento della produttività iniziano a porre con forza il problema di un più intenso utilizzo degli impianti, che inizia a crescere sensibilmente, passando, nel settore metalmeccanico, dal 72% del 1990 al 79,2% del 1995.
 
I modelli di orario iniziano ad uscire dallo schema standard: nell’industria aumentano i casi di organizzazione su 2 o 3 turni, nel settore tessile nasce il modello del 6x6, si diffonde in tutti i settori la distribuzione dei turni sul sabato, la domenica e la notte.
 
Si creano così le condizioni favorevoli per la contrattazione della riduzione dell’orario di lavoro settimanale, sia nei CCNL che nella Contrattazione aziendale, con la realizzazione di accordi che prevedono orari anche inferiori alle 35 ore settimanali.
 
Nel Terziario, in particolare nella Grande Distribuzione, anche per effetto della forte diffusione dei grandi Ipermercati e della riforma della Legge sugli orari commerciali, che allarga la quantità di ore di apertura settimanale, attraverso la contrattazione aziendale si consolidano gli orari no stop (continuati) e si realizzano i primi accordi che introducono i turni unici, conseguendo anche orari settimanali di 36 ore.
 
E’ in questo periodo, a cavallo tra la metà degli anni ’80 e la metà degli anni ’90, che l’elaborazione politica e culturale sui tempi produce i risultati più significativi.
 
I problemi occupazionali, che persistono anche in situazione di ripresa produttiva e di forti incrementi della produttività, il processo di trasformazione del tessuto produttivo, con lo svilupparsi dei settori del terziario e dei servizi, l’accentuarsi di una nuova coscienza della qualità della vita e dell’utilizzo dei tempi, stimolata anche da un ruolo nuovo delle donne, l’aggravamento della situazione di congestionamento dei centri urbani e della viabilità, sono tutti elementi che contribuiscono ad arricchire e ad allargare il dibattito sui tempi.
 
L’attualità storica della riduzione generalizzata dell’orario di lavoro si pone al centro del dibattito in tutti i paesi europei.
 
La divaricazione tra crescita del PIL e crescita occupazionale è dimostrata dai dati non solo dei paesi europei, ma anche di paesi con trend economici maggiormente in crescita in quel periodo, come il Giappone e gli altri paesi del Sud Est Asiatico.
 
Lo sviluppo di nuove tecnologie riduce sempre di più i tempi di produzione e il numero delle persone necessarie al ciclo produttivo, incrementando sensibilmente la produttività e richiedendo sempre meno occupazione.
 
L’intervento sull’orario, che si concretizza con l’obiettivo delle 35 ore settimanali, inizialmente in Germania, nel settore metalmeccanico, successivamente in Francia, con le leggi Robien e Aubry si presenta quindi come uno degli strumenti fondamentali per rispondere ai problemi occupazionali conseguenti a una fase di innovazione dei processi produttivi.
 
La stessa presenza sempre più radicata delle donne nel mercato del lavoro, modifica la vecchia divisione dei lavori tra sessi ed evidenzia l’urgenza di armonizzazione dei tempi, a partire da quelli di lavoro, per arrivare ai tempi dei servizi, della formazione della cultura, de consumo, dell’organizzazione sociale.
 
Prende sempre più corpo una posizione che non si limita a indicare nella riduzione della giornata lavorativa la strategia da seguire, bensì a cogliere la necessità di una riduzione dell’orario, finalizzata alla riorganizzazione del rapporto tra tempo di lavoro e di non lavoro, all’interno di una visione positiva della fllessibilità del sistema degli orari.
 
Nascono i nuovi modelli di orario pluriperiodali e le nuove figure del mercato del lavoro
 
Il movimento sindacale in Italia non ha mai avuto una posizione di chiusura sulla flessibilità degli orari di lavoro.
 
Nei CCNL più importanti, e in particolare in quello dei tessili, già dalle tornate contrattuali degli anni 80, sono previsti sistemi di flessibilità di orario per rispondere alle stagionalità della produzione, attraverso il superamento dell’orario contrattuale e il successivo recupero, in un certo numero di settimane.
 
Nella Pubblica Amministrazione fin dal 1985, fu firmato un accordo che prevedeva la flessibilizzazione e la riduzione dell’orario di lavoro, con un’oscillazione tra le 40 e le 32 ore settimanali, per rispondere alle esigenze dei servizi nei diversi periodi del mese e dell’anno.
 
Nell’ultima tornata contrattuale questi strumenti di flessibilità interna sono stati ulteriormente ampliati in tutti i CCNL, attraverso l’aumento delle settimane utilizzabili e i limiti di orario settimanale.
 
Il CCNL dei tessili prevede a questo riguardo 96 ore annue di flessibilità, con maggiorazioni del 12% per le prime 48 ore e del 15% per le successive, oltre alla possibilità di contrattare con la RSU ulteriori necessità con carattere di urgenza, prevedendo una maggiorazione del 21%.
 
Lo stesso strumento delle Banche ore, introdotto in tutti i CCNL, può permettere un ricorso controllato e contrattato, allo straordinario e, seppure con modalità non sempre simili, il recupero in periodi di riposo successivi..
 
Oltre a questi strumenti di flessibilità interna, negli ultimi anni si è assistito allo svilupparsi di nuove forme di rapporto di lavoro, come il part-time, il tempo determinato, l’interinale e il parasubordinato, senza contare il carattere temporaneo dei contratti di formazione lavoro e dell’apprendistato.
 
Nel 1987 le assunzioni a tempo determinato erano il 7,15% del totale. Nel 91 erano passati al 16,9%.
 
I part-time passano dallo 0,6% del 1987 al 7,9% del 1999, e se è vero che l’incidenza è sotto la media europea (16%) e lontana da quella di altri paesi come il 38% dell’Olanda o il 25% del Regno Unito, bisogna considerare che nel 1999 le assunzioni con contratto a tempo parziale rappresentano il 18% del totale delle nuove assunzioni.
 
Tra il 98 e il 99 si assiste al vero e proprio boom del lavoro interinale che cresce del 382,35%.
 
Nel 1999, complessivamente i rapporti di lavoro non a full-time e a tempo indeterminato, denominati convenzionalmente come atipici sono 4 milioni954, pari al 23,97% del totale della forza lavoro, e dei 200mila nuovi posti di lavoro creati negli ultimi 12 mesi, l’80% è costituito da queste forme di rapporto.
 
L’ampio gamma di flessibilità esterna delle forme di rapporto di lavoro, insieme agli strumenti di flessibilità interna, permettono una forte aderenza degli organici ai flussi di attività programmabile a livello stagionale e di rispondere rapidamente agli andamenti imprevedibili di attività.
 
Si creano però anche le premesse per una nuova concezione del rapporto di lavoro, con l’accentuarsi della disponibilità a lavorare in condizioni deregolamentate, negli orari più disagiati, nelle condizioni di maggiore rischio per la salute e la sicurezza.
 
I lavoratori che entrano nel mercato del lavoro con le nuove forme di rapporto, aspirano ad aumentare le ore di prestazione e a consolidare il rapporto di lavoro e si rendono disponibili a rispondere a tutte le richieste di prestazioni extracontrattuali che arrivano dall’azienda, vivendo spesso come vincoli di rigidità le norme contrattuali.
 
E’ certamente vero che oggi una parte considerevole di giovani, si presenta nel mercato del lavoro cercando un’attività anche temporanea e che non lo occupi per troppo tempo, per potersi dedicare ad altre attività, come lo studio, la cura dei figli, ecc.
 
Ma è anche vero che quasi sempre, i bisogni di flessibilità e di tempo libero del lavoratore, non conciliano con quelli dell’azienda.
 
Le forme di part time sempre più richieste dalle aziende, non sono quelle tradizionali di tipo orizzontale, cioè con un orario stabile per una parte della giornata, ma quelle verticali, modulari o cicliche, o flessibili e a chiamata, come il così detto part time Mac Donald, in cui la prestazione è determinata dalle esigenze dell’attività aziendale, a cui deve essere condizionata la gestione del tempo di non lavoro del lavoratore.
 
Gli stessi rapporti di lavoro a tempo determinato e interinale, non vengono programmati nei periodi dell’anno scelti dal lavoratore, ma in risposta alle esigenze aziendali, anche in periodi in cui il lavoratore dovrebbe dedicarsi ad altre attività.
 
E’ vero cioè che questi tipi di rapporto di lavoro rispondono anche a esigenze dei lavoratori, ma solo in misura poco rilevante e anche in questo caso vengono a scontrarsi esigenze contrastanti di flessibilità tra lavoratore e azienda.
 
L’esempio più emblematico è ancora quello del part time, che vede da una parte il padronato e la Confindustria in particolare, lamentare la sua scarsa diffusione in Italia, l’esistenza di presunti vincoli e rigidità che ne impediscono l’utilizzo, al punto di sostenere la campagna referendaria per la sua liberalizzazione, ma dall’altra la necessità per il sindacato di rivendicare nelle piattaforme dei contratti nazionali e integrativi, maggiori possibilità di passaggio da tempo pieno a tempo parziale, anche nel terziario dove la diffusione del pt è già mediamente più alta di altri settori.
 
Ciò può sembrare una contraddizione, ma in realtà è la dimostrazione evidente che la distribuzione dell’orario di lavoro, che servirebbe al lavoratore per poter svolgere attività personali, tanto da giustificare la perdita di salario conseguente alla trasformazione da tempo pieno a part-time, non è quella che serve all’azienda e ancora oggi si assiste a casi di lavoratrici costrette a rinunciare al posto di lavoro a causa della non disponibilità dell’azienda a trasformare il contratto da full-time a part-time.
 
Dalle diverse indagini fatte tra i lavoratori occupati, emerge una disponibilità a distribuire diversamente il proprio tempo di lavoro, su base diversa dalla settimana, ma, a parte la forte diversità tra i punti di vista degli uomini e delle donne, si evidenzia un dato comune: il timore che le forme di orario pluriperiodali indeboliscano il diritto alla determinazione del tempo per il lavoratore e lo rafforzino per l’impresa.
 
Tra i giovani in cerca di prima occupazione, viene manifestato si un interesse per forme di lavoro atipico, ma con la garanzia di alcuni diritti inalienabili.
 
Qui sta il nodo dei problemi attuali di rappresentanza per il sindacato, e non solo per esso.
 
Qui sta anche il nodo della ridefinizione e ricollocazione del problema dei tempi nell’azione sindacale, all’interno del quale collocare, il più possibile correttamente, il tema della flessibilità.
 
Se i neo assunti non trovano all’interno dell’impresa condizioni di lavoro eque e percorsi certi e trasparenti di miglioramento e consolidamento del loro rapporto di lavoro, è immaginabile che non si sentano realmente rappresentati dal sindacato e possa maturare un sentimento di apatia, se non di ostilità, verso la contrattazione collettiva.
 
Questa situazione può creare altresì le condizioni per incoraggiare forme di contrattazione individuale, come modello culturale alternativo alla contrattazione collettiva.
 
La situazione attuale del dibattito politico in europa: dalla riduzione dell’orario all’esasperazione della flessibilità
 
Sul piano contrattuale, l’orario settimanale ha subito negli ultimi anni una graduale diminuzione e va dalle 36 ore dei tessili, di alcuni settori pubblici e di lavorazioni su turni nell’industria, alle 37,45 del CCNL dei chimici, alle 38 ore della Grande distribuzione, alle 40 ore, con un orario annuo compreso tra le 1600 e le 1800 ore.
 
A livello legislativo va invece segnalata l’estrema lentezza dell’evoluzione normativa.
 
Fino al 1997, la legge che regolava l’intera materia degli orari di lavoro era il Regio Decreto del 1923, che indicava come orario normale le 48 ore settimanali, per un limite di 10 ore al giorno e 60 ore settimanali, considerando straordinarie le ore oltre la quarantottesima.
 
La Legge 196 del 1997, il così detto Pacchetto Treu, ha portato l’orario normale a 40 ore settimanali, riducendo il limite massimo a 52 ore e demandando alla contrattazione sindacale la possibilità di definire modalità di orari flessibili su base annua, con media di 40 ore settimanali.
 
Il disegno di Legge sulle 35 ore di orario normale è fermo in Parlamento ed è difficile ipotizzarne gli esiti.
 
A livello europeo è la Francia ad avere innovato maggiormente sul piano legislativo, proponendo un possibile modello di riferimento.
 
Con la Legge Aubry sulle 35 ore sono stati creati nel 1999 quasi 500mila posti di lavoro, con una diminuzione dell’incidenza delle assunzioni di contratti a tempo determinato, passati dal 34% del 1999 al 30% del primo trimestre del 2000.
 
In Germania le 35 ore sono state conquistate con accordo sindacale sin dal 1995 nell’industria metalmeccanica ed editoriale, mentre negli altri settori l’orario è di 36 ore.
 
Alle riduzioni di orario di lavoro, in Germania si è intrecciata storicamente una forte contrattazione della flessibilità, che viene considerata la via per realizzare riduzioni di orario a 32 ore settimanali, ipotizzando però di arrivare anche a settimane di 50 ore.
 
Ma il modello che più sembra appassionare il padronato nostrano è quello spagnolo, dove il 33% dei rapporti di lavoro è di carattere temporaneo e il 62% con una durata inferiore a un mese.
 
In Italia questo dibattito è ormai oggetto di scontro quotidiano.
 
La campagna referendaria sulla liberalizzazione del pt e del td e per l’abrogazione dell’art.18 dello Statuto, il Patto per il lavoro di Milano, che ora si vorrebbe estendere a tutte le categorie di lavoratori, la recente decisione dell’ATM di Milano di fare ricorso a 230 rapporti interinali, l’insistenza del neo-presidente della Confindustria sulle resistenze del sindacato, CGIL in primo luogo, sulla flessibilità, sono parte di una violenta offensiva che punta a indicare nella scarsa flessibilità la causa dei problemi di competitività del sistema produttivo e della disoccupazione.
 
In realtà gli spazi di flessibilità, interna ed esterna, sono tali e tanti da consentire risposte a tutte le problematiche delle imprese.
 
Prendiamo alcuni casi significativi:
 
Alla Whirpool di Cassinetta di Biandronno, gli accordi sottoscritti, tra il 1999 e l’aprile 2000, senza l’adesione della Confindustria, hanno cambiato radicalmente la struttura occupazionale e il modello di organizzazione degli orari.
 
Nel giro di un anno, l’utilizzo degli impianti è passato da 72 a 103 ore settimanali, con circa 700 assunzioni, di cui 300 a tempo indeterminato.
 
Alla tradizionale composizione occupazionale limitata ai full-time, si è aggiunta una considerevole quota di part-time.
 
Dai tradizionali due turni per sei giorni, si è passati a due turni per i lavoratori full-time, distribuiti su un primo turno di sei giorni (dal lunedì al sabato), un secondo turno di cinque giorni e tre turni per i lavoratori part-time.
 
Alla Rinascente di Piazza Duomo a Milano, gli accordi tra la Direzione Aziendale e la RSU e le Organizzazioni Sindacali, senza la presenza della Confcommercio, hanno portato in quattro anni l’utilizzo degli impianti da 10 ore giornaliere e 60 settimanali a 13 e 78.
 
La struttura occupazionale, composta inizialmente da full-time per l’80% e da part-time volontari, è stata incrementata con l’assunzione di 75 nuovi part-time, in questo caso non volontari, di cui 15 sono già stati trasformati in full-time.
 
Sono solo due casi che evidenziano i cambiamenti della struttura occupazionale e degli orari in risposta alle esigenze aziendali, entrambi senza la presenza delle associazioni datoriali ed entrambi con ulteriori margini di flessibilità previsti dai rispettivi CCNL e accordi integrativi.
 
Sarebbe interessante sfidare i sostenitori della necessità di ulteriori flessibilità ad avanzare proposte e necessità concrete, anziché avventurarsi in continue campagne generiche e strumentali.
 
Ma probabilmente il loro tentativo è quello di fare saltare le regole della contrattazione e il ruolo del sindacato, il concetto di diritti, attraverso la diffusione della cultura della precarizzazione.
 
Prospettive per la contrattazione
 
Il tema degli orari, indipendentemente dalle posizioni politiche e ideologiche, conserva pertanto tutta la sua attualità, sia per ridistribuire gli incrementi di produttività e il lavoro già disponibile, che per una nuova battaglia sui diritti alla determinazione dei tempi di lavoro e di non lavoro.
 
Le flessibilità interne, attraverso i diversi modelli di orari pluriperiodali e le flessibilità esterne, con le nuove forme di rapporto di lavoro, in assenza di regole, hanno in comune la caratteristica dell’accentuarsi dell’incertezza per il lavoratore e di maggiore discrezionalità dell’impresa.
 
E’ possibile ipotizzare una fase di lotte sindacali in cui il tema della definizione di un solido sistema di diritti e regole sullo svolgimento della prestazione lavorativa riesca a saldare unitariamente gli interessi delle figure tipiche e atipiche del mercato del lavoro.
 
Dobbiamo però sapere cogliere con puntualità gli effetti della flessibilizzazione della prestazione lavorativa per aggiornare e adeguare il nostro metodo di lavoro e i contenuti rivendicativi sugli aspetti centrali dell’azione sindacale:
 
Sul piano dell’attività sindacale, le stesse modalità di svolgimento delle assemblee dovranno tenere conto della miriade di orari e periodi di prestazione, che rendono sempre più impossibile limitarsi alla tradizionale assemblea generale unica.
 
Sul piano della rappresentanza, si dovrà cercare di favorire la partecipazione nelle RSU delle figure atipiche, dando cittadinanza alle loro problematiche.
 
Sul piano della formazione, si dovrà pensare a percorsi formativi adatti a modalità non più lineari della prestazione.
 
Sul piano delle pari opportunità di sbocco professionale, non dovranno esserci discriminazioni verso le prestazioni non tradizionali.
 
Sul piano della sicurezza, dovrà essere prestata particolare attenzione agli orari più disagiati e con minor presenza di lavoratori.
 
Si tratta cioè di cogliere i mutamenti avvenuti adeguando le nostre strategie, per evitare che passi una vera e propria cultura della precarizzazione del rapporto di lavoro insieme a un indebolimento del nostro ruolo di rappresentanza di tutti i lavoratori.