www.resistenze.org - proletari resistenti - lavoro - 21-12-09 - n. 300

da Assemblea! - Dicembre 2009 - www.assemblealavoratori.it/pdf/dicembre2009.pdf
 
La tempesta della crisi. Non siamo tutti sulla stessa barca
 
Le parole “recessione” e “crisi” sono ormai entrate nel lessico quotidiano. La situazione è molto grave. Il calo del Pil atteso nel 2009 è superiore alla media europea (-2,1%). La produzione industriale è crollata di quasi il -12%. La bilancia commerciale è in deficit. L’Italia è ufficialmente in crisi, dopo anni di affanno e debolezza cronica.
 
Milioni di persone rischiano il posto di lavoro e qualsiasi possibilità di una sopravvivenza dignitosa. Ma da dove arriva questa crisi che ci sta travolgendo? Ci avevano detto che più sacrifici facevamo e più eravamo competitivi e che la macchina dell’economia di mercato ci avrebbe dato benessere a tutti. Salviamo l’economia! Siamo tutti sulla stessa barca!
 
In nome di questo ritornello abbiamo subìto o accettato anni di concertazione sindacale e governi che ci hanno chiesto appoggio per “risollevare” l’economia. E mentre con questi nostri “sacrifici” un ristretto numero di imprenditori, speculatori, amministratori e padroncini vari si ingrassava, i nostri salari sono crollati e i nostri diritti sono evaporati uno ad uno. Ci è stato detto che quei primi sentori della “crisi” (e i primi sentori della fame!) erano colpa della concorrenza delle merci e della manodopera di altri paesi che minacciavano la competitività “made in Italy”. Una questione meramente commerciale…D’altronde, ci avevano detto, basta che tiriate un po’ di più la cinghia…in fondo, siamo tutti sulla stessa barca!
 
E così producendo sempre di più, facendoci ammazzare sul e da lavoro, comprando sempre di meno con uno stipendio sempre più ridotto, indebitandoci sempre di più per mantenere una casa, un accesso all’istruzione per i figli e un livello di vita accettabile ci siamo trovati senza difese di fronte all’ultima burrasca di questa crisi strutturale del sistema economico capitalista che ci sta mordendo da un anno e mezzo in maniera micidiale.
 
E’ colpa degli immigrati che ci rubano il lavoro, ci dicono ancora, che rendono le nostre vite insicure e delle speculazioni finanziarie dei mutui negli Stati Uniti! D’altronde, bisogna aspettare la ripresa perché…siamo tutti sulla stessa barca!
 
Ma quale barca dobbiamo salvare? Quella di speculatori come i padroni che volevano acquistare la INNSE solo per vendere al mercato i macchinari e chiudere la baracca? Oppure quella di approfittatori come gli amministratori dell’Eutelia che fanno irruzione con vigilantes armati contro i lavoratori che occupano la sede di lavoro per difendere il proprio posto ed il proprio futuro? Oppure quella di multinazionali spregiudicate come gli statunitensi dell’Alcoa o la BMW per la Maflow che, dopo aver spremuto gli operai italiani, vogliono spostare altrove la produzione e spremere altri colleghi di altri paesi a costi inferiori? Oppure le grosse aziende del capitalismo italiano come FIAT e Telecom che intascano dividendi e stipendi d’oro per i propri manager grazie agli aiuti statali e, quando questi cessano, scaricano il costo sui lavoratori e sulla collettività?
 
O ancora il sistema bancario che regge tutto questo sistema criminale e affama i piccoli debitori per lo più lavoratori come noi che devono tirare a campare? Allora il problema reale è di natura “interna”. E’ nella produzione e in tutto ciò che gli gira attorno. Le grandi aziende hanno reagito alla diminuzione del livello dei propri profitti (che comunque si sono garantiti) con la diffusione della produzione e delle lavorazioni in un rivolo di appalti verso un sistema di piccole imprese non in grado di reggere la competizione internazionale, ma solo di basarsi su salari da fame e diritti zero.
 
I nostri interessi, quindi, non sono in competizione con quelli di lavoratori di altri paesi - o immigrati nel nostro - che subiscono questo stesso sistema. Siamo in competizione, semmai, proprio con gli interessi di questo pugno di imprenditori, speculatori e amministratori e con il sistema che li tiene in vita con queste regole che noi manteniamo. Senza considerare che questo sistema è sorretto da politiche di governi che negli ultimi anno non hanno fatto nulla per i lavoratori e le loro famiglie, ma al contrario aiutano le imprese in questo attacco continuo alle nostre condizioni di vita con provvedimenti che colpiscono il lavoro, rendono risibili le tutele e allargano le disuguaglianze.
 
Basti pensare all’attuale governo Berlusconi che dichiara di non avere risorse per gli aumenti degli stipendi e per gli ammortizzatori sociali per i lavoratori che subiscono gli effetti della crisi, ma li trova per missioni militari, sostenere le banche e le imprese, programmare una detassazione per le aziende. Questo esecutivo reazionario cerca di farci credere che la nostra sicurezza è messa in discussione dagli immigrati, mentre l’unica vera minaccia è data dalla sua cancellazione delle tutele sulla sicurezza sul lavoro, dai tagli alla Scuola e alle funzioni pubbliche che cancellano decine di migliaia di posti di lavoro, dall’abrogazione delle procedure che impedivano il ricatto della firma delle dimissioni in bianco, dal ridimensionamento delle competenze dei giudici del lavoro e dalla facilitazione delle norme per lo scorporo, esternalizzazione e cessione di rami (ad es. per aziende in “amministrazione controllata”).
 
Intanto, la disoccupazione in Italia continua a mostrare una crescita esponenziale. Sono oltre 760.000 i posti di lavoro persi in un anno a causa della crisi tra licenziati, messi in mobilità, contratti interrotti o chiusure di aziende. Aquesti se ne andranno ad aggiungere almeno altri 900.000 nel prossimo anno secondo le previsioni.
 
Con le centinaia di migliaia di esuberi, determinati dalle crisi aziendali e dai tagli ai servizi pubblici, nell’ultimo anno e mezzo si sono persi un numero enorme di posti di lavoro. Siamo rimbalzati in pochi mesi a dati sulla disoccupazione che non si vedevano da 5 anni sfondando nuovamente il tetto dell’8%, ovvero più di due milioni di persone. La previsione per il 2010 è di un ulteriore aumento con molti lavoratori in mobilità che non rientreranno più al lavoro. Per ora il dato sulla disoccupazione è da considerarsi persino contenuto, in virtù delle centinaia di migliaia di cassaintegrati (considerati, quindi, ancora dipendenti delle proprie aziende). Il numero di occupati (23 milioni circa) corrisponde a poco più della metà (55%circa) della forza lavoro.Mentre si abbassa in maniera sensibile il numero di lavoratori che godono ancora di diritti di tutela e ammortizzatori sociali minimi, il livello occupazione dei giovanili crolla decisamente con un tasso di disoccupazione che sfiora il 30% (dieci punti circa in più della media europea) nella fascia d’età fino a 25 anni. Questo soprattutto in virtù del fatto che la maggior parte di loro accede al mercato del lavoro con contratti precari e intermittenti che in regime di crisi strutturale sono i primi a saltare non avendo obbligo di continuità.
 
Da sommare alle cifre delle perdite di posti di lavoro dipendenti, ci sono poi quelle dei consulenti e dei lavoratori parasubordinati, i dipendenti “mascherati” da quelle formule occupazionali proliferate grazie al Pacchetto Treu e alle Legge 30 che le hanno collocate a metà strada tra lavoro dipendente e autonomo. Queste sono una fetta ormai consistente del mercato con più di 3 milioni e mezzo di lavoratori ed hanno registrato una perdita enorme nell’ultimo anno. Ovviamente, i più colpiti sono quei giovani con contratti precari in cooperative, appalti, call center, distribuzione con forme di lavoro a termine (-230.000 in un anno), seguite dalle collaborazioni a progetto (-12,1 per cento) e da quelle occasionali (-19,9 per cento).
 
Da qualche tempo è sparito poi dall’attenzione politica e dei mezzi di comunicazione, e persino dalla centralità nelle piatt a f o r m e sindacali, l’unico ombrello nella tempesta della crisi per i lavoratori dipendenti: il salario. Questo non solo nel senso che la sua erosione ormai lo spinge vicino alla soglia di sopravvivenza, ma perché il problema della perdita direttamente del posto di lavoro, con la prospettiva immediata della miseria assoluta, rende ancora più debole la sua contrattazione tant’è che a livello sindacale la difesa del CCNL, messo in discussione dal vergognoso accordo separato di CISLUIL- UGL e Conf i n d u s t r i a , procede a intermittenza e stenta a decollare.
 
L’imposizione di questo accordo separato, regalato da questi sindacati venduti agli interessi dei padroni, impatta per ora con la resistenza del settore storicamente più combattivo (i metalmeccanici), ma se gli operai rimanessero isolati come categoria presto o tardi finirebbero per capitolare e l’impatto per tutta la classe lavoratrice è evidente. Basti pensare che prevede non soltanto la prevalenza della contrattazione aziendale rispetto a quella nazionale - in un sistema produttivo, come quello italiano, in cui questa avviene solo nel 10% circa delle aziende per l’alto livello di ricattabilità che vige nelle piccole e medie imprese - ma addirittura la possibilità per le nuove imprese di derogare al contratto nazionale. È questo il centro dell’accordo assieme alla forte limitazione del diritto di sciopero, il legame del salario con la produttività decisa dall’azienda e l’applicazione di un sistema ridicolo per calcolare il costo della vita su cui basare i recuperi salariali. Eppure la questione salariale non può essere vista come un problema secondario per resistere alla crisi dal punto di vista della classe lavoratrice. I bassi salari sono ritenuti una parte non trascurabile del problema-crisi da molti osservatori e analisti economici, in quanto la debolezza della domanda interna è uno dei freni alla ripresa. Anzi il crollo dei consumi la incentiva.
 
Da parte loro, i gruppi dominanti di ogni paese, per salvarsi dal naufragio, si buttano a corpo morto sulla forza-lavoro, spremendola all’osso. Riducono i salari; impongono la disponibilità illimitata; allungano la giornata e l’intensità lavorativa; riducono le pensioni; aumentano affitti e prezzi delle case. La razzia del lavoro immigrato, di quello al nero e di quello minorile ci riporta a canoni vicini all’epoca feudale. Pur essendo stati generalizzati i contratti a termine e tutte le forme di lavoro cosiddetto atipico (i famosi lavori precari), i padroni reclamano ancora nuova flessibilità.
 
L’unico modo che sembra conosciuto per rianimare i profitti è quello di chiudere reparti e stabilimenti interi; mettere gli operai in Cig, in mobilità o licenziarli tout court; evitare assunzioni stabili, privilegiando le occupazioni precarie, saltuarie e flessibili. In una parola: ripristinare un esercito industriale di riserva a livelli sconosciuti da anni e far accettare alla classe lavoratrice salari ancora più bassi, orari ancora più lunghi, ritmi ancora più intensi.
 
Questo capitalismo si dibatte in una contraddizione insolubile: da una parte deve contenere e ridurre salari e stipendi per rianimare i profitti industriali, mantenere e rimpolpare le rendite e i profitti bancari; dall’altra soffre per la ristrettezza dei consumi interni e le difficoltà sul mercato mondiale.
 
E allora è chiaro: non siamo tutti sulla stessa barca! Visto che di fronte ad un pugno di avvoltoi della finanza (industriali, banchieri, ecc…) che affrontano la burrasca della crisi su mega-piroscafi, panfili e yacht, la stragrande maggioranza degli italiani remano a fatica su barchette, gommoni e materassini. L’unica via di uscita dalla crisi è unirci in un fronte di resistenza sociale che lotti per i nostri interessi di classe (salario, salute, casa, istruzione, ambiente) sganciandoci dagli interessi dei padroni e da una politica della concertazione e della cogestione che ci ha portato di fronte al baratro con le nostre armi di difesa spuntate. Partiamo da noi, non delegando a nessuno la difesa di questi nostri interessi.