Prima tappa dell'analisi della legge che istituisce anche in Italia il sistema integrato di educazione e istruzione, dalla nascita sino ai sei anni
Sabato 14 gennaio, nell'ultimo giorno utile, si è riunito il Consiglio dei Ministri per approvare il decreto legislativo che istituzionalizza il "sistema integrato di educazione e istruzione dalla nascita sino a sei anni". Una svolta complessa che sarà trattata in tre articoli: il primo riguardante il paradigma teorico, il secondo i contenuti della legge, il terzo la commistione pubblico-privato.
Il decreto approvato rappresenta la risposta della classe dominante ai mutamenti socio-economici occorsi negli ultimi decenni che toccano profondamente il modo di riproduzione della forza-lavoro. Da un lato, aumenta il bisogno di servizi socio-assistenziali diretti alla famiglia: per la struttura mononucleare o monoparentale, per la crescente necessità che entrambi i genitori hanno di lavorare anche quando la prole è appena nata, per la crescente flessibilità oraria imposta dal padronato indipendentemente dall'età dei figli, per la scarsa incidenza e usabilità dei congedi, ecc. Tutto ciò impone di trovare una sistemazione a quasi tutti i bambini fin dai tre mesi di vita e impone anche alle scuole di ogni ordine e grado una crescente attenzione alla conciliazione tra i tempi e le tipologie di lavoro dei genitori e la cura dei fanciulli. Dall'altro lato, il perdurare della crisi inasprisce la concorrenza ed il successo si gioca sulla combinazione tra abbattimento salariale, sviluppo tecnologico e promozione di capacità, conoscenze e abilità in grado di posizionare l'individuo e la società sulla fascia alta della divisione internazionale del lavoro, e permettergli di conquistare/mantenere la supremazia succhiando il plusvalore altrove prodotto. A questa situazione la classe dominante risponde trasformando i servizi socio-assistenziali, educativi e scolastici destinati alle madri lavoratrici e alla formazione della futura cittadinanza, in veri e propri investimenti in "capitale umano".
Questa risposta, tuttavia, non consente il superamento dell'apparente dicotomia tra le attività più propriamente assistenziali rivolte alla famiglia (in cui la cura del bambino non è il fine ma il mezzo per permettere ai genitori di lavorare) e quelle educative (dove il bambino è il fine dell'azione). Il loro antagonismo, infatti, non è immanente ma generato dall'organizzazione del lavoro attualmente dominante. Solo eliminando la natura salariata del lavoro e l'isolamento della famiglia dalla societàè possibile sviluppare insieme ed armonicamente il lato assistenziale del servizio educativo e il lato educativo dell'assistenza alla famiglia [1].
La trasformazione in atto, invece, va in tutt'altra direzione e a guidarla vi sono due logiche apparentemente opposte. La prima è quella dei tagli indiscriminati, che lungi dal rappresentare la diretta conseguenza dello sviluppo delle forze produttive che abbassa i costi a parità di prestazioni, serve unicamente a dirottare le risorse pubbliche altrove, col conseguente depauperamento quali-quantitativo del servizio. La seconda è quella della trasformazione del servizio da spesa che deve essere programmaticamente ridotta ad investimento che deve essere valorizzato. Una riorganizzazione complessiva del settore, dunque, non certo pensata per venire incontro all'improcrastinabile esigenza di universalizzare il servizio; per eliminare le disparità di trattamento; per diminuire gli oneri che le giovani coppie patiscono dalla precarietà di orari e di guadagni; per garantire un diritto allo studio che oramai, volendo aggiornare una parola d'ordine passata alla storia, comincia a tre mesi. Una riorganizzazione, al contrario, pensata coerentemente all'esigenza di riannodare il filo dell'accumulazione perduta, attraverso il taglio alle voci di bilancio dedicate alla gestione pubblica di asili e scuole e l'aumento degli incentivi alla gestione privata da parte dei piccoli e grandi gruppi cooperativi ed imprenditoriali.
Quello attuale, però, non è il primo grande momento di svolta nel settore, come già evidenziato nell'ottimo articolo di Antonia Sani. Come sottolineato dalla compagna, il primo progetto di integrazione zero-sei, sebbene in chiave assistenzialistica, fu proprio l'Onmi, "l'opera nazionale per la protezione della maternità e dell'infanzia", istituita dal fascismo con la legge del 10 dicembre 1925, n. 2277. L'Opera segna il passaggio da forme di beneficenza privata a favore di madri e fanciulli bisognosi, al tentativo di generalizzare l'assistenzialismo attraverso un organismo pubblico parastatale. Fino ad allora, infatti, l'iniziativa era lasciata agli industriali e ai preti che accoglievano per lo più i figli di madri lavoratrici (dunque povere) direttamente in fabbrica oppure nei pressi di ospedali, chiese o scuole. E con l'Onmi l'assistenza alle famiglie povere acquista nuovi "fascistissimi" compiti, come quello di perfezionare e sviluppare le condizioni fisiche più favorevoli al potenziamento della "razza", di favorire e premiare la natalità, di educare la donna alla maternità e all'obbedienza. Gli approcci assistenziali e pedagogici anti-autoritari che pure già si erano sviluppati in Italia e all'estero vennero banditi (si pensi all'approccio Montessoriano o al lavoro condotto tra il 1921 e il 1925 da Vera Schmidt e di Sabina Spielrein nell'asilo sperimentale di Mosca).
Per vincere la battaglia demografica, infatti, non c'era bisogno di promuovere l'emancipazione della donna né adeguate condizioni di socialità tra bambini, ma unicamente mitigare alcuni dei peggiori effetti che l'industrializzazione capitalista produce su di essi e che avevano assunto una dimensione tale da minare la stabilità e le velleità di potenza del regime. Tuttavia, l'attività dell'Opera aveva carattere temporaneo e non stabile, integrativo e non sostitutivo, giacché non si voleva che gli individui rinunciassero "alla lotta per l'esistenza" o "ai doveri che incombono ai genitori verso i figli o alla famiglia verso i propri componenti". Inoltre, nello statuto dell'Onmi non vi era traccia di interventi educativi, ma l'impegno era tutto proteso verso l'assistenza igienico-sanitaria, la vigilanza, la custodia e per di più limitato unicamente alle famiglie più bisognose.
Nel secondo dopoguerra la situazione cambia radicalmente e si creano le condizioni per la seconda svolta nel settore. Col procedere dello sviluppo imperialistico, la stragrande maggioranza dei bambini si affranca progressivamente dal lavoro, le malattie infettive vengono debellate o circoscritte, la mortalità infantile quasi azzerata, grande e crescente è la richiesta di manodopera femminile, la campagna decade a beneficio delle città, la famiglia allargata lascia progressivamente il posto a quella mononucleare. Tutto ciò, da un lato consente l'emergere di bisogni che trovano voce nei grandi movimenti di emancipazione, e dall'altro lo sviluppo delle condizioni economiche e politiche per soddisfarli. Tra i tanti, la trasformazione dei servizi dedicati all'infanzia, le cui avvisaglie si hanno già nel 1950, con la legge 860 per la tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri (poi ampliata dalla 1204 nel 1971). Ma è solo con i movimenti che in Italia emergono nel '68 che si arriva al superamento dell'Onmi e alla seconda grande trasformazione dei servizi dedicati all'infanzia.
La legge del 1950, infatti, prevedeva l'istituzione di camere di allattamento o di asili nido direttamente nelle aziende che occupavano almeno trenta donne coniugate, lasciando prive di tutelare le forme di lavoro che non fossero di tipo dipendente, né permetteva di sanzionare chi non rispettasse questo nuovo diritto acquisito dalla lavoratrice-madre, consentendo così limitazioni e violazioni di ogni tipo. Pur con tutti i suoi limiti, però, questa norma ebbe il merito di rovesciare per la prima volta la logica con la quale si era intervenuti fino ad allora: non più un intervento delle autorità a tutela degli interessi delle classi dominanti ma una legge frutto delle mobilitazioni politico-sindacali degli sfruttati che erano riuscite a strappare anche l'obbligo di impiegare "personale in possesso dei requisiti didattici per l'assistenza e l'educazione della prima infanzia".
Dal 1966, anno in cui Franca Viola, stuprata, dice NO al matrimonio riparatore, è un susseguirsi di sconvolgimenti epocali per il nostro Paese. Non solo riguardo la cura dei più piccoli, ovviamente. Profondi cambiamenti che hanno investito i luoghi di lavoro, la società e le famiglie nella struttura, nei ruoli, nei comportamenti e nelle aspettative, determinando l'emergere di nuovi bisogni relativamente alla vita e all'educazione dei bambini. Ma ancora una volta, il cambiamento si concretizza solo grazie alla mobilitazione. Ma se con la l. 444 del 1968 si avvia un progetto di statalizzazione della scuola materna fortemente criticato in quanto sanciva la copertura del bisogno di scuole pubbliche attraverso la presenza delle scuole private (vedi ancora articolo di Antonia Sani, nda), con la 1044/1971 si prevede che gli asili diventino finalmente un "servizio sociale di interesse pubblico" (Art. 1) finalizzato ad "assicurare una adeguata assistenza alla famiglia e facilitare l'accesso della donna al lavoro nel quadro di un completo sistema di sicurezza sociale" (Art. 2) nonché a "garantire l'assistenza sanitaria e psico-pedagogica del bambino" (Art. 6).
Strutture territoriali e aperte a tutti, indipendentemente dalla classe di appartenenza, dal bisogno o dalla condizione psico-fisica del bambino (senza discriminazione né ghettizzazione in classi differenziali). Servizi finanziati dallo Stato, disciplinati dalle regioni e gestiti dai comuni, con la partecipazione della famiglia e delle organizzazioni sociali presenti sul territorio e in cui si supera la divisione rigida dei ruoli e delle gerarchie tra educatrici, introducendo il concetto di gruppo educativo. Si possono così cominciare ad inserire interventi pedagogici rispondenti ai caratteri evolutivi della prima infanzia senza sconfessare il carattere socio-educativo che caratterizza gli asili nido e per il quale ancora oggi sono sottoposti a vigilanza del Ministero della Salute.
Ma la controffensiva padronale non poteva non influenzare anche i servizi dedicati agli infanti. Il contributo finanziario statale diminuisce fino quasi a scomparire già alla fine degli anni settanta; poi, la notte di capodanno del 1983, con decreto del Ministero dell'Interno, il servizio cessa di essere "di interesse pubblico" per diventare "a domanda individuale", dunque posto in essere non per obbligo istituzionale ma in ragione della richiesta degli utenti. Primi tasselli di un mosaico che nei successivi vent'anni porterà i segni dell'evoluzione del conflitto di classe e dello strapotere padronale.
Insospettabile alfiere del nuovo corso che si concretizzerà con la novella integrazione tra asili e materne, non è un pedagogo ma un economista ben considerato dall'asinistra, James Joseph Heckman, premio Nobel e studioso del legame tra investimenti sull'educazione dei bambini, anche molto piccoli, e crescita economica. Nella nuova narrazione dominante, le capacità, le conoscenze e le abilità proprie dell'età adulta non sono più attributi del cittadino ma diventano "capitale umano" che si va scoprendo e formando fin dalla nascita. Per tanto, un ambiente adeguato e stimolante diviene fondamentale sia per promuovere comportamenti socialmente responsabili (che, in un'ottica meramente economica, vengono giudicati più convenienti rispetto ai costosi comportamenti anti-sociali e criminali, in quanto si ignora la funzionalità capitalistica di ampi strati del sottoproletariato), sia per promuovere capacità che permetterebbero di ottenere il successo economico tanto agognato (dal lavoratore, non dal suo sfruttatore!).
A differenza di altri economisti, però, Heckman rifiuta il determinismo genetico secondo il quale "le abilità cognitive sono determinate geneticamente e hanno un'importanza primaria nel modellare i risultati ottenuti in età adulta", col risultato che su queste basi "le politiche pubbliche verso le persone disagiate non possono che essere di tipo compensativo". Egli, al contrario, considera fondamentali anche le abilità non cognitive (quelle socio-emozionali, la salute fisica e mentale, la perseveranza, l'attenzione, la motivazione, l'autostima) e se è vero, come afferma sulla base di studi in materia, che "le espressioni genetiche sono fortemente influenzate dall'ambiente" e che "gli effetti dell'ambiente sull'espressione genetica possono essere ereditati", allora "un'educazione di alta qualità fin dalla prima infanzia promuove lo sviluppo di abilità", che a sua volta incrementa la produttività e lo sviluppo economico.
Per Heckman, dunque, le abilità contano più della classe sociale di appartenenza nel determinare il successo. Certamente "i bambini che nascono in ambienti svantaggiati ricevono meno stimoli e hanno meno risorse (economiche e cognitive) a disposizione rispetto ai figli delle classi agiate" e nota come "l'aumento del reddito aumenta le cure parentali e l'aumento delle cure parentali riduce i comportamenti anti-sociali". Tuttavia, non vedendo come il reddito viene prodotto e distribuito, Heckman non può che preferire il contributo in natura ("conviene intervenire sulle cure parentali e non sul reddito"). E ancora, se riconosce che "le madri con un'istruzione universitaria dedicano più tempo all'educazione dei figli rispetto alle madri meno istruite", e "passano più tempo a leggere ai bambini e meno tempo a guardare la televisione con loro", tuttavia non lega l'istruzione alla classe sociale ma alle abilità. Per lui "i divari nel grado di scolarizzazione hanno più a che fare con i deficit di abilità che con le disponibilità economiche della famiglia" ed "è molto più importante, nel determinare lo svantaggio, la qualità dell'ambiente educativo piuttosto che le risorse finanziarie disponibili o la presenza/assenza dei genitori".
Dunque, se le abilità rimangono determinate geneticamente ma i geni sono influenzabili dall'ambiente nel quale si vive, cambiando l'ambiente è possibile aumentare le abilità e dare maggiori opportunità di successo senza doversi preoccupare di cambiare le determinanti sociali dei comportamenti individuali. In questo modo, si cerca di cambiare l'ambiente familiare, scolastico, ecc. eternizzando la società che li ha prodotti. Questa operazione, tuttavia, non è in grado di assicurare alcun automatico vantaggio economico dal momento che il successo capitalisticamente inteso è determinato principalmente dalla situazione presente al momento in cui i bimbi saranno in grado di mettere a frutto come cittadini e lavoratori adulti le capacità, le conoscenze e le abilità scoperte, promosse e insegnate a partire dai primi mesi di vita. Se si calcola, come fa Heckman, il ritorno economico di questi interventi senza considerare che l'erogazione in età adulta delle capacità, delle conoscenze e delle abilità acquisite in parte dipendono da condizioni economiche non prevedibili e in parte dipendono dalle capacità, conoscenze e abilità medie che saranno presenti sul mercato (per cui se aumentano per tutti, il vantaggio competitivo si annulla) non si sta facendo scienzamapura ideologia.
Pertanto, un approccio del genere non può che essere intrinsecamente conservatore sul piano sociale e smaccatamente competitivo su quello economico. Dopotutto, è lo stesso Heckman a riconoscere che "il peggioramento degli ambienti familiari porta a sollevare preoccupazioni circa la qualità del futuro della popolazione analoghe a quelle espresse dal movimento eugenetico un secolo fa. All'epoca la preoccupazione era espressa dicendo che le popolazioni geneticamente inferiori si riproducevano ad un tasso maggiore, diluendo la qualità complessiva della popolazione". Ma oggi la questione, secondo l'economista premio Nobel, può essere posta in modo diverso. "Sempre più bambini americani stanno crescendo in ambienti sfavorevoli e questo avrà conseguenze negative per la società americana. La buona notizia in tutto questo è che l'ambiente può essere migliorato per promuovere la qualità dei bambini in un modo che si pensava impossibile dal punto di vista tradizionale del determinismo genetico. La letteratura recente suggerisce che i primi ambienti con cui il bambino entra in contatto influenzano fortemente l'espressione genetica e che la società non ha bisogno di assistere passivamente al proprio declino".
Dunque, che fare? "Tutti i programmi proposti devono rispettare il primato della famiglia. Le proposte politiche devono essere culturalmente sensibili e riconoscere la diversità dei valori nella società americana. Strategie efficaci sono quelle che coinvolgono il settore privato per mobilitare risorse e produrre un menu di programmi tra cui i genitori possono scegliere".
Come vedremo nel prossimo articolo, il sistema integrato di educazione e istruzione dalla nascita sino a sei anni parte proprio da qui.
(segue)
Note:
[1] Sviluppare il "lato assistenziale del servizio educativo" non significa semplicemente accudire a scuola un bambino che sta male invece di chiamare i genitori (per la qual cosa sono esistite figure ad hoc negli asili e nelle materne prima che i tagli le eliminassero o riducessero), ma riconoscere la maggior facilità che il genitore ha nell'assistere una prole educata non in termini nozionistici, individualisti e meccanici ma in termini critici, collegiali e dialettici. Con l'espressione "lato educativo dell'assistenza alla famiglia", invece, si intende l'insegnamento che può trarre il bambino dall'accudimento che riceve dagli educatori e dagli insegnanti anche in momenti di disagio (es. quando è malato) in ragione della necessità che i genitori hanno di dover partecipare alla vita sociale (ad es. perché devono lavorare).
Parte seconda - L'integrazione zero-sei: la legge di attuazione
Seconda tappa dell'analisi della legge che istituisce anche in Italia il sistema integrato di educazione e istruzione, dalla nascita sino ai sei anni
Nel primo articolo ho provato a tratteggiare il paradigma teorico sottostante il "sistema integrato di educazione e istruzione dalla nascita sino a sei anni" evidenziando come l'accento che la classe dominante pone sulla cura dell'ambiente familiare e scolastico in cui i nascituri si troveranno immersi è determinato dalla necessità di sviluppare il "capitale umano", vale a dire le capacità, le conoscenze e le abilità funzionali al miglior impiego e alla crescita economica. Di contribuire a formare cittadini pensanti, critici, liberi, eguali e consapevoli, non se ne parla. Concludevo l'articolo citando uno degli economisti e premio Nobel che più si è battuto in questo senso, James Joseph Heckman, per il quale "tutti i programmi proposti devono rispettare il primato della famiglia, le proposte politiche devono essere culturalmente sensibili e riconoscere la diversità dei valori nella società e le strategie efficaci sono quelle che coinvolgono il settore privato per mobilitare risorse e produrre un menu di programmi tra cui i genitori possono scegliere". Principi che si ritrovano analizzando gli obiettivi (art. 1) e l'organizzazione (art. 2) del sistema integrato di educazione ed istruzione approvato dal governo italiano.
Per come è stato istituito, il sistema si propone quale strumento di carattere sia assistenziale che pedagogico, i cui beneficiari diretti sono le famiglie e i bambini. Alle prime, la norma si rivolge in un duplice senso: come nuclei educativi (si parla di sostegno alla primaria funzione educativa della famiglia, favorendone il coinvolgimento nell'ambito della comunità educativa e scolastica) e come oggetto di assistenza (favorire la conciliazione tra i tempi e le tipologie di lavoro dei genitori e la cura delle bambine e dei bambini). In nessun passaggio si trovano le famiglie quali destinatarie di appositi programmi che preparino i suoi componenti ad accudire, educare ed istruire la prole. Al contrario, ai bambini si guarda unicamente quali destinatari di cure e per svilupparne le "potenzialità di relazione, autonomia, creatività, apprendimento", senza indirizzarli in alcun modo e dunque tralasciando il loro essere al contempo mezzi attraverso cui la società vive.
Questa dimenticanza, tuttavia, non è casuale in quanto permette ai padroni di colmare il vuoto e di stabilire quali sono le potenzialità di relazione, autonomia, ecc, effettivamente da realizzare e quali da reprimere o nascondere. Non più direttamente, come una volta, quando l'istruzione era per lo più gestita direttamente dai privati, ma utilizzando gli immancabili "orientamenti educativi nazionali" stabiliti sulla base delle linee guida proposte dall' altrettanto immancabile Commissione (con la C maiuscola) designata dal Ministero, dalle Regioni e dagli Enti locali e formata dai soliti "esperti in materia di educazione e d'istruzione", nonché attraverso i famigerati "criteri di monitoraggio e di valutazione dell'offerta educativa e didattica definiti in coerenza con il sistema nazionale di valutazione di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 marzo 2013, n. 80" (Invalsi, per gli amici). L'oggetto della legge, quindi, è soltanto relativo a come sviluppare le potenzialità più utili al padronato.
Le modalità individuate sono fondamentalmente due. La prima è la subordinazione dell'integrazione dei due cicli (zero-tre e tre-sei anni) all'inclusione di chi attualmente è escluso dalla possibilità di frequentare gli asili o è costretto a lunghi spostamenti per raggiungere la materna. Con questo decreto legislativo, infatti, il problema del brusco passaggio dal nido alla scuola dell'infanzia - che esiste ed è il motivo per chiedere una maggiore (ma diversa) integrazione tra servizi socio-educativi e scuola - è destinato a rimanere insoluto o al più, come sottolineato già nell'articolo di Beatrice Corsetti, ad essere risolto svalutando quanto di buono i due diversi segmenti che si vogliono integrare riescono attualmente a produrre, dal momento che questa esigenza si trova a convivere con la molto più grande e sentita esigenza di garantire il servizio ad una crescente fetta di popolazione (ad almeno il 33 per cento dei bambini sotto i tre anni e al 90 per cento di quelli sotto i sei, secondo quanto stabilito in sede Ue). Ciò finirà per monopolizzare gran parte dello sforzo organizzativo e finanziario, lasciando alla pedagogia realmente praticata da educatrici ed insegnanti per integrare i servizi socio-educativi con quelli scolastici, solo le briciole in termini di attenzione, tempo e risorse.
Un conto, infatti, è fare in modo che il percorso dai tre mesi ai sei anni sia il meno traumatico possibile, maggiormente coordinato, ecc - e questo va fatto quotidianamente nel rapporto coi bambini e tra educatrici ed insegnanti - un conto è prevedere, tra gli obiettivi strategici del sistema integrato (art. 4): (a) il progressivo consolidamento, ampliamento nonché l'accessibilità dei servizi educativi per l'infanzia (con l'obiettivo del 33 per cento); (b) la graduale diffusione dei servizi educativi per l'infanzia (con l'obiettivo di giungere al 75 per cento nei comuni); (c) la generalizzazione progressiva, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, della scuola dell'infanzia.
Obiettivi condivisibilissimi ma che devono essere affrontati con strumenti diversi rispetto a quelli necessari per l'integrazione e che poco o nulla hanno a che fare con la pedagogia se non per il fatto che il loro raggiungimento rappresenta una precondizione necessaria affinché la società (e non solo la famiglia) si possa prendere in carico la cura, l'educazione e l'istruzione delle giovani generazioni.
Questa commistione tra integrazione ed inclusione, però, non è casuale né era parte del disegno originale (la legge di iniziativa popolare promossa da Anna Maria Serafini, già deputata del PCI-PDS-DS e poi senatrice PD) che voleva introdurre già nel 2004 l'integrazione zero-sei per fornire a tutte le bambine e i bambini "il diritto ad avere pari opportunità di educazione e d'istruzione, di cura, di relazione e gioco". Questa commistione viene introdotta successivamente, nel 2014 col Ddl a firma di Francesca Puglisi (anche lei senatrice del PD) che tuttavia aveva il merito di lasciare intatta la dimensione formale del "diritto" (che è pur sempre esigibile in un qualunque tribunale borghese), di stanziare 1,5 miliardi di euro a decorrere dal 2019 e di far fuoriuscire le spese sostenute per l'integrazione e l'inclusione dai vincoli del patto di stabilità. Oggi, invece, il decreto legislativo non cita mai la parola "diritto", decurta il finanziamento dell'84 per cento (portandolo a soli 239 milioni annui) e mantiene tutti i vincoli relativi al pareggio di bilancio (sebbene il testo approvato in via preliminare dal consiglio dei ministri il 14 gennaio li aveva cancellati).
Pertanto, sebbene in astratto sarebbe meglio promuovere l'utilizzo del servizio in un'ottica integrata piuttosto che parcellizzata, il modo in cui si fa e le risorse a disposizione ci obbligano a criticare la scelta di mischiare le due questioni. L'accesso al servizio, infatti, è una questione incomparabilmente più grande e complessa in termini infrastrutturali, organizzativi e di spesa e per tanto la sua soluzione finisce per determinare il tipo di soluzione che viene adottata per l'integrazione dei cicli.
La determinazione del vincolo di bilancio, poi, non fa che aggravare questa differenza col risultato che le poche risorse pubbliche disponibili verranno impiegate quasi esclusivamente per l'obiettivo dell'inclusione (art. 3 e 12) il cui aspetto pedagogico, se fosse preso in considerazione, è diretto ai genitori (in quanto attinente alla lotta contro i pregiudizi che ancora circolano riguardo la frequenza nei nidi) e di tutt'altra natura rispetto alla sfida pedagogica attivata dall'integrazione dei servizi socio-educativi e scolastici, e che così è destinata ad essere a dir poco trascurata.
Non a caso, l'integrazione proposta è innanzitutto un'integrazione di tipo infrastrutturale che risponde all'esigenza di ammassare quanti più bambini possibili in uno stesso luogo per fare economia. Siccome le risorse sono scarse rispetto al bisogno di tali servizi e tali bisogni enormemente più grandi e sentiti rispetto a quello del loro coordinamento, si procede (art. 3), come già previsto nel Ddl Puglisi, alla costruzione di "poli per l'infanzia" in grado di accogliere "in un unico plesso o in edifici vicini, più strutture di educazione e di istruzione per bambine e bambini fino a sei anni di età" e che "possono essere costituiti anche presso direzioni didattiche o istituti comprensivi".
La seconda modalità per sviluppare al meglio le potenzialità più utili al padronato è il progressivo affidamento di una crescente quota della soddisfazione dei bisogni di cura, educazione ed istruzione ai soggetti privati. Ma di questo tratterò nel prossimo articolo.
Parte terza - L'integrazione zero-sei: il paradigma teorico di riferimento
Terza tappa dell'analisi della legge che istituisce anche in Italia il sistema integrato di educazione e istruzione, dalla nascita sino ai sei anni
L'integrazione dei servizi socio-educativi e scolastici attesa da oltre quindici anni è finalmente arrivata e purtroppo, come accade sempre più spesso da troppi anni a questa parte, le aspirazioni delle classi popolari vengono nuovamente tradite. Come visto nel primo articolo, ciò che muove il legislatore alla cura dell'ambiente scolastico non è la necessità di formare cittadini pensanti, critici, liberi, eguali e consapevoli bensì di sviluppare il "capitale umano". Dall'analisi del decreto legislativo iniziata nel secondo articolo, poi, emergono gravi arretramenti non solo rispetto alla proposta del 2004 ma addirittura al già pessimo ddl Puglisi del 2014. Ora non si parla più di "diritti" dei bambini e si lascia mano libera ai padroni per stabilire quali sono le potenzialità di relazione, autonomia, creatività e apprendimento effettivamente da realizzare e quali da reprimere o nascondere. Per farlo si subordinano anche i servizi educativi alle direttive Miur e alle illogiche dell'Invalsi e si dirottano la maggior parte delle risorse e delle attenzioni dalla dimensione pedagogica dell'integrazione alla dimensione infrastrutturale ed economica, per mezzo della costruzione di "poli per l'infanzia" e per mezzo del progressivo affidamento della soddisfazione dei bisogni di cura, educazione ed istruzione ai soggetti privati cui viene dato riconoscimento e risorse pubbliche. Di quest'ultimo aspetto tratterò in questo articolo.
La nuova normativa, oltre a riconoscere ancora una volta valenza pubblica alle scuole dell'infanzia paritarie (L. 62/2000), ribadisce la bontà di tale modello anche per il mondo dei servizi dedicati alla prima infanzia, con la differenza che qui all'autorità statale è riservata solo la possibilità di gestire le sezioni primavera (quelle che accolgono i bambini dai 24 ai 36 mesi) mentre ai restanti servizi dovranno pensare gli enti locali (in forma diretta o indiretta), gli altri enti pubblici e i soggetti privati. Secondo l'articolo 2, inoltre, il sistema integrato di educazione ed istruzione, che si compone di "scuole dell'infanzia" e di "servizi educativi per l'infanzia", include tra questi ultimi non solo gli asili nido, i micronidi e le sezioni primavera ma anche il vasto e variegato mondo dei "servizi integrativi", monopolio di chiese, aziende e cooperative. Lo stato, quindi, ci sta dicendo che il bisogno di cura, educazione ed istruzione per i futuri cittadini non può essere appagato in modo uguale per tutti ma "in modo flessibile e diversificato".
Solo nidi e micronidi, oltre alle sezioni primavera, saranno tenuti ad operare "in continuità con la scuola dell'infanzia" (sebbene dovrebbe essere quest'ultima ad operare in continuità, venendo dopo, il che ci preannuncia lo schiacciamento dei primi sulla seconda), ad assicurare il pasto ed il riposo e la frequenza a tempo pieno. Al contrario, gli "spazi gioco" saranno privi del servizio mensa ed "aperti ad una frequenza flessibile, per un massimo di cinque ore giornaliere"; i "centri per bambini e famiglie", anch'essi privi di mensa e flessibili, serviranno ad accogliere "bambine e bambini dai primi mesi di vita insieme ad un adulto accompagnatore per offrire un contesto qualificato per esperienze di socializzazione, apprendimento e gioco e momenti di comunicazione e incontro per gli adulti sui temi dell'educazione e della genitorialità"; i "servizi educativi in contesto domiciliare" infine, si caratterizzeranno per un "numero ridotto di bambini affidati a uno o più educatori in modo continuativo" dentro casa di qualcuno. Il problema di questa parificazione, tuttavia, è che non essendo la frequenza dell'asilo un diritto, non sarà possibile scegliere ciò che meglio soddisfa i propri bisogni ma bisognerà accontentarsi del servizio che sarà effettivamente reso disponibile. Ed è facile prevedere che saranno i servizi integrativi, non gli asili, a ricevere la maggior parte dell'attenzione e dei finanziamenti da parte delle pubbliche amministrazioni, con tanti saluti all'integrazione e all'uguaglianza di trattamento di chi dovrebbe affrontare il passaggio alla materna senza traumi.
L'equiparazione tra operatori pubblici e privati, dunque, è funzionale, ancor più che al disimpegno dei primi in favore dei secondi, al dirottamento di risorse dalla gestione diretta a quella indiretta, tramite gli istituti della concessione e della convenzione. L'aumento dell'erogazione dei servizi socio-educativi da parte di operatori privati e la corrispondente contrazione nell'erogazione diretta da parte degli enti locali, infatti, avrebbe almeno il merito di dimostrare che il modo di produzione capitalistico è ancora capace di progredire. Al contrario, il trasferimento di risorse in favore di imprese private regolamentate - che rappresenta la soluzione trovata dall'asinistra di lotta e di governo ed il vero perno su cui è ruotata la ristrutturazione dei servizi socio-educativi tenacemente portata avanti dalle giunte regionali pseudo-progressiste negli ultimi vent'anni - testimonia ancora una volta che il capitalismo è oramai arrivato alla frutta. Questa soluzione, infatti, è altamente dannosa giacché scarica tutte le contraddizioni sul costo del lavoro senza poter garantire necessariamente né risparmi significativi per le finanze pubbliche, né una produzione di ricchezza maggiore di quella che si consuma per crearla.
Il ruolo progressista interpretato dalla privatizzazione di questi servizi, mi rendo conto, è questione delicata, abituati come siamo a pensare in maniera schematica che il pubblico rappresenti "il buono" ed il privato "il cattivo" (o viceversa), dimenticandoci che "il brutto", in questa semplificazione, è la semplificazione stessa. Fortunatamente, a metterci la pulce nell'orecchio è proprio la norma, che all'articolo 9 stabilisce che "le aziende pubbliche e private, quale forma di welfare aziendale, possono erogare alle lavoratrici e ai lavoratori che hanno figli in età compresa fra i tre mesi e i tre anni un buono denominato 'Buono nido' spendibile nel sistema dei nidi accreditati o a gestione comunale", quindi anche per quei servizi privati che non ricevono alcun finanziamento pubblico. Tale buono, inoltre, "non prevede oneri fiscali o previdenziali a carico del datore di lavoro né del lavoratore, fino a un valore di 150 euro per ogni singolo buono".
Un cambiamento importante, che chiama direttamente in causa le tasche dei padroni e che non può essere liquidato solamente come fine dell'universalismo e dell'uguaglianza nell'accesso ai servizi pubblici, ma deve riconoscere il carattere strumentale che ha, per lorsignori, lo sviluppo del c.d. Stato sociale. Se lo stato del capitale smette di pagare quelle componenti del salario di classe che servono, ad es, alla riproduzione della forza-lavoro o alla sua manutenzione (sanità), cessando o riducendo la fornitura di servizi gratuiti o semi-gratuiti finanziati con la fiscalità generale, significa che tali servizi "dovrebbero essere comprati e pagati con reddito, e con reddito salariale in particolare. E ciò costituisce una spesa certa per i capitalisti compratori di forza-lavoro". Riconoscere la natura salariale dei servizi socio-educativi e scolastici, infatti, significa riconoscerne l'indispensabilità non solo per noi ma anche per il capitale, in quanto permettono la riproduzione della materia che sfrutta (alias la forza-lavoro), unica depositaria della capacità di generare valore. E che il consumo di questi servizi da parte dei lavoratori sia pagato dal loro sfruttatore e non da loro stessi - come avviene direttamente, quando il lavoratore compartecipa alle spese, o indirettamente quando a pagare è lo stato - rappresenta un indubbio passo avanti, mentre al contrario, "pagare la produzione di questi valori d'uso collettivi (servizi) con reddito anziché direttamente con capitale, osserva Marx, non è segno di progresso ma di arretratezza" [1].
Un progresso, dunque, derivante dal tipo di imposizione fiscale che vige nei moderni stati imperialistici e dalla natura produttiva di plusvalore che i servizi-socio educativi e scolastici assumono una volta che la loro produzione è sottoposta al comando diretto del capitale. Le tasse raccolte in un paese come l'Italia, ad esempio, sebbene colpiscano per lo più il "reddito salariale" non comportano un aumento dei costi di produzione per il capitalista, nella misura in cui ad essere tosata è quella parte della busta paga che eccede il valore dei mezzi di sussistenza che sono socialmente necessari alla riproduzione della forza-lavoro. Al contrario, quando ad essere colpito dalla scure del fisco è il consumo necessario a riprodurre il lavoratore con tutta la sua maggior specializzazione e qualificazione - e non quella quota ulteriore di stipendio (e consumo) derivante dai profitti monopolistici che le lotte vittoriose o gli opportunismi hanno consentito di trasferire ai lavoratori occidentali - allora siamo di fronte ad un abbassamento del salario sotto il livello di sussistenza, a cui il capitale stesso dovrebbe far fronte di tasca propria ogni qualvolta non ci sono le condizioni per ridefinire al ribasso tale livello. Per tanto, se la fornitura di beni e servizi di prima necessità da parte dello stato imperialista consente ai padroni di addebitare al lavoratore una parte dei costi necessari alla propria sopravvivenza e riproduzione, il suo venir meno costituisce una spesa che dev'essere ricoperta attraverso l'impiego di capitale addizionale.
La funzione progressista della privatizzazione dei servizi socio-educativi e scolastici di cui si parla, però, non si limita all'incremento degli oneri che i capitalisti devono sopportare se vogliono che la forza-lavoro che sfruttano si riproduca nelle condizioni date. Tuttavia, non tutti i processi di privatizzazione sono ugualmente produttivi di plusvalore e purtroppo quello in corso rappresenta il meno favorevole, da questo punto di vista, per la classe lavoratrice nel suo complesso. Per capirlo, si consideri quanto segue. Una volta che il lavoro di cura, educazione ed istruzione è sottomesso ai diktat del capitale, siamo di fronte a lavoro produttivo di plusvalore a tutti gli effetti. Si definisce tale quel lavoro che viene acquistato per essere usato nella trasformazione degli oggetti di lavoro i quali, una volta finiti e dunque arricchiti di lavoro, possono essere posti sul mercato per essere venduti e per realizzare il plusvalore in esso incorporato grazie all'aver impiegato i lavoratori per un tempo superiore a quello necessario a riprodurre l'equivalente dei mezzi di sussistenza necessari al loro mantenimento (alias del salario che gli viene corrisposto).
Come questo lavoratore sfruttato, anche le lavoratrici di asili e scuole privati vengono acquistate per trasformare un oggetto, un oggetto molto particolare: il cervello dei bambini (la sua capacità di interazione col mondo). La differenza sta nel fatto che questo particolare oggetto, in regime capitalista, non può essere né acquistato né venduto. Ed infatti, la merce che viene acquisita dall'impresario e rivenduta al genitore (o chi ne fa le veci) non è la capacità del bambino di interagire col mondo, bensì la capacità dell'educatore e dell'insegnante di modificare la testa dei più piccoli affinché imparino a diventare grandi. Capacità la cui modifica non costituisce scopo e oggetto di tale processo ma che esso contribuisce a modificare grazie all'interazione tra colleghi e con l'oggetto di lavoro (abilità di insegnamento che si esaurisce a fine giornata ma che ogni giorno è sempre migliore). In altri termini, le capacità oggetto di compravendita (quelle dell'educatore e dell'insegnante) non sono oggetto del processo lavorativo ma strumento di esso, mentre l'oggetto di lavoro (il cervello dei bambini) non è mercificabile dall'impresario. Quest'ultimo si trova dunque come il proprietario di quella falegnameria che fosse costretto a rivendere, in luogo dei burattini, il lavoro quotidianamente resogli dall'operaio Geppetto (e dalla fata Turchina, nella filiale nordamericana). Questo fatto, tuttavia, non cancella il plusvalore che il falegname che lavora sotto padrone produce.
Per tanto, i servizi socio-educativi e scolastici organizzati come imprese capitalistiche tenderanno ad adottare soluzioni organizzative che poco o nulla hanno a che vedere col benessere dei più piccoli tra i cittadini. Esito a cui sono destinate anche le altre forme di impresa che operano nel settore, inclusa quella pubblica, nella misura in cui sono organizzate autonomamente e soggette alla pressione esercitata dai diretti concorrenti e dai fornitori [2]. Per stare sul mercato, infatti, è necessario sfruttare il più possibile il personale e le altre risorse a disposizione, incrementando il numero di cervelli su cui lavorare ogni ora (i ritmi di lavoro), flessibilizzando gli orari di fruizione del servizio per avere sempre la massima capienza (meno porosità e più saturazione) e comprimendo gli spazi a disposizione tanto dei bambini quanto degli adulti. È questa l'organizzazione sociale che produce qualità solo come nicchia di mercato a disposizione di quei pochi in grado di permettersela e che abbandona al proprio destino tutti quei luoghi dove non ci sono le condizioni minime necessarie per mantenere neanche il più squallido dei parcheggi.
Purtroppo, il padronato nostrano, invece di assumersi le proprie responsabilità e tirar fuori di tasca propria i soldi necessari a riprodurre la forza-lavoro di un paese imperialista e a dimostrazione della sua incapacità e della nostra impotenza, sceglie la molto più comoda via delle concessioni e delle convenzioni, vale a dire del sostegno pubblico all'accumulazione di capitale. La normativa, infatti, non fa del 'Buono nido' un obbligo per le imprese né la principale fonte di finanziamento del sistema in quanto le pubbliche autorità (stato, regioni, enti locali, Inail, cioè i lavoratori che le mantengono) e le famiglie (alias i lavoratori che le compongono) rimangono gli unici soggetti obbligati a finanziarlo. Dunque, la tanto agognata esclusione dei servizi educativi per l'infanzia dal novero dei "servizi pubblici a domanda individuale" è posta quale obiettivo rimandato a tempi migliori (art. 8). Il decreto, tuttavia, prevede di uniformare su tutto il territorio nazionale "la soglia massima di partecipazione economica delle famiglie alle spese di funzionamento dei servizi educativi per l'infanzia", non solo di quelli pubblici, ovviamente ma anche di quelli "privati accreditati che ricevono finanziamenti pubblici" (vale a dire i concessionari ed i convenzionati).
Questo significa che, per garantire al concessionario e al convenzionato un certo tasso di profitto a parità di prestazione, un'eventuale diminuzione della quota di compartecipazione dovrà essere compensata dai contributi pubblici o dal risparmio sul costo del lavoro. In entrambi i casi una fregatura per la classe nel suo complesso. La concessione e la convenzione, infatti, permettono un'accumulazione di capitale (cioè una trasformazione di reddito pubblico in capitale privato) in condizioni che altrimenti sarebbero impraticabili per il singolo capitalista che volesse capitalizzare soltanto il pluslavoro estorto ai propri dipendenti. Se, però, con il passare del tempo, l'impresa non diventa sostenibile - vale a dire capace di produrre ai prezzi di mercato, che sono minori di quelli garantiti dagli enti locali e dallo stato tramite le concessioni e le convenzioni - allora l'attività di fatto consuma più risorse di quelle che è in grado di produrre. Un vero e proprio fallimento anche dal punto di vista capitalistico.
Inoltre, siccome a queste concessioni e convenzioni sono attaccati tutta una serie di limiti riguardo la numerosità dei bambini per classe, il rapporto frontale educatrice/lattanti, i metri quadri minimi di interno e di giardino a disposizione, ecc, si creano comportamenti opportunistici e fraudolenti, contro cui le autorità costituite nulla possono, non potendosi far carico della ricollocazione né delle lavoratrici né dei bambini eventualmente abbandonati a loro stessi dal padrone incapace di rispettare le regole. Regole che, chiudendo alla possibilità di aumentare gli introiti attraverso l'aumento del tasso di sfruttamento che passa per l'incremento del numero di bambini per educatore o insegnante, costringono le imprese ad aumentarli attraverso l'incremento del tasso di sfruttamento che passa direttamente per l'abbattimento salariale.
Che le paghe nelle strutture private siano generalmente più basse che in quelle pubbliche, i diritti minori ed il ricorso al nero e al part-time maggiore, è ampiamente documentato e questo fatto è generalmente addotto quale motivo del risparmio che si avrebbe nell'utilizzare l'istituto della concessione o della convenzione rispetto alla gestione diretta. Quello che però i sicofanti si dimenticano di citare è che, nel caso della concessione, le amministrazioni locali, oltre a farsi carico della costruzione e del mantenimento dell'infrastruttura edilizia - la cui messa a norma è estremamente onerosa - assumono su di sé il rischio di impresa concedendo clausole contrattuali in grado di salvaguardare comunque l'ottenimento di un determinato tasso di profitto a prescindere dal numero di iscritti su cui si calcola il rimborso all'impresa. Con tanti saluti al declamato risparmio per le casse pubbliche.
Nei casi, poi, di rimborsi ottenuti da aziende in convenzione per i bambini provenienti dalle liste comunali, essendo maggiori delle tariffe che sono costretti a pagare i tutori dei bambini che accedono privatamente - e siccome il pagamento rappresenta il valore del servizio prodotto - il rimborso pubblico finisce per rappresentare una forma di sovvenzione mascherata alla fruizione da parte dei privati, in quanto pagando di più a parità di prestazione (vale a dire non discriminando il servizio a seconda che il bambino provenga da una graduatoria comunale o meno) si contribuisce a mantenere il prezzo medio di mercato del servizio più basso di quello che altrimenti si avrebbe. In conclusione, dunque, possiamo dire che siamo di fronte ad un provvedimento che invece di risolvere il problema dell'integrazione pedagogica nella fascia zero-sei anni, tenta di risollevare le sorti del padronato. Alla beffa, però, si aggiunge il danno, che dimostra, se ce ne fosse stato ancora bisogno, che la borghesia ha esaurito la propria spinta propulsiva e prima ce ne liberiamo, meglio è.
[2] Problematica che investe anche le cooperative di educatrici e di insegnanti. Al di là dell'utilizzo strumentale di tale forma giuridica da parte di molti padroni e padroncini e al di là delle controriforme dell'istituto della cooperazione, la pressione della concorrenza agisce inevitabilmente anche sulle coop, costringendoci a fare i conti con l'impossibilità, qui ed oggi, di pervenire direttamente ad una più alta e migliore organizzazione sociale semplicemente sviluppando le "negazioni positive" della proprietà privata dei mezzi di produzione o gli scambi "mutualistici" di beni e servizi.
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