Ovvero, come cambia il diritto allo studio e il sistema dell'istruzione al tempo di una pandemia. Digitalizzazione, isolamento, profitti multinazionali: i nuovi scenari della formazione cui bisogna opporsi indicando la prospettiva del socialismo
La necessità che la pandemia ha provocato è quella di un distanziamento sociale che sta cambiando profondamente il nostro modo di vivere: tra le conseguenze drammatiche, con le situazioni che stanno provocando dei disastri economici e dei drammi sociali, c'è quello della scuola. Al di là della retorica e delle esaltazioni di modalità digitale e a distanza che, in questo frangente è risultato anche utile, occorre evidenziare le problematiche che si sono generate, o che sono state esaltate dalla situazione, non marginali, né tantomeno indifferenti.
Dal primo momento in cui sono state dichiarate chiuse le scuole, è stata indicata dalla Ministra Azzolina la modalità della didattica a distanza, confidenzialmente DAD (nello sconsiderato ricorso ad acronimi cui da anni il Ministero ricorre): alcune scuole erano già attrezzate con reti di collegamento internet e dispositivi già a disposizione di docenti e alunni, risorse costruite mediante fondi ministeriali, europei o di altri enti e progetti pubblici e privati.
In generale, buona parte di questi istituti rappresentano scuole di rango e si rivolgono ad una fascia medio-alta della "utenza" (termine mercantile che più volte abbiamo denunciato come "segno" della deformazione aziendalistica delle scuole pubbliche avvenuto da metà anni Novanta ad oggi), e hanno personale docente convinto della necessità di innovazione e aggiornamento digitale (più che disciplinare sul piano metodologico, contenutistico-didattico e pedagogico-educativo) per la formazione e l'istruzione dei prossimi anni e decenni.
Ovviamente, non si può pensare di rigettare l'innovazione tecnologica che anche nel campo della pedagogia e della didattica sta avanzando e, faticosamente, affermando: gli scenari stanno già cambiando da anni, e profondamente, tuttavia non si possono sottovalutare le conseguenze che provocheranno le trasformazioni comunicative della formazione e del sapere, ma soprattutto che determineranno o esalteranno le ricadute sociali determinate dalla modalità a distanza. In queste settimane (mesi, ormai) da più parti si sono chiaramente alzate voci, tra l'allarmato e l'accusatorio, su come le scuole non fossero attrezzate, su come il personale docente (e, non dimentichiamolo, tecnico e amministrativo) non fosse tutto preparato ad affrontare l'inedita modalità didattica utilizzando le nuove tecnologie digitali, ma anche riconoscendo che molti alunni e alunne non avessero a disposizione strumenti, dispositivi, collegamenti adeguati ai collegamenti a distanza, e che vi fossero molte famiglie in cui il computer, gli spazi e i tempi per i collegamenti sono contesi da più persone (studenti e genitori anch'essi impegnati nel lavoro da casa): l'emergenza sanitaria ha insomma sollevato il coperchio di Pandora delle differenze sociali tra i (sempre meno numerosi e sempre più) ricchi e i (sempre più ampi e sempre più) poveri, che nei decenni del liberismo selvaggio sono state raccontate come una sorta di natura destinale immutabile, per cui la differenza.
Senza divagare sulle devastazioni che il capitalismo reale di questi decenni ha prodotto (a seguito della feroce lotta di classe che la borghesia ha avviato dopo il crollo del blocco delle democrazie popolari e dell'Unione Sovietica per ripristinare il dominio e della prevaricazione borghesia sui proletari e sui ceti medi in via di proletarizzazione), compreso lo smantellamento e la privatizzazione della sanità pubblica, è necessario evidenziare come la scuola a distanza abbia sviluppato gli appetiti di una variegata moltitudine di multinazionali digitali che hanno annusato il business prossimo futuro: gli esaltati sostenitori della digitalizzazione della scuola (come del lavoro a distanza, ribattezzato "lavoro agile", o smart working anche per le aziende private) stanno aprendo la strada a un colossale affare che potrebbe determinare la trasformazione del sistema dell'istruzione in un'agenzia di comunicazione controllata da aziende private.
Fortunatamente, ci sono ancora una miriade di insegnanti (ma anche di studenti e genitori) che si sono resi conto quanto sia insufficiente e mistificante una modalità educativa e didattica che non abbia la componente in presenza: in altri termini, il dialogo educativo e il processo di acquisizione delle conoscenze e delle competenze (altro termine mutuato dal lessico aziendalistico) non può essere efficace senza l'interazione "sociale", e perfino "fisica", con i coetanei della propria classe e con adulti che non appartengano al proprio nucleo familiare e strettamente parentale. Quando si parla di "diritto allo studio" costituzionalmente garantito non bisogna dimenticare che la dimensione sociale della condivisione e formazione culturale dell'istruzione e del sapere è una componente essenziale e feconda, insostituibile, del processo di apprendimento ed elaborazione della conoscenza, nonché nella crescita di consapevolezza e coscienza critica di cittadine e cittadini.
La scuola, come l'università (ma come ogni altra attività lavorativa: produttiva, commerciale, comunicativa) è innanzitutto un ambiente di relazione e accoglienza, condizione essenziale per lo studio: il processo educativo e didattico - come insegnano le teorie pedagogiche che mirano alla crescita degli individui in un contesto sociale equilibrato e solidale piuttosto che al puro addestramento di manodopera - non si fonda semplicisticamente su una comunicazione a senso unico di informazioni e nozioni (che la modalità digitale a distanza inevitabilmente, anche se involontariamente, provoca), ma sulla relazione, sulla condivisione e sulla collaborazione. Non è la competizione, ma neppure l'isolamento di fronte ad uno schermo nel chiuso della propria camera (chi se la può permettere) a consentire un apprendimento consapevole e critico, fecondo e non meccanico e strumentale: per i giovani è essenziale e necessario lo scambio "in presenza", e a maggior ragione la scuola ha un valore insostituibile per alunni e alunne che non hanno alle spalle famiglie benestanti, o almeno culturalmente - se non economicamente - solide.
In questi giorni si è aperta una ulteriore discussione sulla necessità che vengano almeno riaperte le scuole dell'infanzia e primarie, come servizio per coloro (ovviamente, soprattutto le madri) che dal 4 maggio ricominceranno le attività nei propri posti di lavoro: insomma, pur non sottovalutando questo aspetto dell'articolazione sociale, si sta trattando il mondo della scuola come un servizio di baby-sitteraggio che non ha nulla a che vedere con l'obiettivo costituzionalmente fondamentale del diritto allo studio. È comprensibile che genitori impegnati nel lavoro, soprattutto le donne, abbiano una necessità impellente di affidare i figli a qualcuno in una situazione controllata e in sicurezza, ma va tuttavia ribadito che questa è solamente la premessa e la condizione che consente di raggiungere la finalità della scuola, non il suo scopo prioritario. La riqualificazione della scuola, allora, non può passare né dalla digitalizzazione, ma neppure da una sua riduzione a mera sorveglianza e vigilanza.
Deve inoltre essere affrontato un problema che attiene alla dimensione specifica del lavoro, sul piano della sicurezza: se, come e quando sarà possibile il rientro nei locali scolastici. Già per la maturità, è ormai quasi certo che si svolgerà in presenza, dunque con una commissione di docenti interni del consiglio di classe con la presenza di un alunno alla volta per il colloquio, unica prova rimasta visto che gli scritti sarebbe stato impossibile svolgerli in sicurezza. Ma il problema principale sarà per il rientro a settembre: chi dovrà pulire e sanificare i locali, e con quale frequenza? Toccherà al personale delle scuole, gli ausiliari o custodi, e con quali dispositivi di protezione, con quali prodotti e con quali protocolli? Sono domande che paiono banali, ma che in questa situazione assumono una valenza fondamentale, per la protezione di lavoratori e lavoratrici, ma anche per la sicurezza di studenti, docenti e personale ATA. Anche l'ipotesi di far rientrare le classi metà in presenza e metà in collegamento, a rotazione, appare piuttosto bislacca perché sarà impossibile garantire i distanziamenti necessari tra gli alunni, all'ingresso, all'uscita, nei cambi dell'ora e durante l'intervallo.
Vi è infine un problema legato al carattere occupazionale: le modalità che si individueranno per riprendere le attività scolastiche dovranno tutelare il personale docente e ATA non solo sul piano della sicurezza sanitaria, ma anche dell'orario di servizio (per evitare che il "lavoro agile" e la DaD producano un esponenziale aumento degli impegni in modalità da casa) e perfino del posto di lavoro, in particolare per tutti quei precari e precarie che rischiano di essere "sacrificati" sull'altare del lavoro digitale. Invece di stabilizzare tutti i precari (con almeno tre anni di servizio, per i sindacati di categoria e i comitati dei precari) che in questi anni hanno garantito il funzionamento delle scuole (oltre 100mila insegnanti con incarichi annuali o fino al termine delle attività, più o meno un docente ogni sette, circa 50mila ATA più o meno la metà del personale), la Ministra Azzolina ha invece pensato bene di indire un improbabile concorso che non si capisce in quali condizioni potrà essere svolto garantendo, oltre alla regolarità, le condizioni di sicurezza e distanziamento.
Nella scuola, come nella maggior parte degli ambiti sociali, si dovranno sostenere molte lotte a fronte di uno scontro di classe sempre più aspro, in cui le contraddizioni si acuiranno e in cui sarà necessario inserirsi, per sviluppare il conflitto di classe e avviare la trasformazione in senso socialista della società.
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