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Friedrich Engels, Violenza e economia, Editori Riuniti, Roma, 1977 - Traduzione di Giovanni De Caria
Trascrizione di Valerio e pubblicazione a cura del CCDP per l'anniversario della nascita di Engels (28/11/1820)
 
[Indice]
 
Friedrich Engels
 
Violenza ed economia nella formazione del nuovo impero tedesco
 
IV
 
Applichiamo ora la nostra teoria alla storia della Germania odierna e alla prassi di sangue e di ferro del suo potere. Ne desumeremo con chiarezza perché la politica del sangue e del ferro [1] ha dovuto avere temporaneamente successo e perché in fine deve andare incontro al fallimento.
 
Il congresso di Vienna nel 1815 aveva ripartito e mercanteggiato l'Europa in modo tale che tutto il mondo poteva vedere chiaramente la totale incapacità dei potentati e degli uomini di Stato. La guerra generale dei popoli contro Napoleone fu la reazione, in tutù i popoli, del sentimento nazionale calpestato da Napoleone, Per ringraziamento i principi e i diplomatici del congresso di Vienna calpestarono ancora più sprezzantemente questo sentimento nazionale. La dinastia più piccola ebbe un peso maggiore del popolo più grande. La Germania e l'Italia furono di nuovo spezzettate in piccoli Stati, la Polonia venne spartita per la quarta volta, l'Ungheria rimase sotto il giogo. E non si può dire neppure che ai popoli si sia fatto torto: perché permisero che questo accadesse loro e perché salutarono nello zar di Russia [2] il loro liberatore?
 
Ma ciò non poteva durare. Dalla fine del medioevo la storia lavora al costituirsi dell'Europa in grandi Stati nazionali. Solo questi Stati rappresentano la normale costituzione politica della borghesia dominante in Europa e sono al tempo stesso una condizione preliminare indispensabile per la formazione di un'armoniosa collaborazione internazionale dei popoli senza di cui non è possibile il dominio del proletariato. Perché sia assicurata la pace internazionale debbono, prima di tutto, essere eliminati tutti gli attriti nazionali evitabili, ogni popolo deve essere indipendente e padrone in casa propria. Con lo sviluppo del commercio, dell'agricoltura, dell'industria e conseguentemente della potenza sociale della borghesia, si destava quindi dovunque il sentimento nazionale, le nazioni spezzettate e oppresse reclamavano unità e indipendenza.
 
Perciò la rivoluzione del 1848 mirò dovunque, tranne che in Francia, all'appagamento tanto delle rivendicazioni nazionali quanto delle rivendicazioni della libertà. Ma dovunque, dietro alla borghesia, vittoriosa al primo attacco, già si elevava minacciosa la figura del proletariato che in realtà era stato l'artefice della vittoria e spingeva la borghesia tra le braccia dell'avversario appena vinto: la reazione monarchica, burocratica, semifeudale e militare, alla quale nel 1849 soggiacque la rivoluzione. In Ungheria, dove questo caso non si verificò, entrarono i russi e schiacciarono la rivoluzione. Non contento di questo, Io zar di Russia [3] si recò a Varsavia e là sedette arbitro d'Europa. Nominò Cristiano di Glücksburg, sua docile creatura, successore al trono di Danimarca. Umiliò la Prussia, come mai era stata umiliata, reprimendone perfino le più piccole velleità di sfruttare le aspirazioni all'unità tedesca, e la costrinse a restaurare la Dieta federale [4] e a sottomettersi all'Austria. Tutto il risultato della rivoluzione, a prima vista, sembrava ridursi a questo: l'Austria e la Prussia erano governate secondo forme costituzionali, ma nel vecchio spirito, e lo zar di Russia dominava l'Europa più che mai.
 
Ma in realtà la rivoluzione aveva potentemente scosso strappandola al vecchio andazzo tradizionale, anche la borghesia dei paesi spezzettati e specialmente quella della Germania. La borghesia, per quanto modestamente, aveva ottenuto mito di partecipare al potere politico; ogni successo della borghesia ha per effetto uno slancio dell'industria. L'«anno folle», felicemente superato, dimostrò chiaramente alla borghesia che ormai bisognava finirla una volta per sempre col letargo e la sonnolenza di un tempo. La pioggia d'oro dalla California e dall'Australia, unitamente ad altre circostanze, determinò in tutto il mondo uno sviluppo dei rapporti commerciali e uno slancio degli affari quali mai si erano avuti prima: c'era da mettersi all'opera e assicurarsi la propria parte. Furono ora perfezionati ed estesi rapidamente i nuclei delle grandi industrie che, dopo il 1830 e specialmente dopo il 1840, sorgevano sul Reno, in Sassonia, in Slesia, a Berlino e in singole città del sud, fu sempre più sviluppata l'industria casalinga dei distretti agricoli, fu accelerata la costruzione di strade ferrate, mentre l'emigrazione, che nonostante tutto aumentava enormemente, creò una navigazione transatlantica a vapore tedesca che non aveva bisogno di alcuna sovvenzione. Più che mai i commercianti tedeschi si stabilirono in tutte le piazze commerciali d'oltremare, ebbero una parte sempre maggiore nel commercio mondiale e a poco a poco cominciarono a trafficare in prodotti industriali non solo inglesi, ma anche tedeschi.
 
Ma per questa industria che potentemente si sviluppava e per il commercio che le era connesso il sistema dei piccoli Stati tedeschi con le loro molteplici e varie legislazioni commerciali e industriali divenne presto necessariamente un vincolo insopportabile. A distanza di poche miglia, un diritto cambiario diverso, condizioni diverse per l'esercizio di una industria, e dovunque, proprio dovunque, angherie diverse, trappole burocratiche e fiscali diverse, anzi spesso anche limitazioni corporative contro le quali non serviva nessuna concessione! E inoltre le molte e diverse legislazioni sul domicilio e le limitazioni di soggiorno che rendevano impossibile ai capitalisti di gettare a sufficienza le forze-lavoro disponibili in quelle zone dove minerale, carbone, forza idraulica e altre risorse naturali esigevano che si impiantassero le imprese industriali! La capacità di sfruttare senza intralci la copiosa forza-lavoro della patria fu la prima condizione dello sviluppo industriale; ma dovunque il patriottico industriale riuniva operai fatti venire da ogni parte, la polizia e l'assistenza pubblica non permettevano che questi immigranti fissassero la loro residenza. Un diritto unico di cittadinanza dell'impero tedesco, una piena libertà di domicilio per tutti i cittadini dell'impero, una legislazione commerciale e industriale unitaria: queste non erano più fantasie patriottiche di studenti esaltati; erano in quel momento condizioni ne-cessarie per la vita dell'industria.
 
Inoltre, in ogni Stato e staterello diverse monete, diversi pesi e misure, e spesso due o tre specie nello stesso Stato. E di tutte queste specie infinite di monete, pesi o misure, nemmeno una era riconosciuta sul mercato mondiale. Che meraviglia dunque che commercianti e industriali, i quali trafficavano sul mercato mondiale o dovevano far laconcorrenza ad articoli d'importazione, dovessero usare anche monete, misure e pesi stranieri, che il filo di cotone venisse annaspato in libbre inglesi, che la stoffa di seta venisse confezionata in metri, che i conti per l'estero fossero fatti in lire sterline, dollari e franchi? E come potevano sorgere grandi istituti di credito in queste ristrette aree monetarie, con biglietti di banca qui in fiorini, là in talleri prussiani, e altrove in talleri-oro, talleri «due terzi nuovi», marco-banco, marco corrente, titolo venti fiorini, titolo ventiquattro fiorini, con calcoli e oscillazioni di cambio senza fine?
 
E se anche si riusciva finalmente ad aver ragione di tutto questo, quanta energia sciupata in tutti questi attriti, quanto tempo e denaro perduti! E anche in Germania finalmente si cominciava a capire che oggi il tempo è denaro.
 
Il mercato mondiale era il campo sul quale doveva cimentarsi la giovane industria tedesca; solo con l'esportazione essa poteva diventare una grande industria. Per questo occorreva che all'estero godesse della protezione del diritto internazionale. Il commerciante inglese, francese, americano poteva pur sempre permettersi all'estero qualche cosa di più che al suo paese. Interveniva per lui la sua ambasciata e in caso di necessità intervenivano anche un paio di navi da guerra. Ma il tedesco! Nel Levante l'austriaco almeno poteva contare in qualche modo sulla sua ambasciata, sebbene essa non lo aiutasse molto. Ma se un commerciante prussiano all'estero si lagnava presso la sua ambasciata per un torto subito, gli si diceva quasi sempre: «Vi sta proprio bene, che cosa avete da cercare qui, perché non ve ne restate graziosamente a casa vostra?», Specie il cittadino di un piccolo Stato era dovunque assolutamente privo di ogni diritto. Dovunque andassero, i commercianti tedeschi stavano sotto la protezione straniera, francese, inglese, americana, o al più presto si facevano naturalizzare nella nuova patria [5]. E se anche i loro diplomatici si fossero voluti adoperare in loro favore, a che cosa avrebbero giovato? Gli stessi diplomatici tedeschi erano trattati oltremare come lustrascarpe.
 
Si vede da ciò come l'esigenza di una «patria» unitaria poggiasse su una base molto materiale. Non era più l'aspirazione nebulosa di associazioni studentesche alla festa della Wartburg, «quando coraggio e forza fiammeggiavano nei cuori tedeschi», quando, secondo una romanza francese, «il giovane si sentiva tratto con impetuoso tormento a combattere e morire per la patria», per ristabilire il romantico splendore imperiale del medioevo, e quando il giovane pervaso da impetuoso tormento, nei giorni della sua vecchiaia diventava un ordinarissimo, pietistico ed assolutistico servo dei principi. Non era neanche più il grido di unità, già notevolmente più vicino alla terra, degli avvocati e di altri ideologi borghesi della festa di Hambach, i quali credevano di amare la libertà e l'unità per se stesse e non si accorgevano affatto che l'elvetizzazione della Germania in una repubblica di cantoncini, a cui si riduceva l'ideale di quelli tra loro che erano meno confusi, era altrettanto impossibile quanto l'impeto hohenstau-feniano di quegli studenti. No, questa rivendicazione sorgeva dalle immediate esigenze pratiche del commerciante e dell'industriale i quali volevano fosse spazzato via tutto quel ciarpame storico dei piccoli Stati, che impediva il libero sviluppo del commercio e dell'industria, e fossero eliminate tutte quelle pastoie inutili di cui l'uomo d'affari tedesco doveva anzitutto aver ragione in patria se voleva affrontare il mercato mondiale, e alle quali tutti i suoi concorrenti non erano soggetti. L'unità tedesca era diventata una necessità economica. E gli uomini che ora la rivendicavano sapevano quel che volevano. Essi erano stati educati nel commercio e per il commercio, sapevano commerciare e si poteva commerciare con loro. Essi sapevano che bisogna chiedere un prezzo molto alto, ma che è anche necessario fare generosamente qualche sconto. Essi cantavano «della patria tedesca», compresi anche la Stiria, il Tirolo e «l'Austria, ricca di onori e di vittorie»,
 
Von der Maas bis an die Memel,
von der Etscb bis an den Belt,
Deutscbland, Deutschland über alles,
über alles in der Welt. [6]
 
ma essi erano pronti ad accordare, su questa patria che doveva diventare sempre più grande, un considerevole ribasso dal 25 al 30% per un pagamento a pronta cassa. Il loro piano unitario era fatto e si poteva immediatamente realizzare.
 
Ma l'unità tedesca non era una questione semplicemente tedesca. Dalla guerra dei trent'anni neppure un affare comune alla Germania era più stato deciso senza l'ingerenza molto sensibile dell'estero [7]. Federico II nel 1740 aveva conquistato la Slesia con l'aiuto dei francesi. Francia e Russia nel 1803 avevano dettato alla lettera la riorganizzazione del Sacro romano impero mediante il Reichsdeputationshauptschluss [8]. Poi Napoleone aveva organizzato la Germania nel modo che gli conveniva. E finalmente, al congresso di Vienna [9], era stata spezzettata di nuovo, principalmente per opera della Russia e poi dell'Inghilterra e della Francia, in trentasei Stati e più di duecento territori particolari grandi e piccoli, e i dinasti tedeschi, precisamente come dal 1802 al 1803 alla Dieta di Ratisbona, avevano lealmente prestato il loro aiuto e reso lo spezzettamento ancora peggiore. Inoltre singoli pezzi di Germania furono consegnati a principi stranieri. Così la Germania non solo era senza forza e senza aiuto, logorata da discordie intestine, condannata politicamente, militarmente e anche industrialmente alla nullità. Ma, ciò che era ancor peggio, la Francia e la Russia, per un inveterato costume, avevano acquistato il diritto di spezzettare la Germania, precisamente come la Francia e l'Austria si arrogavano il diritto di vigilare che l'Italia restasse divisa. Era questo preteso diritto che lo zar Nicola aveva fatto valere nel 1850, allorché, opponendosi nella maniera più grossolana a ogni autonomo mutamento costituzionale, ottenne a forza il ristabilimento della Dieta federale, questa espressione dell'impotenza della Germania,
 
L'unità della Germania doveva quindi essere conquistata combattendo non solo contro i principi e gli altri nemici interni, ma anche contro lo straniero. O invece ... con l'aiuto dello straniero. E come stavano allora le cose all'estero?
 
In Francia, Luigi Bonaparte aveva sfruttato la lotta tra la borghesia e la classe operaia per arrivare con l'aiuto dei contadini alla presidenza e con l'aiuto dell'esercito al trono imperiale. Ma un nuovo imperatore Napoleone fabbricato dall'esercito entro i confini della Francia del 1815 era un non senso nato morto. Il rinato impero napoleonico significava l'estensione della Francia fino al Reno, la realizzazione del sogno tradizionale dello sciovinismo francese. Ma anzitutto il Reno era per Luigi Bonaparte una meta irraggiungibile; ogni tentativo in questa direzione avrebbe avuto come conseguenza una coalizione europea contro la Francia. Per contro si offriva un'occasione di elevare la potenza della Francia e di procurare nuovi allori all'esercito con una guerra condotta unitamente a quasi tutta l'Europa contro la Russia che aveva sfruttato il periodo rivoluzionario dell'Europa occidentale per occupare con tutta calma i principati danubiani e preparare una nuova guerra di conquista contro la Turchia. L'Inghilterra si alleò con la Francia, l'Austria favori l'una e l'altra; solo l'eroica Prussia baciò lo knut russo che ieri l'aveva castigata e verso la Russia conservò una benevola neutralità. Ma né l'Inghilterra né la Francia volevano una seria disfatta dell'avversario e così la guerra finì con una umiliazione molto leggera della Russia e con un'alleanza franco-russa contro l'Austria. [10]
 
La guerra di Crimea fece della Francia la potenza egemone dell'Europa e dell'avventuriero Luigi Napoleone l'uomo più grande del giorno, ciò che in verità non voleva dir molto. Ma la guerra di Crimea non aveva portato alla Francia alcun vantaggio territoriale e recava perciò nel proprio seno una nuova guerra nella quale Luigi Napoleone doveva adempiere alla sua missione di «accrescitore dell'impero». Le fila di questa nuova guerra erano già state intrecciate durante quella precedente, permettendosi alla Sardegna di aderire all'alleanza delle potenze occidentali come satellite della Francia imperiale e specialmente come suo avamposto contro l'Austria; la preparazione fu portata avanti al momento del trattato di pace mediante l'intesa di Luigi Napoleone con la Russia, alla quale niente era più gradito di un castigo inflitto all'Austria.
 
Luigi Napoleone fu allora l'idolo della borghesia europea. Non solo per aver «salvato la società» il 2 dicembre 1851, allorché aveva senza dubbio annientato il dominio politico della borghesia, con l'unico scopo però di salvarne il dominio sociale; non solo perché aveva mostrato come il suffragio universale può essere trasformato, in circostanze favorevoli, in strumento di oppressione delle masse; non solo perché sotto il suo dominio l'industria, il commercio e specialmente la speculazione e la truffa in Borsa avevano preso uno slancio mai conosciuto; ma anzitutto perché la borghesia riconosceva in lui il primo «grande uomo di Stato», carne della sua carne, sangue del suo sangue. Egli era un parvenu, come ogni autentico borghese. «Avendo nuotato in tutte le acque», cospiratore carbonaro in Italia, ufficiale d'artiglieria in Svizzera, distinto vagabondo indebitato e special constable [11] in Inghilterra, ma sempre e dovunque pretendente al trono, egli, col suo passato avventuroso e con l'essersi compromesso moralmente in tutti i paesi, si era preparato a diventare imperatore dei francesi e guida dei destini dell'Europa, allo stesso modo che il borghese modello, l'americano, con una serie di fallimenti tanto onorevoli quanto truffaldini, si prepara a diventare milionario. Come imperatore non solo mise la politica a servizio del profitto capitalistico e delle truffe borsistiche, ma condusse la politica stessa secondo i princìpi della Borsa-valori e speculò sul «principio di nazionalità». Lo spezzettamento della Germania e dell'Italia era stato sinora per la politica francese un diritto fondamentale inalienabile della Francia; Luigi Napoleone si accinse subito a barattare a pezzo a pezzo questo diritto fondamentale della Francia per dei cosiddetti compensi. Era pronto ad èssere di aiuto alla Germania e all'Italia per eliminare il loro spezzettamento a condizione che la Germania e l'Italia gli pagassero ogni loro passo verso l'unificazione nazionale con cessioni territoriali. Cosi non solo era soddisfatto lo sciovinismo francese e l'impero veniva ricondotto a poco a poco ai confini del 1801, ma anche la Francia era presentata di nuovo come potenza specificamente illuminata e liberatrice dei popoli, e Luigi Napoleone come protettore delle nazionalità oppresse. E tutta la borghesia illuminata e piena di entusiasmo per le nazionalità (perché vivamente interessata a eliminare dal mercato mondiale tutto ciò che ostacolava gli affari) acclamava ad una voce questo illuminismo che liberava il mondo.
 
Si cominciò dall'Italia. Qui dal 1849 dominava illimitatamente l'Austria, e l'Austria era allora il capro espiatorio universale dell'Europa. La scarsezza dei risultati della guerra di Crimea non veniva attribuita all'indecisione delle potenze occidentali, che avevano voluto solo una parvenza di guerra, ma a quell'atteggiamento indeciso dell'Austria del quale nessuno era stato più responsabile delle stesse potenze occidentali. Ma la Russia era stata talmente ferita dall'avanzata dell'Austria al Pruth - ringraziamento per l'aiuto russo in Ungheria nel 1849 - che (sebbene proprio questa avanzata l'avesse salvata) vedeva con gioia ogni attacco all'Austria. La Prussia non contava più e già al congresso della pace a Parigi era stata trattata en canaille [12]. Cosi la guerra per la liberazione d'Italia «sino all'Adriatico», le cui fila erano state intrecciate con la cooperazione della Russia, fu intrapresa nella primavera del 1859 e terminata sul Mincio già nell'estate dello stesso anno. L'Austria non era cacciata via dall'Italia, l'Italia non era «libera sino all'Adriatico» e non era unificata, la Sardegna aveva ottenuto un ingrandimento, .ma la Francia aveva guadagnato la Savoia e Nizza e con ciò i confini del 1801 con l'Italia.
 
Ma di ciò gli italiani non erano soddisfatti. In Italia, a quel tempo, predominava ancora la manifattura propriamente detta, la grande industria era ancora in fasce. La classe operaia era ancora molto lontana dall'essere completamente espropriata e proletarizzata; nelle città possedeva ancora i suoi propri mezzi di produzione, nelle campagne il lavoro industriale era un mestiere accessorio di contadini piccoli proprietari e fittavoli. Perciò l'energia della borghesia non era ancora infranta dall'antagonismo con un proletariato moderno provvisto di coscienza di classe. E poiché in Italia lo spezzettamento sussisteva solo grazie al dominio straniero dell'Austria, sotto la cui protezione i principi avevano spinto all'estremo il loro malgoverno, anche la nobiltà, grande proprietaria terriera, e le masse popolari delle città stavano al fianco della borghesia, combattente d'avanguardia dell'indipendenza nazionale. Ma la signoria straniera era stata scossa nel 1859, tranne che nel Veneto; un ulteriore intervento di essa, per opera della Francia e della Russia, era diventato impossibile e nessuno lo temeva più. E l'Italia possedeva in Garibaldi un eroe di carattere antico che poteva fare e faceva meraviglie. Con mille volontari rovesciò tutto il regno di Napoli, unificò realmente l'Italia, strappò l'artificioso tessuto della politica bonapartistica. L'Italia era libera ed effettivamente unificata, e non per gli intrighi di Luigi Napoleone, ma per merito della rivoluzione.
 
Dal tempo della guerra d'Italia la politica estera del II Impero francese non era più un mistero per nessuno. I vincitori del grande Napoleone dovevano avere il loro castigo, ma l'un aprés l'autre, uno dopo l'altro. La Russia e l'Austria avevano avuto la loro parte; chi immediatamente seguiva nella serie era la Prussia. E la Prussia era più disprezzata che mai; la sua politica durante la guerra d'Italia era stata vile e miserabile, precisamente come al tempo della pace di Basilea del 1795 [13]. Con la «politica delle mani libere» era stata condotta a questo risultato: essa era completamente isolata in Europa, tutti i suoi vicini, grandi e piccoli, si rallegravano al pensiero di vedere la Prussia presa a calci; e la sua mano libera serviva solo a cedere alla Francia la riva sinistra del Reno.
 
In realtà nei primi anni dopo il 1859, dovunque e in nessun luogo più che sulle rive stesse del Reno, si era diffusa la convinzione che la riva sinistra del Reno sarebbe irrimediabilmente toccata alla Francia. Certo non lo si desiderava, ma lo si vedeva come una fatalità inevitabile e, rendiamo omaggio alla verità, neanche lo si temeva moltissimo. Nei contadini e nei piccoli borghesi si risvegliavano i vecchi ricordi dei tempi dei francesi, che effettivamente avevano portato la libertà; fra la borghesia, l'aristocrazia finanziaria, specie a Colonia, era già profondamente implicata nelle trufferie del Crédit mobilier di Parigi e in altre compagnie di speculazione bonapartiste e reclamava a gran voce l'annessione [14].
 
Ma la perdita della riva sinistra del Reno voleva dire l'indebolimento non solo della Prussia, ma anche della Germania. E la Germania era divisa come non mai. L'Austria e la Prussia estraniate più che mai l'una dall'altra grazie alla neutralità prussiana nella guerra d'Italia, la piccola genia principesca, parte timorosa e parte desiderosa, che occhieggiava a Luigi Napoleone quale protettore di una rinnovata Confederazione renana [15]: questa era la posizione della Germania ufficiale. E questo in un momento in cui solo le forze unificate di tutta la nazione sarebbero state in condizioni di scongiurare il pericolo dello smembramento.
 
Ma come unificare le forze di rutta la nazione? Si aprivano tre vie dopo che i tentativi, quasi senza eccezione nebulosi, del 1848 erano falliti, ma proprio perciò avevano anche dissipato molte nebbie.
 
La prima via era quella dell'effettiva unificazione mediante l'eliminazione di tutti i singoli Stati, quindi era la via apertamente rivoluzionaria. Questa via in Italia aveva or ora portato alla meta; la dinastia savoiarda si era unita alla rivoluzione e perciò si era messa in tasca la corona d'Italia. Ma di un'azione cosi ardita erano assolutamente incapaci i nostri Savoia tedeschi, gli Hohenzollern, e anche i loro più temerari Cavour alla Bismarck. Il popolo avrebbe dovuto fare tutto da se stesso e in una guerra per la riva sinistra del Reno sarebbe certo stato in condizione di fare quanto era necessario. L'inevitabile ritirata della Prussia al di qua del Reno, una guerra ferma alle fortezze del Reno e poi l'indubbio tradimento dei principi del sud della Germania potevano esser sufficienti a scatenare un movimento nazionale davanti al quale tutto il sistema dinastico si sarebbe dissolto. E allora Luigi Napoleone sarebbe stato il primo a rimettere la spada nel fodero.
 
Il II Impero non poteva prendere per avversari che Stati reazionari di fronte ai quali gli fosse possibile figurare come continuatore della Rivoluzione francese, come liberatore dei popoli. Contro un popolo esso stesso in rivoluzione era impotente; anzi la rivoluzione tedesca vittoriosa poteva dare la spinta al rovesciamento di tutto l'impero francese. Questo era il caso più favorevole; nel caso più sfavorevole, se i dinasti si fossero impadroniti del movimento, la riva sinistra del Reno sarebbe stata per un certo tempo perduta a favore della Francia, sarebbe emerso agli occhi di tutto il mondo il tradimento attivo o passivo dei dinasti, si sarebbe creata una posizione critica dalla quale la Germania non sarebbe potuta uscire se non con la rivoluzione, la cacciata di tutti i principi, l'instaurazione della repubblica unitaria tedesca.
 
Allo stato delle cose, questa via per l'unificazione della Germania poteva essere imboccata solo nel caso che Luigi Napoleone cominciasse la guerra per la riva sinistra del Reno. Tuttavia questa guerra non ebbe luogo, e per ragioni che presto dovranno essere ricordate. Ma così la questione dell'unificazione nazionale cessava di essere un'insopprimibile questione vitale che doveva essere risolta dall'oggi al domani, pena la rovina. La nazione poteva temporaneamente attendere.
 
La seconda via era l'unificazione sotto l'egemonia dell'Austria. Questa aveva conservato nel 1815 la posizione, impostale dalle guerre napoleoniche, di territorio statale compatto, unito. Essa non rivendicava più quei possedimenti che aveva avuto una volta nella Germania del sud e che le erano stati tolti; si accontentava dell'annessione di territori nuovi e vecchi che potevano geograficamente e strategicamente adattarsi al nocciolo che ancora rimaneva della monarchia. La separazione dell'Austria tedesca dal resto della Germania, avviata dai dazi protettivi di Giuseppe II, accentuata dal regime di polizia di Francesco I in Italia, e portata al suo punto culminante dallo scioglimento dell'impero tedesco e della Confederazione renana, rimase di fatto ancora in vigore anche dopo il 1815. Metternich circondò il suo Stato dalla parte della Germania con una vera e propria muraglia cinese. Le dogane tenevano lontani i prodotti materiali della Germania, la censura quelli spirituali, le angherie più inaudite sui passaporti riducevano al minimo indispensabile i rapporti tra le persone. All'interno un arbitrio assolutistico, unico anche in Germania, era la garanzia contro ogni benché minimo moto politico. Così l'Austria era rimasta assolutamente lontana da tutto il movimento borghese liberale della Germania. Col 1848 cadde in gran parte almeno il muro di separazione spirituale, ma gli avvenimenti di quell'anno e le loro conseguenze erano poco adatti ad avvicinare maggiormente l'Austria al resto della Germania; al contrario l'Austria si faceva sempre più forte della sua posizione di grande potenza indipendente. E cosi avvenne che sebbene i soldati austriaci delle fortezze federali fossero ben visti e i prussiani odiati e canzonati, e sebbene l'Austria fosse pur sempre popolare e rispettata in tutto il sud e l'occidente prevalentemente cattolici, tuttavia nessuno pensava seriamente ad una unificazione della Germania sotto l'egemonia austriaca, all'infuori forse di pochi principi di piccoli e medi Stati tedeschi,
 
E neanche poteva essere altrimenti. L'Austria stessa non aveva voluto che fosse altrimenti, anche se in seguito nutriva romantici sogni d'impero. La frontiera doganale austriaca era rimasta col tempo l'unica parete divisoria nell'interno della Germania e tanto più aspramente era sentita. La politica di grande potenza indipendente non aveva nessun senso se non significava l'abbandono di interessi tedeschi a vantaggio di interessi specificamente austriaci e quindi italiani, ungheresi ecc. Tanto prima che dopo la rivoluzione, l'Austria rimase lo Stato più reazionario della Germania, quello che più di malavoglia seguiva la corrente moderna e inoltre l'unica grande potenza specificamente cattolica che ancora restasse. Quanto più il governo costituito dopo la rivoluzione di marzo si sforzava di ristabilire l'antico regime pretesco e gesuitico, tanto più gli diventava impossibile l'egemonia su un paese per due terzi protestante. E infine una unificazione della Germania sotto l'Austria era possibile solo con la distruzione della Prussia. Ma per quanto la distruzione della Prussia non rappresenti affatto di per se stessa una grande disgrazia per la Germania, pure la distruzione della Prussia per opera dell'Austria sarebbe stata tanto pregiudizievole quanto la distruzione dell'Austria per opera della Prussia prima dell'imminente vittoria della rivoluzione in Russia (dopo la quale essa diventa superflua perché in questo caso l'Austria, ormai inutile, cadrà necessariamente da se stessa).
 
In breve, l'unità tedesca sotto l'egida dell'Austria era un sogno romantico e tale si dimostrò quando nel 1863 i piccoli e medi principi tedeschi si riunirono a Francoforte per proclamare Francesco Giuseppe d'Austria imperatore di Germania. Il re di Prussia rimase semplicemente a casa e la commedia imperiale finì miseramente nel nulla.
 
Rimaneva la terza via: l'unificazione sotto l'egemonia prussiana. E questa via, poiché è stata realmente imboccata, ci fa ridiscendere dal campo della speculazione al terreno più solido, anche se abbastanza sordido, della politica pratica, della «Realpolitik».
 
Dal tempo di Federico II la Prussia ha visto nella Germania, cosi come nella Polonia, un semplice campo di conquista dal quale si prende ciò che si può arraffare e che, non occorre dirlo, bisogna anche spartire con altri. Dividersi la Germania con lo straniero e in primo luogo con la Francia: questa fu la «missione tedesca» della Prussia dal 1740. «Je vais, je crois, jouer votre jeu; si les as me viennent, nous partagerons» [16]: queste furono le parole di commiato che Federico disse all'ambasciatore francese partendo per la sua prima guerra. Fedele a questa «missione tedesca», la Prussia tradiva la Germania nella pace di Basilea del 1795, in cambio dell'assicurazione di un incremento territoriale (trattato del 5 agosto 1796) consentiva a cedere in anticipo alla Francia la riva sinistra del Reno e, con il Reichsdeputationshauptscbluss, imposto dalla Russia e dalla Francia, incassava effettivamente il prezzo del tradimento dell'impero. Nel 1805 la Prussia tradì ancora una volta la Russia e l'Austria, che erano sue alleate, appena Napoleone le promise lo Hannover, quest'esca che l'ha sempre attirata, ma nella sua stupida furberia si trovò cosi compromessa che fu costretta a entrare in guerra con Napoleone e ricevette a Jena il meritato castigo. Sotto l'impressione di questo colpo, anche dopo le vittorie del 1813 e 1814, Federico Guglielmo III voleva rinunziare a tutte le posizioni oltre confine nella Germania occidentale, limitarsi al possesso della Germania nordorientale e, come l'Austria, ritirarsi il più possibile dalla Germania; la quale cosa avrebbe trasformato tutta la Germania occidentale in una nuova Confederazione renana sotto il protettorato russo o francese. Il piano non gli riuscì; assolutamente contro la sua volontà gli furono imposte la Vestfalia e la provincia renana e conseguentemente una nuova «missione tedesca».
 
Conle annessioni, se si eccettua l'acquisto di singoli pezzi di terra di scarso valore, per adesso era finita. All'interno il vecchio regime burocratico degli Junker rifiorì a poco a poco; le concessioni costituzionali fatte al popolo in momenti di amara necessità furono costantemente annullate. Ma, con tutto ciò, anche in Prussia la borghesia progredì in misura sempre maggiore, dato che senza l'industria e il commercio anche l'orgoglioso Stato prussiano ora non avrebbe contato nulla. A poco a poco, contro voglia, a dosi omeopatiche, fu necessario far concessioni economiche alla borghesia. E, da una parte, queste concessioni offrirono la prospettiva di sostenere la «missione tedesca» della Prussia, poiché la Prussia, per eliminare le frontiere doganali straniere tra le sue due metà, invitò gli Stati tedeschi confinanti all'unificazione doganale. Così sorse l'Unione doganale (Zollverein) che fu un pio desiderio sino al 1830 (solo l'Assia-Darmstadt vi aveva aderito), ma che poi con il graduale accelerarsi del movimento politico ed economico doveva ben presto annettere economicamente alla Prussia la maggior parte della Germania centrale. I paesi non prussiani del litorale continuarono a restarne fuori sin dopo il 1848.
 
L'unione doganale fu un grande successo della Prussia. Che essa rappresentasse una vittoria sull'influenza austriaca era ancora il meno. La cosa principale era che essa metteva a fianco della Prussia tutta la borghesia dei medi e piccoli Stati. Eccettuata la Sassonia, non c'era neppure uno Stato tedesco che avesse un'industria sviluppata, anche solo approssimativamente, come l'industria prussiana; e questo fatto non era dovuto soltanto a presupposti naturali e storici, ma anche alla maggiore ampiezza del territorio doganale e del mercato interno. E quanto più l'unione doganale si estendeva e raccoglieva in questo mercato interno i piccoli Stati, tanto più la borghesia nascente di questi Stati veniva subordinandosi alla potenza prussiana, riconoscendone l'egemonia nel campo dell'economia e talvolta anche della politica.
 
E come cantavano i borghesi, così fischiavano i professori. Ciò che a Berlino gli hegeliani costruivano filosoficamente, vale a dire il concetto che la Prussia fosse chiamata a marciare alla testa della Germania, a Heidelberg gli scolari di Schlosser, Häusser e Gervinus, lo dimostravano storicamente. Naturalmente tutto ciò presupponeva che la Prussia cambiasse tutto il suo sistema politico realizzando le rivendicazioni degli ideologi della borghesia [17].
 
Ma tutto ciò non avveniva in virtù di una predilezione speciale per lo Stato prussiano, pressappoco come quando i borghesi italiani accettarono come Stato egemone il Piemonte, dopo che questo si mise apertamente alla testa del movimento nazionale costituzionale. No, tutto questo accadde controvoglia, e i borghesi accettarono la Prussia come il minor male perché l'Austria li escludeva dal suo mercato e perché la Prussia, confrontata con l'Austria, aveva pur sempre un certo carattere borghese non fosse che per la sua spilorceria finanziaria. Due buone istituzioni avvantaggiavano la Prussia sugli altri grandi Stati: il servizio militare obbligatorio e l'istruzione obbligatoria. Le aveva introdotte in tempi di estrema calamità e, in giorni migliori, si era accontentata di spogliarle del loro carattere talvolta pericoloso, applicandole trascuratamente e deformandole intenzionalmente. Ma esse continuavano a esistere sulla carta, e cosi la Prussia si riservava la possibilità di sviluppare nelle masse popolari quell'energia potenziale di un giorno, che ora sonnecchiava, ad un grado che altrove, con una popolazione di pari entità numerica, non poteva essere raggiunto. La borghesia si adattava a queste due istituzioni; verso il 1840 il servizio militare di un anno, quello che facevano quindi i figli dei borghesi, era leggero e poteva essere evitato facilmente con la corruzione, tanto più che allora nell'esercito stesso si dava ben poca importanza agli ufficiali della Landwehr, reclutati negli ambienti commerciali e industriali. Il numero maggiore di gente provvista di una certa somma di cognizioni elementari, che, dai tempi dell'obbligo scolastico, esisteva incontestabilmente in Prussia, era poi di grandissima utilità alla borghesia; anzi, col progresso della grande industria, diventò perfino insufficiente [18]. Delle spese necessarie per queste due istituzioni, spese elevate, che si facevano sentire in forti imposte, si lamentava soprattutto la piccola borghesia; la borghesia in ascesa calcolava che le spese affrontate per diventare una grande potenza, fastidiose sì ma inevitabili, sarebbero state largamente compensate dall'accrescimento dei profitti.
 
In poche parole, i borghesi tedeschi non si facevano illusioni sull'amabilità della Prussia. Se a partire dal 1840 essi riconobbero l'egemonia prussiana, questo accade solo perché, e nella misura in cui, la borghesia prussiana, in seguito al suo sviluppo economico alquanto rapido, si mise economicamente e politicamente alla testa della borghesia tedesca; perché, e nella misura in cui, i Rotteck e i Welcker del sud, dove vigeva la vecchia Costituzione, furono messi nell'ombra dai Camphausen, dagli Hansemann e dai Milde del nord prussiano, e gli avvocati e i professori furono messi in ombra dai commercianti e dagli industriali. E in effetti nei liberali prussiani degli anni immediatamente precedenti il 1848, e specialmente nei renani, si poteva sentire un ben altro respiro rivoluzionario che nei liberali cantonali del sud. Nacquero allora i due migliori canti popolari dal XVI secolo a oggi, il canto del borgomastro Tschech e quello della baronessa von Drosten-Vischering, che per il loro carattere sacrilego fanno oggi indignare quegli stessi che nel 1846 cantavano allegramente in coro:
 
Hatte je ein Mensch so'n Pech
Wie der Bürgermeister Tschech,
Dass er diesen dicken Mann
Auf zwei Schritt nicbt treffen kann! [19]
 
Ma tutto questo doveva cambiare ben presto. Venne la rivoluzione di febbraio, vennero i giorni di marzo a Vienna, venne la rivoluzione di Berlino del 18 marzo. La borghesia aveva vinto senza aver seriamente combattuto, senza aver voluto, anzi, il combattimento serio quando era sopraggiunto. Infatti la borghesia che poco prima aveva ancora civettato (specialmente sul Reno) col socialismo e col comunismo di quel tempo, si accorse ora improvvisamente di aver allevato non solo singoli operai, ma una classe operaia, un proletariato certo ancora mezzo prigioniero dei sogni, ma comunque in graduale maturazione e rivoluzionario per la sua più intima natura. E questo proletariato che, combattendo, aveva conquistato dovunque la vittoria per la borghesia, già poneva, specialmente in Francia, delle rivendicazioni che erano inconciliabili con l'esistenza di tutto l'ordinamento borghese. A Parigi si venne al primo terribile combattimento tra le due classi il 23 giugno 1848 e dopo una battaglia di quattro giorni il proletariato fu vinto. Da quel momento la massa della borghesia in tutta l'Europa passò dalla parte della reazione e si alleò con i burocrati, i nobili feudali e i preti dell'assolutismo, che poco prima aveva rovesciato con l'aiuto degli operai, contro i nemici della società, questi stessi operai.
 
In Prussia la cosa accadde in questa forma: la borghesia piantò in asso i rappresentanti che essa si era eletti e stette a guardare con gioia dissimulata o palese quando il governo, nel novembre 1848, li disperse. Certo, il ministero junker-burocratico, che in Prussia si protrasse per un decennio, dovette governare con forme costituzionali, ma se ne vendicò con un sistema di angherie e di soprusi meschini, sinora inauditi anche in Prussia, dei quali nessuno aveva da soffrire più della borghesia. Ma questa era rientrata in se stessa contrita, prendeva con umiltà i pugni e i calci che le piovevano addosso come punizione per le sue passate brame rivoluzionarie e ora imparava a poco a poco a pensare quel che più tardi espresse con le parole: «Dopo tutto siamo dei cani!».
 
Venne allora la reggenza. Per mostrare il suo lealismo monarchico, Manteuffel aveva fatto circondare il successore al trono, l'imperatore attuale [20], di un numero di spie pari a quello di cui oggi Puttkamer fa circondare la redazione del Sozialdemokrat [21]. Quando il successore al trono diventò reggente, Manteuffel naturalmente fu subito cacciato via a calci e cominciò la nuova era. Era soltanto un cambiamento di scena. Il principe reggente si degnò di permettere ai borghesi di essere di nuovo liberali. I borghesi usarono con piacere di questo permesso e si immaginarono di avere ora il coltello dalla parte del manico e che lo Stato prussiano dovesse muoversi secondo i loro desideri. Ma questa non era affatto l'intenzione dei «circoli competenti», come si dice in linguaggio ufficioso. L'organizzazione dell'esercito doveva essere il prezzo pagato dai borghesi liberali per l'era nuova. Su questo punto il governo esigeva solo che si attuasse il servizio militare obbligatorio nella misura che era stata abituale intorno al 1816. Dal punto di vista dell'opposizione liberale qual-siasi obiezione avrebbe fatto a pugni con la fraseologia, che le era propria, sulla potenza della Prussia e sulla missione tedesca. L'opposizione liberale, però, dava il suo consenso a patto che la durata massima del servizio, stabilita per legge, fosse di due anni. La cosa era in se stessa assolutamente ragionevole; la questione era se fosse possibile strappare queste concessioni, se la borghesia liberale del paese fosse pronta a rispettare queste condizioni sino all'estremo, impegnando magari i suoi beni e il suo sangue. Il governo insisteva con fermezza su i tre anni di servizio, la Camera su i due; scoppiò il conflitto. E col conflitto sulla questione militare la politica estera decideva nuovamente di quella interna.
 
Abbiamo visto come la Prussia, col suo atteggiamento nella guerra di Crimea e nella guerra d'Italia, avesse perduto l'ultimo residuo di prestigio. Questa miserevole politica trovava una giustificazione parziale nelle cattive condizioni dell'esercito. Poiché già da prima del 1848 non si potevano applicare imposte né contrarre prestiti senza l'approvazione degli stati, e poiché d'altra parte non si volevano convocare gli stati a questo scopo, non c'era mai abbastanza denaro per l'esercito, cosicché esso, a causa di una tirchieria senza limiti, cadde in completa decadenza. Lo spirito di parata e la pedanteria, che si erano radicati sotto Federico Guglielmo III, fecero il resto. In che misura questo esercito di parata si fosse dimostrato impotente nel 1848 nei campi di battaglia di Danimarca si può leggere nel conte von Waldersee [22]. La mobilitazione del 1850 fu un fiasco completo; mancava tutto, e quel che si aveva era per lo più inservibile. A ciò si era certo rimediato con l'approvazione dei crediti da parte delle Camere; l'esercito era stato scosso dalla vecchia routine e il servizio di parata fu, almeno in gran parte, soppiantato dal servizio di campo. Ma la forza dell'esercito era pur sempre quella del 1820, mentre tutte le altre grandi potenze, e specialmente la Francia, che proprio allora rappresentava un serio pericolo, avevano accresciuto notevolmente la loro potenza militare. E tuttavia in Prussia esisteva il servizio militare obbligatorio per tutti; ogni prussiano, sulla carta, era un soldato, ma nonostante che la popolazione fosse cresciuta da 10 milioni e mezzo (1817) a 17 milioni e tre quarti (1858), i quadri dell'esercito erano insufficienti per inquadrare ed istruire più di un terzo degli uomini atti alle armi. Allora il governo pretese di rafforzare l'esercito quasi in proporzione all'incremento della popolazione verificatosi dal 1817. Ma quegli stessi deputati liberali i quali continuavano a reclamare che il governo si mettesse alla testa della Germania, assicurasse la potenza della Germania all'esterno e ristabilisse il suo prestigio tra le nazioni, questa stessa gente, dico, lesinava, mercanteggiava e nulla voleva approvare se non sulla base della ferma di due anni. Ma avevano la forza di realizzare il loro proposito cui si attenevano così ostinatamente? Avevano dietro a loro il popolo, o almeno la borghesia, pronta a marciare?
 
Al contrario: la borghesia acclamava le loro battaglie oratorie contro Bismarck, ma in realtà organizzava un movimento che, anche se inconsapevolmente, pure, in realtà, era diretto contro la politica della maggioranza della Camera prussiana. Gli attacchi della Danimarca alla Costituzione dello Holstein, i tentativi violenti di danizzazione dello Schleswig indignavano la borghesia tedesca. Ad essere maltrattata dalle grandi potenze c'era abituata; ma il fatto di prendere calci dalla piccola Danimarca accendeva la sua collera. Si formò l'Unione nazionale (Nationalverein); la sua forza era costituita dalla borghesia, specialmente da quella dei piccoli Stati. E l'Unione nazionale, per quanto fosse assolutamente liberale, richiese prima di tutto l'unificazione nazionale sotto l'egemonia della Prussia, di una Prussia possibilmente liberale e, in caso di necessità, di una Prussia come era sempre stata. Che una volta tanto si andasse avanti, che i tedeschi la finissero di far la parte di uomini in second'ordine sul mercato mondiale, che la Danimarca fosse castigata, che nello Schleswig-Holstein si mostrassero i denti alle grandi potenze: questo era ciò che prima di ogni altra cosa esigeva l'Unione nazionale. E cosi la rivendicazione dell'egemonia prussiana veniva liberata da tutte le oscurità e le balordaggini che l'avevano caratterizzata sino al 1850. Si sapeva benissimo che essa significava l'estromissione dell'Austria dalla Germania, l'effettiva soppressione della sovranità dei piccoli Stati, e che né l'ima né l'altra cosa si potevano ottenere senza la guerra civile e la divisione della Germania. Ma la guerra civile non era più temuta e la divisione non faceva che tirare le conclusioni dalla chiusura in atto delle frontiere doganali austriache. A tal punto si erano sviluppati l'industria e il commercio della Germania, e a tal punto si era estesa e infittita la rete delle case commerciali tedesche che avvolgeva il mercato mondiale, che non era possibile sopportare più a lungo l'esistenza di piccoli Stati in patria e la mancanza di diritti e di protezione all'estero. E i deputati di Berlino, mentre la più forte organizzazione politica che la borghesia avesse mai posseduta dava loro questo effettivo voto di sfiducia, andavano mercanteggiando sulla durata del servizio militare!
 
Questa era la situazione quando Bismarck si accinse ad intervenire attivamente nella politica estera.
 
Bismarck è Luigi Napoleone tradotto dall'avventuriero francese pretendente al trono nel nobilotto di campagna prussiano e nel membro di una corporazione di studenti tedeschi. Proprio come Luigi Napoleone, Bismarck è un uomo di grande intelletto pratico e di grande furberia, un uomo d'affari nato e consumato, che in altre circostanze avrebbe conteso il posto, alla Borsa di New York, ai Vanderbilt e ai Jay Gould, e che in effetti ha bellamente salvaguardato anche i suoi interessi personali. Ma a questo intelletto sviluppatosi nel campo della vita pratica si allea spesso una corrispondente limitatezza di orizzonte, e sotto questo aspetto Bismarck supera il suo predecessore francese. Infatti, durante il periodo del suo vagabondaggio, costui aveva pure elaborato le sue «idee napoleoniche» - che valevano quel che valevano - mentre Bismarck, come vedremo, non è mai venuto a capo neanche dell'ombra di una sua idea politica personale e ha invece solo combinato come si deve le idee belle e fatte degli altri. Ma questa limitatezza fu precisamente la sua fortuna. Senza questa limitatezza di vedute egli non sarebbe mai riuscito a rappresentarsi tutta la storia universale dal punto di vista strettamente prussiano, e se questa visione del mondo autenticamente prussiana avesse avuto una fessura da cui fosse penetrata la luce del giorno, egli sarebbe mancato alla sua missione, e la sua gloria non sarebbe esistita. Invero, quando ebbe compiuto alla sua maniera la particolare missione che gli era stata prescritta dall'esterno, si trovò anche alla fine del suo latino; vedremo a quali acrobazie fu costretto in conseguenza della sua assoluta mancanza di idee razionali e della sua incapacità di comprendere la situazione storica che egli stesso aveva creata.
 
Se grazie al suo passato Luigi Napoleone si era abituato ad avere pochi riguardi nella scelta dei suoi mezzi, Bismarck apprese dalla storia della politica prussiana, specialmente da quella del cosiddetto grande elettore [23] e di Federico II, a procedere in questo campo con scrupoli ancora minori e così poté conservare l'edificante coscienza di non aver tradito la patria tradizione. Il suo intelletto pratico gli insegnava a reprimere, quando era necessario, le sue velleità di Junker; quando ciò non gli sembrò più necessario, esse riapparirono in modo stridente: fu questo, certo, un segno della decadenza. Il suo metodo politico era quello del membro della corporazione studentesca; l'interpretazione letterale burlesca del codice del bevitore di birra, con la quale ci si tira d'impaccio nella birreria della corporazione, veniva da lui, alla Camera, applicato senza nessun ritegno alla Costituzione prussiana; tutte le innovazioni da lui introdotte nella diplomazia sono prese a prestito dal sistema delle corporazioni studentesche. Ma se Luigi Napoleone era spesso esitante nei momenti decisivi, come in occasione del colpo di Stato del 1851, quando Morny dovette fargli decisamente violenza perché portasse a compimento ciò che aveva cominciato, e come alla vigilia della guerra del 1870, allorché la sua incertezza rovinò completamente la sua posizione, bisogna riconoscere che tutto questo a Bismarck non è mai accaduto. La sua forza di volontà non lo ha mai abbandonato; piuttosto si trasformava in aperta brutalità. E qui risiede anzitutto il segreto del suo successo. In tal misura tutte le classi dominanti in Germania, la borghesia come gli Junker, hanno smarrito anche l'ultimo residuo di energia, e cosi abituale è diventata nella Germania «colta» la mancanza di volontà, che l'unico individuo fra loro che effettivamente ha ancora una volontà, proprio per questo diventa il loro più grande uomo e il loro tiranno, al quale tutti, contro scienza e coscienza, come essi stessi dicono, docilmente «obbediscono a bacchetta». Certo nella Germania «incolta» non si è ancora così avanti; gli operai hanno mostrato di avere una volontà, di cui non può aver ragione neppure la forte volontà di Bismarck.
 
Una brillante carriera si apriva davanti al nostro Junker della Vecchia Marca, solo che egli avesse coraggio e intelletto per intraprenderla. Luigi Napoleone non era diventato l'idolo della borghesia precisamente perché ne aveva distrutto il parlamento, ma ne aveva elevati i profitti? E non aveva Bismarck lo stesso talento per gli affari che i borghesi tanto ammiravano nel falso Napoleone? E non aveva nel suo Bleichröder quello che Luigi Napoleone aveva nel suo Fould? E non c'era in Germania nel 1864 una contraddizione tra i rappresentanti della borghesia alla Camera, che volevano le-sinare sulla durata del servizio militare, e i borghesi, fuori della Camera, nell'Unione nazionale, che volevano a qualsiasi prezzo delle azioni nazionali, delle azioni per cui occorrevano militari? Contraddizione simile in tutto a quella che esisteva in Francia nel 1851 tra i borghesi della Camera che volevano frenare il potere del presidente e i borghesi fuori della Camera che volevano la tranquillità e un governo forte, la tranquillità a qualsiasi prezzo; contraddizione che Luigi Napoleone aveva risolto disperdendo i litigiosi membri del parlamento e dando la tranquillità alla massa della borghesia? Le cose in Germania non erano anche molto più sicure per un colpo ardito? Il piano per la riorganizzazione non era stato fornito bell'e pronto dalla borghesia ed essa stessa non reclamava ben alto un energico uomo di Stato prussiano che eseguisse il suo piano, escludesse l'Austria dalla Germania e unificasse i piccoli Stati sotto l'egemonia della Prussia? E se per questo si doveva trattare un po' bruscamente la Costituzione prussiana e si doveva eliminare come meritavano gli ideologi all'interno e fuori della Camera, non ci si poteva appoggiare, come aveva fatto Luigi Napoleone, al suffragio universale? Che cosa poteva esserci di più democratico dell'introduzione del suffragio universale? Non aveva dimostrato Luigi Napoleone che il suffragio universale, manipolato a dovere, non presentava assolutamente nessun pericolo? E proprio questo suffragio universale non offriva il mezzo di fare appello alle grandi masse popolari, di civettare un tantino col rinascente movimento sociale, se la borghesia si dimostrava recalcitrante?
 
Bismarck prese la palla al balzo. Si trattava di ripetere il colpo di Stato di Luigi Napoleone, di chiarir bene alla borghesia tedesca i reali rapporti di forza, di dissipare violentemente le sue illusioni liberali, ma, nello stesso tempo, di appagare quelle sue rivendicazioni nazionali che coincidevano con i desideri della Prussia. Lo Schleswig-Holstein fornì per primo l'appiglio per agire. Il terreno della politica estera era preparato. Lo zar di Russia [24] era stato guadagnato con i servizi di sbirro fornitigli da Bismarck nel 1863 contro i polacchi insorti; Luigi Napoleone era ugualmente stato lavorato e col suo prediletto «principio della nazionalità» poteva giustificare la sua indifferenza, se non la sua tacita benevolenza, per i piani bismarckiani; in Inghilterra era primo ministro Palmerston, ma aveva messo al ministero degli esteri il meschino lord John Russell perché letteralmente vi si coprisse di ridicolo. L'Austria era invece concorrente della Prussia per l'egemonia in Germania e, precisamente in questa occasione, tanto meno poteva lasciarsi soffiare la sua posizione dalla Prussia in quanto nel 1850 e nel 1851, come poliziotto dell'imperatore Nicola nello Schleswig-Holstein, si era in effetti comportata in modo ancor più brutale della stessa Prussia. La situazione era quindi straordinariamente favorevole. Per quanto grande fosse l'odio di Bismarck per l'Austria e per quanto piacere potesse avere l'Austria di sfogare a sua volta la sua bile sulla Prussia, alla morte di Federico VII di Danimarca, non restò loro altro da fare che marciare insieme contro la Danimarca, col tacito consenso della Russia e della Francia. Il successo era assicurato in anticipo, posto che l'Europa fosse rimasta neutrale; e questo avvenne: i ducati furono conquistati e ceduti con la pace.
 
In questa guerra la Prussia aveva conseguito l'obiettivo secondario di mettere alla prova davanti al nemico il suo esercito che dal 1850 era stato istruito secondo princìpi nuovi e dal 1860 era stato riorganizzato e rafforzato. Il suo comportamento era stato superiore ad ogni aspettativa e lo era stato nelle più diverse situazioni belliche. Che il fucile ad ago fosse molto superiore a quello ad avancarica e che lo si fosse saputo usare bene fu dimostrato dal combattimento di Lyngby, nello Jutland, in cui 80 prussiani appostati dietro un rialzo avevano messo in fuga con la celerità del loro fuoco un numero triplo di danesi. Nello stesso tempo si ebbe occasione di osservare che la sola lezione che gli austriaci avessero tratta dalla guerra d'Italia e dal modo di combattere dei francesi era che non serviva a niente sparare e che il vero soldato doveva caricare immediatamente il nemico alla baionetta, e di questo si tenne molto conto perché da parte del nemico non ci si poteva augurare una tattica più a proposito davanti alla bocca dei fucili a retrocarica. Per mettere al più presto possibile gli austriaci in condizione di persuadersene praticamente, i ducati furono rimessi con la pace alla sovranità comune dell'Austria e della Prussia e si creò quindi una situazione puramente provvisoria, che doveva generare conflitti su conflitti, e che metteva perciò completamente nelle mani di Bismarck la scelta del momento in cui volesse utilizzare un tale conflitto per il suo grande colpo contro l'Austria. Dato il costume della politica prussiana di «sfruttare sino agli estremi, senza scrupoli» una situazione favorevole, come dice il signor von Sybel, era naturale che col pretesto della liberazione dei tedeschi dall'oppressione danese, circa 200.000 danesi dello Schleswig del nord fossero annessi alla Germania. Chi ne uscì a mani vuote fu invece il candidato al trono dello Schleswig-Holstein proposto dai piccoli Stati e dalla borghesia tedesca, il duca di Augustenburg.
 
Cosinei ducati Bismarck aveva fatto, contro la volontà della borghesia tedesca, ciò che la borghesia tedesca voleva. Aveva cacciato i danesi, aveva sfidato lo straniero e lo straniero non si era mosso. I ducati, appena liberati, furono trattati come terra di conquista; senza consultare affatto la loro volontà vennero senz'altro divisi provvisoriamente tra l'Austria e la Prussia. La Prussia era di nuovo diventata una grande potenza, non era più la quinta ruota del carro dell'Europa; la realizzazione delle aspirazioni nazionali della borghesia era avviata nel modo migliore, ma la via prescelta non era quella liberale della borghesia. Il conflitto militare prussiano perdurò dunque in Prussia e divenne perfino sempre più insolubile. Doveva aver inizio il secondo atto della principale azione politica di Bismarck
 
La guerra danese aveva appagato una parte delle aspirazioni nazionali. Lo Schleswig-Holstein era «liberato», il protocollo di Varsavia e di Londra, con cui la Germania era stata umiliata di fronte alla Danimarca, veniva strappato e gettato ai piedi delle grandi potenze che l'avevano imposto, senza che esse fiatassero. L'Austria e la Prussia erano di nuovo insieme, le truppe di entrambe avevano vinto insieme e nessun potentato pensava più a toccare il territorio tedesco. Le bramosie renane di Luigi Napoleone, sinora respinte in secondo piano da altre occupazioni: la rivoluzione italiana, l'insurrezione polacca, le complicazioni danesi e finalmente la spedizione al Messico, ora non avevano più nessuna prospettiva. Per un uomo di Stato prussiano conservatore, la situazione mondiale era quindi, per quel che riguardava l'estero, assolutamente la più desiderabile. Ma Bismarck non fu mai un conservatore sino al 1871, anzi allora non lo era minimamente e la borghesia tedesca non era per niente soddisfatta.
 
La borghesia tedesca si muoveva sempre nella nota contraddizione. Da una parte rivendicava per sé il potere politico esclusivo, cioè un ministero scelto tra la maggioranza liberale della Camera, il quale avrebbe dovuto condurre una lotta decennale contro il vecchio sistema rappresentato dalla corona sino a che non fosse definitivamente riconosciuto il suo nuovo potere: quindi dieci anni di indebolimento interno. Ma d'altra parte essa esigeva una trasformazione rivoluzionaria della Germania che si poteva attuare solo con la violenza, quindi solo con una effettiva dittatura. Inoltre la borghesia del 1848 aveva dato colpo a colpo, in ogni momento decisivo, la dimostrazione di non possedere neanche l'ombra dell'energia e di non poter quindi realizzare né una cosa né l'altra e, tanto meno, tutte e due le cose assieme. In politica ci sono solo due forze decisive, il potere organizzato dello Stato, l'esercito, e il potere non organizzato, la forza elementare delle masse popolari. La borghesia aveva disimparato nel 1848 a fare appello alle masse: le temeva ancor più che l'assolutismo. Ma l'esercito non era affatto a sua disposizione. Era invece a disposizione di Bismarck.
 
Nel conflitto parlamentare, che ancora durava, Bismarck aveva combattuto ad oltranza le rivendicazioni parlamentari della borghesia. Ardeva però dal desiderio di realizzarne le aspirazioni nazionali; esse coincidevano con i più segreti voti del cuore della politica prussiana. Se, contro la volontà della borghesia, egli faceva adesso, ancora una volta, ciò che la borghesia voleva, se faceva una realtà dell'unificazione della Germania, quale era stata formulata dalla borghesia, il conflitto si eliminava da se stesso, e Bismarck diventava necessariamente l'idolo della borghesia, come il suo modello Luigi Napoleone.
 
La borghesia gli fornì il fine, Luigi Napoleone la via per raggiungerlo; solo l'attuazione rimase opera di Bismarck.
 
Per mettere la Prussia alla testa della Germania, si doveva non solo cacciare l'Austria con la forza dalla Confederazione germanica, ma anche sottomettere i piccoli Stati. Una bella guerra di questo genere, tra tedeschi e tedeschi, era sempre stata nella politica prussiana il mezzo principale per un ingrandimento territoriale: era una cosa che nessun bravo prussiano poteva temere. Tanto meno poteva suscitare qualche esitazione il secondo di questi mezzi; l'alleanza con lo straniero contro i tedeschi. II sentimentale Alessandro di Russia lo si aveva già in tasca. Luigi Napoleone non aveva mai misconosciuto la missione piemontese della Prussia inGermania ed era assolutamente pronto a concludere un piccolo affare con Bismarck. Egli preferiva ottenere ciò che gli occorreva per via pacifica, sotto forma di compensi. Non gli occorreva neppure tutta la riva sinistra del Reno in una volta; se l'avesse avuta brano a brano, in ragione di un pezzo per ogni nuovo progresso della Prussia, la cosa avrebbe colpito di meno e avrebbe egualmente portato allo scopo. Agli occhi dello sciovinista francese un miglio quadrato di terra sul Reno equivaleva assolutamente alla Savoia e a Nizza. Si presero quindi accordi con Luigi Napoleone e si ottenne il suo permesso per l'ingrandimento della Prussia e per una Confederazione germanica del nord [25]. Che per questo gli sia stato offerto un pezzo di terra tedesca sul Reno è fuori dubbio; nei negoziati con Govone, Bismarck parlava di Baviera renana e di Assia renana. È vero che più tardi lo ha negato. Ma un diplomatico, specialmente un diplomatico prussiano, ha le sue vedute sui limiti entro i quali è legittimo o addirittura doveroso fare una dolce violenza alla verità. Poiché la verità è una donnaccia, questo, secondo il modo di vedere di uno Junker, deve farle particolarmente piacere. Luigi Napoleone non era cosi stupido da permettere l'ingrandimento della Prussia senza che la Prussia gli promettesse un compenso; sarebbe stato più facile che Bleichröder prestasse denaro senza interessi. Però non conosceva abbastanza i suoi prussiani e finì insomma per essere gabbato. Per farla breve, una volta che egli fu rassicurato, si concluse un'alleanza con l'Italia per «il colpo al cuore».
 
Il filisteo dei vari paesi si è profondamente indignato per questa espressione. Ma assolutamente a torto. À la guerre camme a la guerre. L'espressione dimostra semplicemente che Bismarck prendeva la guerra civile tedesca del 1866 per quello che; era, ossia per una rivoluzione, ed era pronto a compiere questa rivoluzione con mezzi rivoluzionari, E lo fece. La sua condotta di fronte alla Dieta federale fu rivoluzionaria. Invece di sottomettersi alla decisione costituzionale delle autorità confederali, le accusò di aver violato i principi della Confederazione - un puro pretesto - sciolse la Confederazione, proclamò una nuova Costituzione con un Reichstag eletto col rivoluzionario suffragio universale e finalmente cacciò la Dieta federale da Francoforte. Nell'alta Slesia inviò una legione ungherese al comando del generale rivoluzionario Klapka e di altri ufficiali rivoluzionari, le cui truppe, formate da disertori e prigionieri di guerra ungheresi, dovevano condurre una guerra contro i loro legittimi comandanti militari [26]. Dopo la conquista della Boemia, Bismarck lanciò «agli abitanti del glorioso regno di Boemia» un proclama il cui contenuto faceva completamente a pugni con i principi tradizionali del legittimismo. Passò tranquillamente alla Prussia tutti i possedimenti di tre legittimi sovrani tedeschi della Confederazione e di una città libera [27], senza che questa cacciata di sovrani che erano tali, non meno del re di Prussia, «per grazia di Dio», gravasse in nessun modo sulla sua cristiana e legittimistica coscienza. In breve fu compiuta con mezzi rivoluzionari una completa rivoluzione. Noi saremo naturalmente gli ultimi a fargliene un rimprovero. Gli rimproveriamo invece di non esser stato abbastanza rivoluzionario, di non essere stato altro che un prussiano rivoluzionario dall'alto, di aver cominciato tutta una rivoluzione in una posizione che gli permetteva di compierla solo a metà, e di essersi accontentato, una volta messosi sul piano delle annessioni, di quattro miserabili staterelli.
 
Ma, zoppicando, arrivò allora Napoleone il piccole a richiedere la ricompensa. Durante la guerra, egli avrebbe potuto prendere sul Reno ciò che gli fosse piaciuto; non solo la campagna, ma anche le fortezze erano sguarnite. Esitò; si aspettava una guerra lunga che prostrasse ambo le parti e vennero invece questi colpi rapidi, venne la sconfitta dell'Austria in otto giorni. Egli esigeva anzitutto ciò che Bismarck aveva indicato al generale Govone come possibile indennizzo, e cioè la Baviera renana e l'Assia renana con Magonza. Ma tutto questo, ora, Bismarck non poteva più darglielo, neanche se avesse voluto. I poderosi successi della guerra gli avevano imposto nuovi obblighi. Nel momento in cui si ergeva a difesa e baluardo della Germania, la Prussia non poteva mercanteggiare Magonza, chiave del medio Reno, con lo straniero. Bismarck ricusò. Luigi Napoleone acconsenti a trattare: ormai chiedeva solo il Lussemburgo, Landau, Saarlouis, e il bacino carbonifero di Saarbrücken. Ma Bismarck non poteva cedere più neanche questo, tanto più che qui era lo stesso territorio prussiano che veniva preso di mira. Perché Luigi Napoleone non si era servito da se stesso, al momento opportuno, allorché i prussiani erano immobilizzati in Boemia? In breve, dei compensi per la Francia non rimase più niente. Che ciò significasse più tardi una guerra con la Francia, Bismarck lo sapeva, ma questo faceva precisamente il suo gioco.
 
Questa volta nei trattati di pace la Prussia non sfruttò la posizione favorevole con quella spregiudicatezza che altre volte le era abituale nella buona fortuna. E per buone ragioni. La Sassonia e l'Assia-Darmstadt erano state inserite nella Confederazione germanica del nord e non fosse che per questo furono risparmiate. La Baviera, il Württemberg e il Baden dovevano essere trattati con discrezione perché Bismarck doveva concludere segretamente con questi paesi alleanze difensive e offensive. E, quanto all'Austria, Bismarck non le aveva reso un servizio troncando le complicazioni tradizionali che la tenevano incatenata dalla parte della Germania e dell'Italia? Non le aveva procurato proprio ora quella posizione di grande potenza indipendente che cosi a lungo aveva sospirato? E quando la batteva in Boemia, non aveva in effetti saputo meglio dell'Austria ciò che all'Austria serviva? Trattata giustamente, l'Austria non avrebbe dovuto vedere che la situazione geografica e la reciproca limitazione dei due paesi facevano della Germania unificata sotto la Prussia la sua necessaria e naturale alleata?
 
Cosi avvenne che la Prussia, per la prima volta da quando esisteva, poté cingersi dell'aureola della magnanimità perché … dava un uovo per avere una gallina.
 
Sui campi di battaglia della Boemia era stata battuta non solo l'Austria, ma anche la borghesia tedesca. Bismarck le aveva dimostrato di sapere meglio di lei ciò che le giovava. A una prosecuzione del conflitto da parte della Camera non c'era da pensare. Le pretese liberali della borghesia da lungo tempo erano morte e sotterrate, mentre le sue rivendicazioni nazionali si realizzavano di giorno in giorno in misura sempre maggiore. Per essa, con una celerità e una precisione degne di meraviglia, Bismarck attuava il suo programma nazionale. E dopo averle fatto toccare con mano in corpore vili, sul corpo consunto, la sua fiacchezza, la sua mancanza di energia e conseguentemente la sua incapacità di realizzare il suo stesso programma fece con essa anche la parte del magnanimo e chiese alla Camera, ora effettivamente disarmata, la sanatoria per l'anticostituzionale governo del conflitto. E il progresso ormai inoffensivo, commosso sino alle lacrime, accordò la sanatoria.
 
Ciò non di meno si ricordò alla borghesia che anch'essa era stata vinta a Königgrätz. La Costituzione della Confederazione germanica del nord fu elaborata sul modello della Costituzione prussiana, la quale aveva avuto nel conflitto la sua interpretazione autentica.
 
Non fu più permesso rifiutare l'approvazione delle imposte. Il cancelliere della Confederazione e i suoi ministri erano nominati dal re di Prussia indipendentemente da ogni maggioranza parlamentare. L'indipendenza dell'esercito dal parlamento, che era stata stabilmente assicurata grazie al conflitto, fu mantenuta anche di fronte al Reichstag. Ma in cambio i membri di questo Reichstag avevano la coscienza edificante di essere stati eletti a suffragio universale. Questo fattoveniva loro richiamato alla memoria, e certo spiacevolmente, dalla vista dei due socialisti [28] che sedevano tra loro. Era la prima volta che dei deputati socialisti, rappresentanti del proletariato, comparivano in un organismo parlamentare. Era un brutto segno.
 
In un primo tempo tutto questo non aveva importanza. Ciò che importava era perfezionare e sfruttare la nuova unità dell'impero, almeno nel nord, nell'interesse della borghesia e attrarre cosi nella nuova Confederazione anche la borghesia della Germania meridionale. La Costituzione della Confederazione toglieva ai singoli Stati e attribuiva alla Confederazione stessa la facoltà di emanare le leggi più importanti dal punto di vista economico: diritto di cittadinanza comune e libertà di movimento in tutto il territorio della Confederazione, diritto di domicilio, legislazione sull'industria, sul commercio, sulle dogane, sulla navigazione, sulle monete, sui pesi e misure, sulle strade ferrate, sulle vie fluviali, sulle poste e telegrafi, sui brevetti, sulle banche; tutta la politica estera, i consolati, la protezione del commercio all'estero, la polizia sanitaria, il diritto penale, la procedura giudiziaria ecc. La maggior parte di queste materie fu ora regolamentata rapidamente e, nel complesso, liberalmente. E così finalmente - finalmente! - furono davvero eliminate le peggiori aberrazioni del sistema dei piccoli Stati, quelle che sbarravano la strada, da una parte, allo sviluppo capitalistico e, dall'altra, alle brame di dominio della Prussia. Questa però non fu una conquista di valore storico universale, come ora strombazzava il borghese che andava diventando sciovinista, ma un'imitazione molto tardiva o molto imperfetta di ciò che la Rivoluzione francese aveva già fatto settant'anni prima e che tutti gli altri Stati civili avevano introdotto da lungo tempo. Invece di vantarsi ci si sarebbe dovuti vergognare del fatto che la Germania, popolo di «alta cultura», arrivasse per ultima.
 
Durante tutto questo periodo della Confederazione germanica del nord, Bismarck andò volenterosamente incontro, sul terreno economico, alla borghesia e anche nella trattazione delle questioni dei poteri parlamentari non mostrava il pugno di ferro se non ricoperto da un guanto di velluto. Fu questo il suo periodo migliore: si poteva perfino dubitare, in qualche caso, della sua limitatezza specificamente prussiana, della sua incapacità di vedere che nella storia del mondo ci sono altre potenze, e più forti, oltre l'esercito e le manovre diplomatiche da questo sostenute.
 
Che la pace con l'Austria recasse in seno la guerra con la Francia, Bismarck non solo lo sapeva ma anche lo voleva. Questa guerra doveva precisamente fornirgli il mezzo per realizzare quell'impero germanico-prussiano che era l'obiettivo assegnatogli dalla borghesia tedesca [29]. I tentativi di trasformare a poco a poco il parlamento doganale [30] in Reichstag e di attrarre così via via gli Stati del sud nella Confederazione del nord fallivano di fronte al fortissimo grido dei deputati della Germania del sud: «Nessun allargamento di competenze!». Né più favorevolmente erano disposti i governi da poco battuti sul campo di battaglia. Solo una nuova e palpabile prova del fatto che la Prussia era strapotente di fronte a loro, ma anche abbastanza forte per proteggerli - dunque una nuova guerra di tutta la Germania - poteva provocare rapidamente il momento della capitolazione. E poi la linea di demarcazione del Meno, che prima era stata oggetto di un tacito accordo tra Bismarck e Luigi Napoleone, dopo la vittoria era stata da quest'ultimo palesemente imposta ai prussiani; l'unificazione con la Germania del sud era perciò una violazione del diritto allo spezzettamento della Germania, questa volta formalmente accordato ai francesi: era la guerra.
 
Frattanto Luigi Napoleone era costretto a cercare dovunque alla frontiera tedesca qualche pezzo di terra da intascare come compenso per Sadowa. All'atto della creazione della Confederazione germanica del nord era stato escluso il Lussemburgo, uno Stato dunque che si trovava allora in unione personale con l'Olanda, ma per ogni altro riguardo completamente indipendente. Inoltre era a un dipresso altrettanto gallicizzato quanto l'Alsazia aveva decisamente molta più propensione per la Francia che per la Prussia, che esso decisamente odiava.
 
Il Lussemburgo è un esempio lampante di ciò che la miseria politica della Germania aveva fatto dei paesi posti ai confini tra la Germania e la Francia. E tanto più lampante in quanto il Lussemburgo sino al 1866 faceva nominalmente parte della Germania. Sino al 1830 era formato da una metà francese e da una metà tedesca, ma anche la parte tedesca ben presto aveva subito l'influenza della superiore civiltà francese. Gli imperatori tedeschi della casa di Lussemburgo erano francesi per lingua e cultura. Da quando era stato incorporato nella Borgogna (1440), il Lussemburgo, come il resto dei Paesi Bassi, era rimasto unito alla Germania da un legame solamente nominale, e nulla di tutto ciò fu mutato dalla sua incorporazione nella Confederazione germanica nel 1815. Dopo il 1830 la parte francese e anche una buona fetta della parte tedesca toccarono al Belgio. Ma in quel che restava del Lussemburgo tedesco, tutto rimase su base francese; i tribunali, i magistrati, le Camere, tutto veniva trattato alla francese, tutti gli atti pubblici e privati, tutti i libri commerciali venivano redatti in francese, in tutte le scuole medie si insegnava in francese, la lingua colta era e rimase il francese, naturalmente un francese gemente e ansimante sotto il peso dell'apofonia dell'alto tedesco. Per dirla in breve, nel Lussemburgo si parlavano due lingue: un dialetto popolare francone-renano e il francese, mentre l'alto tedesco rimaneva una lingua straniera. La guarnigione prussiana della capitale peggiorò anziché migliorare questo stato di cose. È questa una cosa abbastanza vergognosa per la Germania, ma vera. E questa spontanea gallicizzazione del Lussemburgo mette nella giusta luce anche gli analoghi processi svoltisi nell'Alsazia e nella Lorena tedesca.
 
Il re di Olanda [31], duca sovrano del Lussemburgo, sapeva far buon uso del denaro contante e si mostrava pronto a vendere il ducato a Luigi Napoleone. I lussemburghesi avrebbero incondizionatamente gradito la loro incorporazione alla Francia, ne è prova il loro atteggiamento nella guerra del 1870. La Prussia, dal punto di vista del diritto internazionale, non aveva niente da obiettare poiché essa stessa aveva provocato l'esclusione del Lussemburgo dalla Germania. Le sue truppe stavano nella capitale come guarnigione confederale di una fortezza confederale; non appena il Lussemburgo cessava di essere una fortezza confederale, esse non avevano qui più nessun diritto. Ma perché non ritornavano a casa? Perché Bismarck non poteva concedere l'annessione?
 
Semplicemente perché ora erano emerse alla luce del giorno le contraddizioni in cui egli si era avvolto. Prima del 1866 la Germania era per la Prussia semplicemente un territorio di annessione, da spartire con Io straniero. Dopo il 1866 la Germania era diventata per la Prussia un protettorato che si doveva salvaguardare dagli artigli dello straniero. Certo, interi pezzi di Germania, per considerazioni prussiane, erano stati esclusi dalla cosiddetta Germania di nuova fondazione. Ma il diritto della nazione tedesca all'intero suo territorio imponeva ora alla corona di Prussia il dovere di impedire l'incorporazione di questi pezzi dell'antico territorio confederale in Stati stranieri e di tener loro aperta per il futuro l'unione al nuovo Stato germanico-prussiano. Per questa ragione l'Italia si era fermata ai confini del Tirolo, e per questa ragione ora il Lussemburgo non doveva passare a Luigi Napoleone, Tutto questo, un governo effettivamente rivoluzionario avrebbe potuto proclamarlo apertamente. Non così il rivoluzionario prussiano monarchico che era finalmente riuscito a trasformare la Germania in un metternichiano «concetto geografico». Egli stesso si era messo dalla parte del torto dal punto di vista del diritto internazionale e si poteva trarre dai guai solo applicando al diritto internazionale la sua prediletta interpretazione da birreria studentesca.
 
Se in questo modo non si coprì addirittura di ridicolo, ciò fu dovuto soltanto al fatto che Luigi Napoleone nella primavera del 1867 non era ancora pronto per una grande guerra. Si giunse a un accordo alla conferenza di Londra. I prussiani sgombrarono il Lussemburgo, la fortezza venne smantellata, il ducato fu proclamato neutrale. La guerra fu di nuovo aggiornata.
 
Luigi Napoleone non poteva darsi pace di questa soluzione. L'ingrandimento della potenza della Prussia gli andava assolutamente bene solo a condizione di ricevere gli adeguati compensi sul Reno. Aveva voluto contentarsi di poco, aveva poi rinunciato anche a qualcosa di questo poco, ma non aveva ricevuto assolutamente niente, era stato beffato in pieno. Ma un impero bonapartista in Francia era possibile solo se a poco a poco spingeva i confini verso il Reno e se la Francia, nella realtà o anche solo nell'immaginazione, rimaneva l'arbitro dell'Europa. L'avanzamento della linea di confine era fallito, la posizione di arbitro era già minacciata, la stampa bonapartista gridava alto alla rivincita per Sadowa: se Luigi Napoleone voleva mantenere il suo trono doveva restar fedele alla sua parte e prender con la forza ciò che, nonostante tutti i servizi resi, non otteneva con le buone.
 
Dalle due parti, quindi, assidui preparativi di guerra, sia diplomatici che militari; e fu allora che ebbe luogo il seguente negoziato diplomatico:
 
La Spagna andava in cerca di un candidato al trono. Nel marzo [1869] Benedetti, ambasciatore francese a Berlino, sentì vociferare di una candidatura al trono del principe Leopoldo di Hohenzollern e da Parigi ricevette l'incarico di informarsi della cosa. Il sottosegretario di Stato von Thile lo rassicurò sulla parola d'onore che il governo prussiano non ne sapeva niente. In una visita a Parigi, Benedetti venne a sapere quale era l'opinione dell'imperatore: «Questa candidatura è per essenza antinazionale, il paese non la tollererà, la si deve impedire».
 
Diciamo di passaggio che Luigi Napoleone dava qui la prova di essere già fortemente in ribasso. In effetti, quale migliore «vendetta per Sadowa» poteva esserci che un principe prussiano re di Spagna, i fastidi che ne sarebbero inevitabilmente seguiti, l'implicazione della Prussia nei rapporti tra i partiti all'interno della Spagna, probabilmente una guerra, la sconfitta della minuscola flotta prussiana e, in ogni caso, una figura estremamente grottesca della Prussia di fronte all'Europa? Ma questo spettacolo Luigi Napoleone non se lo poteva più permettere. Il suo credito era già così profondamente scosso che egli si attenne al punto di vista tradizionale, secondo cui un principe tedesco sul trono di Spagna avrebbe messo la Francia tra due fuochi e non era perciò tollerabile; punto di vista bambinesco dopo il 1830.
 
Benedetti andò a far visita a Bismarck per averne più ampie spiegazioni e illustrargli il punto di vista della Francia (11 maggio 1869). Da Bismarck non venne a sapere niente di particolarmente preciso. Viceversa Bismarck venne a sapere da lui quel che voleva sapere; cioè, che porre la candidatura di Leopoldo significava la guerra immediata con la Francia. In questo modo Bismarck aveva nelle sue mani la facoltà di fare scoppiare la guerra quando gli fosse piaciuto.
 
In effetti la candidatura di Leopoldo riaffiorò nel luglio 1870 e portò immediatamente alla guerra nonostante tutte le resistenze opposte da Luigi Napoleone. Egli non solo si accorgeva di essere caduto in una trappola, ma sapeva anche che ne andava del suo impero, non aveva fiducia nella veracità della sua banda di incendiari, che lo rassicuravano che tutto era pronto fino all'ultimo bottone delle ghette, e ancor meno fiducia aveva nel loro talento militare e amministrativo. Ma le conseguenze logiche del suo passato lo spinsero alla rovina; la sua stessa esitazione affrettò il suo tramonto.
 
Bismarck, invece, non solo era militarmente del tutto pronto a rispondere, ma questa volta aveva effettivamente dietro a sé il popolo che, attraverso tutte queste menzogne diplomatiche delle due parti, vedeva solo una cosa: che si trattava di una guerra non solo per il Reno ma per l'esistenza nazionale. Per la prima volta dal 1813, riserva e Landwehr, accorsero sotto le bandiere di buona voglia e pronte a combattere. Era indifferente in qual modo le cose fossero giunte a questo punto, era indifferente sapere quale parte del bimillenario patrimonio nazionale Bismarck avesse promesso o non promesso personalmente a Luigi Napoleone: ciò che importava era insegnare una volta per sempre agli stranieri che non dovevano immischiarsi negli affari interni della Germania e che la Germania non era chiamata a puntellare con cessioni di territorio tedesco il trono vacillante di Luigi Napoleone. Davanti a questo slancio nazionale sparivano tutte le differenze di classe, svanivano tutte le velleità di Confederazione renana delle corti della Germania meridionale, svanivano tutti i tentativi di restaurazione dei principi cacciati.
 
Tutte e due le pani avevano cercato delle alleanze. Luigi Napoleone era sicuro dell'Austria e della Danimarca, passabilmente sicuro dell'Italia. Bismarck aveva la Russia. Ma l'Austria, come sempre, non era pronta, non poteva intervenire attivamente prima del 2 settembre; il 2 settembre Luigi Napoleone era prigioniero di guerra dei tedeschi e la Russia aveva informato l'Austria che la avrebbe attaccata non appena essa avesse attaccato la Prussia. In Italia Luigi Napoleone doveva scontare la sua politica fatta di doppiezze: egli aveva voluto mettere in moto l'unità nazionale, ma insieme proteggere il papa da questa stessa unità nazionale; aveva tenuto Roma presidiata da truppe che adesso gli servivano in patria e che tuttavia non poteva ritirare senza far obbligo all'Italia di rispettare Roma e la sovranità del papa; la qual cosa a sua volta impediva all'Italia di sostenerlo. Infine, la Danimarca ricevette dalla Russia l'ordine di mantenersi tranquilla.
 
Ma in modo più decisivo di tutte le trattative diplomatiche agirono sulla localizzazione della guerra i colpi rapidi delle armi tedesche da Spichern e Wörth sino a Sedan. In ogni combattimento l'esercito di Luigi Napoleone subì una sconfitta sìche finì per tre quarti prigioniero di guerra in Germania. La colpa non era dei soldati che si erano battuti abbastanza valorosamente, ma dei capi e del regime. Se si costruisce il proprio impero con l'aiuto di una banda di canaglie, come aveva fatto Luigi Napoleone, se si conserva questo impero per diciotto anni solo abbandonando la Francia allo sfruttamento di questa stessa banda, se si occupano tutti i posti decisivi nello Stato con gente di questa stessa banda e tutte le posizioni subordinate con loro complici, non si deve neppure intraprendere una lotta a morte se non si vuole essere lasciati in asso. In meno di cinque settimane andò in rovina tutto quell'edificio imperiale guardato con stupore per anni dai filistei dell'Europa; la rivoluzione del 4 settembre spazzò via solo le macerie, e Bismarck, che era entrato in guerra per fondare un impero piccolo-tedesco, si trovò un bel giorno fondatore di una repubblica francese.
 
Secondo il proclama di Bismarck la guerra non era condotta contro il popolo francese, ma contro Luigi Napoleone. Col suo rovesciamento cadeva quindi ogni ragione di guerra. Questo immaginava anche il governo del 4 settembre, per il resto non così ingenuo, e molto si meravigliò quando Bismarck a questo punto mostrò improvvisamente il volto dello Junker prussiano.
 
Nessuno al mondo nutre per i francesi un odio pari a quello degli Junker prussiani. Infatti non solamente lo Junker, un tempo esente da imposte, dovette sopportare molte amarezze quando i francesi gli inflissero, dal 1806 al 1813, il castigo che egli stesso si era attirato per la sua presunzione; ma, cosa ancora molto peggiore, quegli atei di francesi con la loro sacrilega rivoluzione avevano talmente messo in disordine i cervelli che la vecchia sovranità degli Junker era stata seppellita per la maggior parte persine nella vecchia Prussia, e i poveri Junker dovevano di anno in anno condurre un'aspra battaglia per quel che ancora restava di questa sovranità, mentre una gran parte di essi erano già ridotti allo stato di una misera nobiltà parassitaria. Bisognava vendicarsi di tutto ciò con la Francia, e questo era il pensiero che animava gli ufficiali Junker nell'esercito guidato da Bismarck. Si era fatta una lista delle contribuzioni di guerra imposte dai francesi alla Prussia e su questa base si fissarono le contribuzioni da imporre in Francia alle singole città e ai singoli dipartimenti, ma naturalmente tenendo conto delle ricchezze ben più grandi della Francia. Venivano requisiti con ostentata brutalità mezzi di sussistenza, foraggi, abiti, calzature ecc. Un borgomastro delle Ardenne, che dichiarò di non poter effettuare la consegna impostagli, ricevette senz'altro 25 colpi di bastone; il governo di Parigi ne ha pubblicato il documento ufficiale. I franchi tiratori che agivano precisamente secondo le regole del Landsturm [32] prussiano del 1813, come se le avessero espressamente studiate, venivano fucilati senza misericordia solo che fossero catturati. Anche le storie dei pendoli inviati in patria sono vere, ne ha dato notizia la stessa Kölnische Zeitung. Solo che questi pendoli, secondo le idee dei prussiani, non erano stati rubati, ma trovati come oggetti senza padrone nelle case di campagna abbandonate nei dintorni di Parigi ed erano stati annessi per i propri cari che erano in patria. In questo modo gli Junker, sotto la guida di Bismarck fecero sì che, nonostante il contegno irreprensibile sia della truppa che di una gran parte degli ufficiali, la guerra conservasse il suo carattere specificamente prussiano, che questo carattere fosse inculcato nella testa dei francesi e infine poi che tutto l'esercito fosse reso responsabile delle odiose meschinità degli Junker.
 
E tuttavia era riservato proprio a questi Junker di dare al popolo francese un attestato d'onore che non ha mai avuto l'uguale in tutta la storia precedente. Quando furono falliti tutti i tentativi di sbloccare Parigi, quando furono battuti tutti gli eserciti francesi, quando fu fallita l'ultima grande offensiva di Bourbaki contro le linee di collegamento tedesche, quando tutta la diplomazia europea ebbe abbandonato la Francia al suo destino senza muovere un dito, allora finalmente Parigi affamata dovette capitolare. E il cuore degli Junker batté più forte quando finalmente poterono entrare trionfalmente nel nido dell'ateismo e trarre vendetta piena sugli arciribelli parigini, quella piena vendetta che era loro stata negata nel 1814 da Alessandro di Russia e nel 1815 da Wellington. Ora essi avrebbero potuto castigate a loro piacimento la terra e la patria della rivoluzione.
 
Parigi capitolò e pagò 200 milioni di indennità di guerra; i forti furono ceduti ai prussiani; la guarnigione abbassò le armi davanti al vincitore e gli consegnò i suoi cannoni da campagna; i cannoni delle mura di cinta furono lasciati senza affusto; tutti i mezzi di resistenza appartenenti allo Stato furono consegnati pezzo per pezzo; ma i difensori veri e propri di Parigi, la guardia nazionale, il popolo parigino in armi non fu toccato, e nessuno si aspettò che essi avrebbero consegnato le armi, né i fucili, né i cannoni [33]. Così tutto il mondo seppe che l'esercito tedesco vincitore si era fermato rispettosamente davanti al popolo di Parigi in armi; i vincitori non entrarono a Parigi, ma si appagarono invece di tenere occupati per tre giorni gli Champs-Élisées (un giardino pubblico!), mentre tutto intorno erano protetti, sorvegliati e circondati dalle sentinelle dei parigini. Nessun soldato tedesco mise piede nel municipio di Parigi, nessuno calpestò il suolo dei boulevards, e i pochi che furono ammessi al Louvre per ammirarne i tesori d'arte avevano dovuto pregare per averne il permesso: era un'infrazione alla capitolazione. La Francia era prostrata, Parigi era affamata, ma il popolo parigino col suo passato glorioso si era assicurato questo rispetto per cui nessun vincitore pensava a disarmarlo, nessuno aveva il coraggio di andarlo a trovare a casa sua e di profanare con una marcia trionfale queste strade che erano state il campo di battaglia di tante rivoluzioni. Era come se l'Imperatore tedesco di recente creazione si togliesse il cappello davanti ai rivoluzionari vivi di Parigi allo stesso modo che il defunto suo fratello se lo era levato davanti ai combattenti morti del marzo a Berlino, e come se dietro a lui stesse tutto l'esercito tedesco e presentasse le armi.
 
Ma questo era anche l'unico sacrificio che Bismarck si era dovuto imporre. Col pretesto che in Francia non c'era nessun governo che potesse concludere la pace con lui, ciò che era nella stessa misura vero e falso sia il 4 settembre che il 28 gennaio, da vero prussiano aveva sfruttato i suoi successi sino all'ultima goccia e si era dichiarato pronto alla pace solo dopo la completa umiliazione della Francia. Nello stesso trattato di pace, secondo la buona vecchia maniera prussiana, ancora una volta «venne sfruttata brutalmente la posizione favorevole». Non solo fu estorta come indennità di guerra l'inaudita somma di cinque miliardi, ma furono anche strappate alla Francia due province, l'Alsazia e la Lorena tedesca, con Metz e Strasburgo, e vennero incorporate alla Germania. Con questa annessione Bismarck si presenta per la prima volta come politico indipendente, che non attua più alla sua maniera un programma che gli è assegnato dall'esterno, ma traduce nella realtà i prodotti del proprio cervello e così egli commette il suo primo e colossale errore [34].
 
L'Alsazia era la principale conquista fatta dalla Francia nella guerra dei trent'anni. Con questa conquista Richelieu aveva abbandonato il solido principio di Enrico IV: «La lingua spagnola appartenga pure allo spagnolo, la lingua tedesca al tedesco, ma i luoghi dove si parla francese spettano a me»; egli si appoggiava al principio dei confini naturali sul Reno, i confini storici dell'antica Gallia. Era un assurdo; ma l'impero germanico, che racchiudeva i territori di lingua francese della Lorena e del Belgio e perfino della Franca Contea, non aveva il diritto di rimproverare alla Francia l'annessione di paesi di lingua tedesca. E se Luigi XIV, nel 1681, in piena pace, con l'aiuto di un partito francofilo nella città, si portò via Strasburgo, mal si addice alla Prussia indignarsi di ciò, dopo che nel 1796 fece sulla città libera di Norimberga, e in vero senza essere chiamata da un partito prussiano, un colpo precisamente eguale, seppure senza successo [35].
 
Nel 1735, con la pace di Vienna, la Lorena fu venduta dall'Austria alla Francia e nel 1766 presa definitivamente in possesso dalla Francia. Da secoli essa aveva fatto parte solo nominalmente dell'impero germanico, i suoi duchi erano stati francesi sotto tutti i rapporti e quasi sempre erano stati legati Francia.
 
Nei Vosgi, sino alla Rivoluzione francese, esisteva una quantità di piccole signorie che si comportavano rispetto alla Germania come Stati direttamente dipendenti dall'impero, mentre avevano riconosciuto la sovranità della Francia; essi traevano vantaggi da questa ibrida posizione; l'impero germanico poi, dal momento che tollerava tutto questo, invece di chiederne conto ai signori dinasti, non doveva lagnarsi che la Francia, in forza della sua sovranità prendesse sotto la sua protezione, contro i dinasti, cacciati, gli abitanti di questi tenitori.
 
In complesso questo territorio tedesco non era, sino alla rivoluzione, che poco o nulla gallicizzato. Tedesca rimaneva la lingua delle scuole e degli uffici, per gli scambi interni, almeno nell'Alsazia. Il governo francese favoriva le province tedesche che, dopo lunghi anni di guerre devastatrici, ora, dal principio del diciottesimo secolo, erano arrivate a non vedere più un nemico nel paese. L'impero germanico lacerato da eterne guerre interne, non era fatto in verità per attirare gli alsaziani a far ritorno tra le braccia materne; si aveva almeno pace e tranquillità, si sapeva a che punto si era, e così i filistei, che davano il tono, si adattarono agli imperscrutabili decreti di Dio. Dopo tutto il loro destino non era privo di esempi: anche la gente dello Holstein stava sotto la signoria straniera dei danesi.
 
Venne allora la Rivoluzione francese. Ciò che l'Alsazia e la Lorena non avevano mai osato sperare dalla Germania fu loro regalato dalla Francia. I vincoli feudali furono infranti. Il contadino servo, soggetto a prestazioni feudali, divenne un uomo libero, in molti casi libero proprietario della sua cascina e del campo. Nelle città scomparvero la dominazione del patriziato e i privilegi delle corporazioni. La nobiltà fu cacciata. E nei territori dei piccoli principi e signori, i contadini seguirono l'esempio dei loro vicini, cacciarono dinasti, Camere di governo e nobili e si proclamarono liberi cittadini francesi. In nessuna parte della Francia il popolo aderì alla rivoluzione con più entusiasmo che là dove si parlava tedesco. E ora, proprio quando l'impero germanico dichiarò guerra alla rivoluzione, quando i tedeschi non solo continuarono ancora a portare docilmente le loto catene, ma per giunta si lasciarono manovrare per imporre da capo ai francesi la vecchia servitù e ai contadini alsaziani i signori feudali appena cacciati, la germanicità degli alsaziani e dei lorenesi fu liquidata: essi impararono a odiare e a disprezzare i tedeschi; a Strasburgo fu scritta, musicata e per la prima volta cantata dagli alsaziani la Marsigliese, e i franco-tedeschi, nonostante la lingua e il passato, si unirono su centinaia di campi di battaglia, in lotta per la rivoluzione, in un solo popolo con i francesi nazionali.
 
La grande rivoluzione non aveva compiuto lo stesso miracolo sui fiamminghi di Dunkerque, sui celti della Bretagna, sugli italiani della Corsica? E se ci lagniamo che questo avvenne anche a dei tedeschi allora abbiamo dimenticato tutta la nostra storia che ha reso possibile questo fatto? Abbiamo dimenticato che tutta la riva sinistra del Reno, che pure aveva partecipato solo passivamente alla rivoluzione, era francofila quando i tedeschi vi rientrarono nel 1814 e che tale rimase sino al 1848, allorché la rivoluzione riabilitò i tedeschi agli occhi dei renani? Che l'entusiasmo francese di Heine e anche il suo bonapartismo non era altro che l'eco del generale sentimento popolare sulla sinistra del Reno?
 
Gli alleati, nella loro invasione del 1814, trovarono la più accanita resistenza popolare e la più decisa ostilità proprio nell'Alsazia e nella Lorena tedesca dove si sentiva il pericolo di essere costretti a ridiventare tedeschi. Eppure allora si parlava ancora quasi solamente tedesco. Ma quando il pericolo di essere separati dalla Francia fu passato, quando i romantici sciovinisti tedeschi ebbero deposto il loro sogno di annessione, allora si vide la necessità di unirsi sempre più, anche linguisticamente, con la Francia, e da allora fu introdotta quella stessa gallicizzazione delle scuole che anche i lussemburghesi avevano istituito volontariamente nel loro paese. Ma tuttavia il processo di trasformazione si compì lentamente; solo la generazione attuale della borghesia è effettivamente gallicizzata, mentre contadini e operai parlano tedesco. Le cose stanno su per giù come nel Lussemburgo; il tedesco letterario è stato (eccettuato parziailmente il pulpito) soppiantato dal francese, ma il dialetto popolare tedesco ha perduto terreno solo sul confine linguistico ed è usato come lingua familiare molto più di quanto non avvenga nella maggior parte delle regioni della Germania.
 
Questo è il paese che Bismarck e gli Junker prussiani, appoggiandosi alla resurrezione di un romanticismo sciovinistico che sembra inseparabile da ogni questione tedesca, hanno intrapreso a rendere di nuovo tedesco. Voler rendere tedesca la patria della Marsigliese; Strasburgo, era un assurdo pari a quello di voler rendere francese la patria di Garibaldi, Nizza. Ma a Nizza, Luigi Napoleone rispettò almeno le convenienze, fece votare sull'annessione e la manovra riuscì. A parte il fatto che i prussiani avevano buone e ottime ragioni per avere orrore di simili misure rivoluzionarie - non è mai avvenuto che in qualche luogo le masse popolari abbiano aspirato all'annessione alla Prussia -, si sapeva molto bene che proprio qui la popolazione era incline alla Francia molto più unanimemente che gli stessi francesi nazionali. E così si compì il colpo di forza semplicemente grazie alla forza. Era un po' una vendetta sulla Rivoluzione francese; veniva strappato uno di quei pezzi che proprio la rivoluzione aveva saldato alla Francia.
 
È vero pure che militarmente l'annessione aveva uno scopo. ConMetz e Strasburgo la Germania acquista un fronte difensivo di enorme forza. Sino a quando il Belgio e la Svizzera sono neutrali, un attacco in massa dei francesi non può farsi altrove che sulla stretta striscia tra Metz e i Vosgi; e contro questo attacco Coblenza, Metz, Strasburgo e Magonza formano il più forte quadrilatero fortificato del mondo. Ma anche questo quadrilatero fortificato, come quello austriaco in Lombardia, è posto per metà in territorio ostile e le sue cittadelle servono a tenere soggetta la popolazione. Ma c'è di più: per completarlo bisognava oltrepassare il territorio di lingua tedesca ed annettersi un quarto di milione di francesi nazionali.
 
Il grande vantaggio strategico era dunque il solo punto che può scusare l'annessione. Ma questo guadagno è in qualche modo proporzionato al danno che cosi è stato fatto?
 
Per la posizione morale grandemente svantaggiosa in cui si è messo il giovane impero tedesco dichiarando apertamente e senza infingimenti suo principio fondamentale la violenza brutale: per tutto questo lo Junker prussiano non ha occhi. Al contrario, dei sudditi tenuti a freno contro la loro volontà, con la violenza, sono per lui un bisogno; sono la dimostrazione dell'accresciuta potenza prussiana: in fondo non ne ha mai avuto altra. Ma era suo obbligo non perdere di vista le conseguenze politiche dell'annessione. E queste erano assai evidenti. Ancora, prima che l'annessione fosse entrata in vigore, Marx, in una circolare dell'Internazionale, proclamava chiaramente al mondo: «L'annessione dell'Alsazia e della Lorena fa della Russia l'arbitro dell'Europa». E dalla tribuna del Reichstag i socialdemocratici lo hanno ripetuto abbastanza spesso sinché finalmente la verità di questa asserzione è stata riconosciuta dallo stesso Bismarck, nel suo discorso al Reichstag del 6 febbraio 1888, con le sue querimonie di fronte allo zar onnipotente padrone della guerra e della pace.
 
Eppure la cosa era chiara come il sole. Strappando alla Francia due delle sue province fanaticamente patriottiche, la si spingeva tra le braccia di chiunque le facesse balenare la prospettiva della loro restituzione, si faceva della Francia un nemico eterno. Bismarck, che in verità sotto questo aspetto rappresenta degnamente e coscienziosamente il filisteo tedesco, esige dai francesi che essi rinunzino non solo giuridicamente ma anche moralmente all'Alsazia-Lorena e che si rallegrino anche convenientemente del fatto che entrambi questi pezzi della Francia rivoluzionaria «vengano restituiti all'antica patria», del che essi assolutamente non vogliono sentir parlare. Ma disgraziatamente i francesi non lo fanno cosi come i tedeschi non rinunziarono moralmente, durante le guerre napoleoniche, alla riva sinistra del Reno, sebbene anche questa non aspirasse allora affatto al loro ritorno. Sino a quando gli alsaziani e i lorenesi reclameranno di ritornare alla Francia, la Francia necessariamente si sforzerà per riaverli e andrà in cerca dei mezzi per raggiungere questo fine, e quindi tra l'altro, andrà pure in cerea di alleati. E l'alleato naturale contro la Germania è la Russia.
 
Se le due nazioni più grandi e più forti del continente europeo si neutralizzano a vicenda con la loro ostilità, se magari c'è anche tra loro un eterno pomo della discordia che le incita alla lotta, chi trae vantaggio da tutto ciò è solo la Russia, le cui mani in questo caso sono tanto più libere, la Russia che tanto meno può essere ostacolata nei suoi sogni di conquista della Germania quanto più può aspettarsi dalla Francia un appoggio incondizionato. E Bismarck non ha messo la Francia in condizioni di mendicare l'alleanza con la Russia, di abbandonare volentieri Costantinopoli alla Russia, solo che la Russia le prometta le sue province perdute? E se, ciò nonostante, la pace è stata mantenuta per diciassette anni, a che cosa ciò si deve attribuire se non al fatto che il sistema della Landwehr introdotto in Francia e in Russia richiede almeno sedici anni e anzi, secondo i recentissimi miglioramenti tedeschi, persino venticinque anni per fornire il numero completo di classi addestrate? E questa annessione, dopo essere stata per diciassette anni il fatto che ha dominato tutta la politica dell'Europa, non è in questo momento la causa principale di ogni crisi che minaccia la guerra nel continente? Togliete questo unico fatto e la pace sarà assicurata!
 
Il borghese alsaziano col suo francese pronunziato alla tedesca del sud, questo ibrido damerino che si da l'aria di francese come un qualsiasi francese purosangue, che guarda Goethe dall'alto in basso ed è fanatico di Racine senza con ciò liberarsi dalla cattiva coscienza della sua segreta germanicità e che, proprio per questo è costretto a ostentare il suo disprezzo per tutto ciò che è tedesco, così da non poter servire mai da intermediario tra la Germania e la Francia: questo borghese alsaziano è in verità un soggetto spregevole, sia esso un industriale di Mülhausen o un giornalista di Parigi. Ma chi lo ha reso tale? Chi se non la storia tedesca degli ultimi trecento anni? E sino a pochissimo tempo fa quasi fatti i tedeschi all'estero, specie i commercianti, non erano degli autentici alsaziani che rinnegavano la loro qualità di tedeschi, che con un vero «maltrattamento degli animali» di se stessi si innestavano a fatica la nazionalità straniera della loro nuova patria e in questo modo, spontaneamente, si rendevano per lo meno altrettanto ridicoli quando gli alsaziani che a questa parte tuttavia sono costretti più o meno dalle circostanze? In Inghilterra, per esempio, tutti i commercianti tedeschi immigrati tra il 1815 e il 1840 si erano quasi senza eccezioni anglicizzati, parlavano tra loro quasi soltanto in inglese, e anche oggi, ad esempio per la Borsa di Manchester, circolano diversi vecchi filistei tedeschi che darebbero metà delle loro sostanze pur di passare per inglesi puri. Solo dal 1848 si è prodotto anche qui un cambiamento, e dal 1870, in questo periodo in cui perfino il sottotenente della riserva viene in Inghilterra e Berlino vi manda il suo contingente, il servilismo di un tempo viene sostituito da un'alterigia alla prussiana che all'estero non ci rende meno ridicoli.
 
Ma forse dal 1871 la riunione alla Germania è stata resa di maggior gradimento per gli alsaziani? Al contrario: sono stati sottoposti a una dittatura, mentre là vicino, in Francia, dominava la repubblica. Vi si è introdotto il sistema dell'amministrazione locale prussiana, pedantescamente fastidiosa, di fronte alla quale l'ingerenza rigorosa, regolata da leggi, della malfamata amministrazione prefettizia francese diventa una delizia. Si è posto rapidamente fine agli ultimi resti della libertà di stampa, di riunione e di associazione, si sono sciolti i consigli municipali recalcitranti o si sono installati come borgomastri dei burocrati tedeschi. Ma per contro si sono adulati i «notabili», cioè i nobili e i francesi assolutamente gallicizzati e si è appoggiata la loro azione di sfruttamento ai danni dei contadini e degli operai che, se pure di sentimenti non tedeschi, almeno parlavano tedesco e costituivano l'unico elemento al quale si poteva legare un tentativo di riconciliazione. E che cosa se ne è ottenuto? Che nel febbraio 1887, allorché tutta la Germania si lasciò intimidire e mandò al Reichstag la maggioranza del cartello bismarckiano, l'Alsazia-Lorena elesse uomini dichiaratamente francesi e respinse chiunque fosse solo sospettato delle più piccole simpatie per i tedeschi.
 
E ora, se gli alsaziani sono come sono, abbiamo il diritto di arrabbiarci? Niente affatto. La loro riluttanza all'annessione è un fatto storico che non si deve respingere ma spiegare. E allora noi dobbiamo chiederci: quanti e quali errori storici enormi ha dovuto commettere la Germania perché questo modo di sentire fosse possibile in Alsazia? E visto dall'esterno, quale eccezione costituisce il nostro nuovo impero, se, dopo diciassette anni di tentativi di rigermanizzazione, gli alsaziani ci gridano ad una voce: risparmiateci una tal cosa? Abbiamo noi il diritto di immaginare che due campagne fortunate e diciassette anni di dittatura bismarckiana siano sufficienti a cancellate tutti gli: effetti di una storia obbrobriosa di trecento anni?
 
Bismarck aveva raggiunto il suo scopo. Il suo nuovo imperai germanico-prussiano era stato pubblicamente proclamato a Versailles, nel salone d'onore di Luigi XIV. La Francia, inerme, era prostrata ai suoi piedi; la fiera Parigi che egli stesso non aveva osato toccare era stata da Thiers provocata all'Insurrezione della Comune e poi schiacciata dai soldati dell'ex esercito imperiale che ritornavano dalla prigionia. Tutti i filistei d'Europa ammiravano Bismarck allo stesso modo che fra il '50 e il ‘60 avevano ammirato il suo modello Luigi Bonaparte. La Germania, con l'aiuto della Russia, era diventata la prima potenza d'Europa, e tutta la potenza della Germania era nelle mani del dittatore Bismarck. Quello che ora importava era che cosa egli avrebbe saputo intraprendere con questa potenza. Se sinora aveva attuato i piani unitari della borghesia, seppure non con i mezzi della borghesia ma con i mezzi bonapartistici, questo tema ora era pressappoco esaurito: si trattava adesso di fare dei piani personali e di mostrare quali idee la sua testa era capace di produrre. E ciò doveva diventare palese nel compimento all'interno dell'edificio del nuovo impero.
 
La società tedesca si compone di grossi proprietari terrieri, contadini, borghesi, piccoli borghesi e operai, che a loro volta si raggruppano in tre classi principali.
 
La grande proprietà terriera è nelle mani di un piccolo numero di magnati (specialmente in Slesia) e di un gran numero di medi proprietari terrieri che risiedono più densamente che altrove nelle vecchie province prussiane ad oriente dell'Elba. Questi Junker prussiani sono anche coloro che più o meno dominano tutta la classe. Sono essi stessi agricoltori in quanto in gran parte fanno coltivare i loro beni servendosi di ispettori e inoltre, molto spesso, sono proprietari di distillerie di acquavite e di fabbriche di zucchero di barbabietola. Il loro possesso fondiario, quando se ne è offerta la possibilità, è stato fissato nella famiglia a titolo di maggiorascato. I figli cadetti entrano nell'esercito o nell'amministrazione dello Stato, cosicché a questa piccola nobiltà terriera è collegata una nobiltà ancora più piccola di ufficiali e funzionari la quale viene inoltre incrementata dalla forte fabbricazione di nobili tra gli ufficiali e funzionari borghesi. Al limite inferiore di tutta questa consorteria nobiliare si forma naturalmente una numerosa nobiltà parassitaria, un sottoproletariato nobiliare che vive di debiti, di giochi equivoci, di sfrontatezza, di mendicità e di spionaggio politico. Il complesso di questa società costituisce la casta degli Junker prussiani ed è uno dei principali sostegni del vecchio State prussiano. Ma il nucleo possidente di questa casta degli Junker poggia esso stesso su una base fragile. Il dovere di vivere come si conviene al proprio ceto diventa ogni giorno più costoso; il sostentamento dei figli cadetti fino a che abbiano raggiunto il grado di sottotenenti e di assessori, la sistemazione delle figlie, tutto ciò costa denaro e poiché tutti questi sono doveri di fronte ai quali ogni altra considerazione deve tacere, nessuna meraviglia che le entrate non bastino, che si firmino cambiali o che si accendano ipoteche. In breve, gli Junker stanno sempre sull'orlo dell'abisso; qualsiasi calamità, guerra, cattivo raccolto o crisi commerciale che sia minaccia di farveli precipitare e quindi non c'è da meravigliarsi affatto se da cento anni buoni essi sono stati salvati dalla rovina solo con aiuti statali di ogni genere e se in realtà continuano a esistere solo grazie a questi aiuti. Questa classe mantenuta solo artificialmente è votata alla rovina; nessun aiuto statale può alla lunga mantenerla in vita. Ma con essa sparisce anche il vecchio Stato prussiano.
 
II contadino è politicamente un elemento poco attivo. Se esso stesso è proprietario, va sempre più declinando per via delle sfavorevoli condizioni di produzione del contadino parcellare spogliato della vecchia marca comune o del pascolo comune, senza i quali non gli è possibile l'allevamento del bestiame. Se è fittavolo sta ancora peggio. La piccola conduzione contadina presuppone la preponderanza dell'economia naturale; con l'economia monetaria va in rovina. Ne risultano: indebitamento crescente, espropriazione in massa per opera dei creditori ipotecari, industria a domicilio, cui il contadino ricorre per non essere cacciato completamente dalla terra. Politicamente il ceto dei contadini è per lo più indifferente o reazionario: sul Reno è ultramontano per vecchio odio antiprussiano, in altre regioni è particolarista o conservatore protestante. Il sentimento religioso in questa classe vale ancora come espressione di interessi sociali o politici.
 
Della borghesia abbiamo già trattato. Dal 1848 fu presa da uno slancio economico inaudito. La Germania ha partecipato in misura sempre crescente all'estensione colossale dell'industria dopo la crisi commerciale del 1847, determinata dal sorgere, in questo periodo, di una navigazione oceanica a vapore, dall'enorme estensione delle strade ferrate e dai tesori d'oro della California e dell'Australia. Proprio la sua pressione per l'eliminazione degli ostacoli allo scambio connessi al sistema dei piccoli Stati e per una parità di posizione sul mercato mondiale rispetto ai concorrenti stranieri aveva posto in moto la rivoluzione di Bismarck. Ora che i miliardi francesi hanno inondato la Germania, si è aperto per la borghesia un nuovo periodo di febbrile attività industriale, nella quale essa per la prima volta, attraverso una crisi nazionale tedesca, si è dimostrata grande nazione industriale. La borghesia era già allora la classe economicamente più potente della popolazione e lo Stato doveva obbedire ai suoi interessi economici; la rivoluzione del 1848 aveva dato allo Stato quella forma esteriore costituzionale nella quale essa poteva dominare anche politicamente e perfezionare il suo dominio. Tuttavia essa era ancora molto lontana dall'effettivo dominio politico. Nel conflitto non era stata vittoriosa contro Bismarck; l'eliminazione del conflitto mediante la rivoluzione dall'alto fatta in Germania le aveva inoltre insegnato che per il momento il potere esecutivo dipendeva da essa ancora soltanto molto indirettamente, che essa non poteva né deporre né imporre ministri e neppure disporre dell'esercito. Inoltre essa era vile e inetta di fronte a un potere esecutivo energico, ma lo erano anche gli Junker, ed essa aveva più scuse di loro per via del suo antagonismo economico con la classe operaia rivoluzionaria dell'industria. Ma era certo che la casta degli Junker a poco a poco sarebbe stata necessariamente annientata dal punto di vista economico e che la borghesia era, tra tutte le classi abbienti, l'unica che avesse ancora una prospettiva per l'avvenire.
 
La piccola borghesia in primo luogo era composta dai resti dell'artigianato medievale, i quali nella Germania, rimasta per lungo tempo arretrata, erano più copiosamente rappresentati che nel resto dell'Europa occidentale; in secondo luogo, da borghesi decaduti; in terzo luogo, da elementi della popolazione non abbiente che si erano elevati al piccolo commercio. Con l'estensione della grande industria, l'esistenza della piccola borghesia nel suo complesso perdette gli ultimi resti di stabilità; cambiamenti di mestiere e fallimenti divennero la regola. Questa classe precedentemente tanto stabile, che aveva costituito il reparto scelto del filisteismo tedesco, scivolava dal precedente stato di appagamento, di docilità, di servilismo, di bigotteria e di onorabilità, in uno stato di disordine caotico e di scontento per la sorte assegnatale da Dio. I resti dell'artigianato reclamavano a gran voce la restaurazione dei privilegi corporativi; quanto agli altri, una parte diventava mitemente democratico-progressista, un'altra parte si avvicinava perfino alla socialdemocrazia e a volte aderiva senz'altro al movimento operaio.
 
Finalmente gli operai. Degli operai delle campagne, almeno quelli delle zone orientali continuavano sempre a vivere in uno strato di semiservitù della gleba e non erano capaci di discernimento. Per contro, tra gli operai di città la socialdemocrazia aveva fatto progressi impetuosi e si ingrandiva nella misura in cui la grande industria proletarizzava le masse popolari e in questo modo spingeva al culmine l'antagonismo di classe tra capitalisti e operai. Se anche per il momento gli operai socialdemocratici erano ancora divisi in due partiti che si combattevano [36], dalla pubblicazione del Capitale di Marx l'antagonismo di principio tra l'uno e l'altro partito era press'a poco scomparso. Il lassallismo di stretta osservanza con la sua rivendicazione esclusiva di «cooperative di produzione sovvenzionate dallo Stato», andava a poco a poco spegnendosi e si dimostrava sempre più inadatto a costituire il nucleo di un partito operaio per un socialismo di Stato bonapartista. Agli errori che singoli capi avevano compiuto sotto questo rispetto riparava ancora una volta il buon senso delle masse. L'unificazione delle due correnti socialdemocratiche, ritardata ancora quasi soltanto da questioni personali, era certa per un prossimo avvenire. Ma già, durante e nonostante la divisione, il movimento era abbastanza forte per far paura alla borghesia industriale e paralizzarla nella sua lotta contro il governo ancora indipendente da essa; del resto dal 1848 la borghesia tedesca in generale non si era mai | liberata dallo spettro rosso.
 
Questa distribuzione delle classi era alla base della distribuzione dei partiti nel parlamento e nelle assemblee locali. La grande proprietà fondiaria e una parte dei contadini costituivano la massa dei conservatori; la borghesia industriale forniva l'ala destra del liberalismo borghese: i nazionali liberali; mentre l'ala sinistra - l'affievolito partito democratico, ossia il cosiddetto partito progressista - era costituita dai piccoli borghesi sostenuti da una parte sia della borghesia che degli operai. Gli operai in fine avevano nella socialdemocrazia il loro partito indipendente, e ad essa appartenevano anche dei piccoli borghesi.
 
Un uomo nella posizione di Bismarck e col passato di Bismarck doveva capire, se aveva una qualche intelligenza dello stato delle cose, che gli Junker, quali essi erano, non costituivano una classe vitale, che di tutte le classi abbienti solo la borghesia poteva aspirare a un avvenire e che perciò (prescindendo dalla classe operaia di cui non pretendiamo che egli potesse comprendere la missione storica) il suo nuovo impero prometteva un'esistenza tanto più sicura quanto più egli gradualmente ne preparava il passaggio a uno Stato borghese moderno. Non aspettiamoci da lui niente di ciò che gli era impossibile date le circostanze. Un passaggio immediato a un governo parlamentare col potere decisivo nel Reichstag (come nella Camera bassa inglese) non era possibile e neppure consigliabile per il momento; a Bismarck la propria dittatura in forme parlamentari doveva sembrare in un primo tempo ancora necessaria; noi non gliene vogliamo affatto se in un primo tempo la fece sussistere; chiediamo semplicemente a che cosa doveva servire. E in questo caso, difficilmente si può dubitare che l'avviamento ad uno stato di cose corrispondente a una Costituzione inglese non fosse l'unica via che offrisse la prospettiva di assicurare al nuovo impero una base solida e uno sviluppo interno tranquillo. Abbandonando all'imminente rovina la maggior parte dei suoi Junker,-del resto insalvabile, sembrava pur sempre possibile far sì che col resto e con nuovi elementi si costituisse una classe di grandi proprietari terrieri indipendenti che sarebbe stata solo il fastigio ornamentale della borghesia; una classe alla quale la borghesia, anche nel pieno godimento della sua potenza, avrebbe dovuto lasciare la rappresentanza statale e quindi i posti più pingui e un'influenza molto grande. Facendo alla borghesia quelle concessioni politiche che non potevano alla lunga esserle ancora rifiutate (così si doveva giudicare, almeno dal punto di vista delle classi abbienti), facendole queste concessioni a poco a poco e anche a dosi piccole e rare, si metteva il nuovo impero almeno sulla via in cui poteva raggiungete gli altri Stati dell'Europa occidentale, rispetto ad esso politicamente molto avanzati, in cui finalmente avrebbe scosso gli ultimi resti sia del feudalesimo che della tradizione filistea, che ancora dominava fortemente nella burocrazia; e anzitutto sarebbe stato messo in condizioni di reggersi sulle proprie gambe il giorno in cui i suoi fondatori, che non erano affatto giovani, avrebbero chiuso la loro vita.
 
E questa cosa non era neppure difficile. Né gli Junker né i borghesi avevano una sia pur mediocre energia. Gli Junker lo avevano dimostrato dopo sessant'anni che lo Stato realizzava i loro propri interessi contro l'opposizione di questi don Chisciotte. La borghesia del pari, resa malleabile da una: lunga preistoria, aveva ancora nel midollo delle ossa il conflitto; da allora i successi di Bismarck spezzarono ancora di più lasua forza di resistenza, e il resto lo fece la paura del movimento operaio che cresceva minacciosamente. In queste circostanze per l'uomo che aveva realizzato i voti nazionali della borghesia, non poteva essere difficile, realizzando i voti politici della borghesia, nel complesso già molto modesti, tenere quel ritmo che gli fosse piaciuto. Doveva soltanto avere una chiara coscienza del fine.
 
Dal punto di vista delle classi abbienti, questa era la sola cosa razionale. Dal punto di vista della classe operaia, si capisce certamente che era già troppo tardi per l'istituzione di durevole dominio della borghesia. La grande industria, e con essa la borghesia e il proletariato, si formarono in Germania in un tempo in cui era possibile al proletariato entrare nella scena politica in modo indipendente, quasi contemporaneamente alla borghesia, in cui quindi la lotta delle due classi comincia già prima che la borghesia si sia conquistato il potere politico esclusivo o prevalente. Ma se anche in Germania è troppo tardi perun dominio tranquillo e saldamente fondato della borghesia, anche nel 1870 la migliore politica nell'interesse delle classi abbienti in generale era sempre quella di puntare su questo dominio della borghesia. Infatti solo cosi era possibile eliminare i copiosi resti del feudalesimo in dissolvimento che pullulavano ancora nella legislazione e nell'amministrazione. Solo cosi era possibile rendere a poco a poco familiari in Germania i risultati complessivi della grande rivoluzione, in breve, tagliare alla Germania il vecchio e gigantesco codino e condurla coscientemente e definitivamente sulla via dello sviluppo moderno, adattare le sue condizioni politiche alle sue condizioni industriali. Se poi sopraggiungeva finalmente la lotta inevitabile tra borghesia e proletariato, essa si sarebbe effettuata per lo meno in circostanze normali in cui ciascuno poteva vedere di che cosa si trattava e non con quella confusione, con quella oscurità, con quell'intreccio di interessi e con quella perplessità che abbiamo visto nel 1848 in Germania. Con la sola differenza che questa volta la perplessità sarà esclusivamente dalla parte delle classi abbienti, la classe operaia sa quello che vuole.
 
Cosi come stavano le cose in Germania nel 1871, un uomo come Bismarck era effettivamente votato a una politica di compromessi tra le diverse classi. E sin qui non c'è da fargliene rimprovero. Quello che importa è il fine al quale era indirizzata questa politica. Se andava, non importa con che ritmo, ma coscientemente e risolutamente, verso l'esclusivo dominio della borghesia, essa era in accordo con lo sviluppo storico, nella misura in cui poteva esserlo dal punto di vista delle classi abbienti in generale. Se andava verso il mantenimento del vecchio Stato prussiano, verso la progressiva prussificazione della Germania, era reazionaria e condannata al fallimento finale. Se andava verso la semplice conservazione del dominio di Bismarck, era bonapartista e doveva finire come ogni bonapartismo.
 
Il compito immediato era la Costituzione dell'impero. Come materiale c'erano da una parte la Costituzione della Confederazione germanica del nord e dall'altra i trattati con gli Stati della Germania meridionale. I fattori con l'aiuto dei quali Bismarck doveva chiamare in vita la Costituzione dell'impero erano, da una parte, le dinastie rappresentate nel Consiglio federale e, dall'altra, il popolo rappresentato nel Reichstag. Alle pretese delle dinastie si era messo un limite nella Costituzione della Germania del nord e nei trattati. Il popolo invece pretendeva che la sua partecipazione al potere politico fosse considerevolmente accresciuta. Sul campo di battaglia esso si era sbarazzato dell'ingerenza straniera e si era conquistata l'unità, nella misura in cui se ne poteva parlare; esso era anche, prima di tutto, chiamato a decidere per che cosa dovesse essere utilizzata questa indipendenza dallo straniero e in che modo questa unità dovesse in particolare essere realizzata e sfruttata. E anche se il popolo riconosceva il fondamento giuridico della Costituzione della Germania del nord e dei trattati, questo tuttavia non impediva affatto che con la nuova Costituzione esso avesse modo, più di prima, di partecipare al potere. Il Reichstag era l'unico organismo che rappresentava veramente la nuova «unità». Quando più peso avevano i voti del Reichstag, quanto più libera era la Costituzione dell'impero di fronte alle Costituzioni regionali, tanto più il bavarese, il sassone, il prussiano dovevano fondersi nel tedesco.
 
Per ogni uomo che avesse visto al di là del proprio naso, la cosa doveva essere evidente. Ma l'opinione di Bismarck non era affatto questa. Al contrario, egli sfruttò l'ebbrezza patriottica subentrata dopo la guerra precisamente per portare la maggioranza del Reichstag a rinunciare non solo a ogni estensione, ma anche a ogni precisazione dei diritti del popolo e a limitarsi a dare alla Costituzione dell'impero semplicemente lo stesso fondamento giuridico che avevano la Costituzione della Germania del nord e i trattati. Tutti i tentativi dei piccoli partiti di dare qui un'espressione ai diritti di libertà del popolo furono respinti, compresa la proposta del Centro cattolico di inserire gli articoli della Costituzione prussiana che garantivano la libertà di stampa, di riunione e di associazione nonché l'indipendenza della Chiesa. La Costituzione prussiana, per quanto duplicemente e triplicemente mutilata, continuava ad essere dunque più liberale della Costituzione dell'impero. Le imposte furono votate non annualmente, ma una volta per tutte «con una legge», cosicché il Reichstag non poteva opporsi a nessuna imposta. Così veniva applicata alla Germania quella dottrina prussiana, incomprensibile al mondo costituzionale non tedesco, secondo cui la rappresentanza popolare ha solo il diritto di rifiutare le spese sulla carta, mentre il governo intasca le entrate in moneta sonante. Ma mentre il Reichstag viene cosi privato dei migliori strumenti della sua potenza e abbassato all'umile posizione della Camera prussiana, spezzata con le revisioni del 1849 e del 1850 dalla cricca di Manteuffel, dal conflitto e da Sadowa, il Consiglio federale gode in sostanza di tutti i pieni poteri che la vecchia Dieta federale possedeva nominalmente e ne gode in realtà essendo stato liberato da tutti quei vincoli che paralizzavano la Dieta federale. Il Consiglio federale non ha solo, accanto al Reichstag, un voto decisivo in materia di legislazione, ma è anche la più alta istanza amministrativa in quanto promulga le disposizioni per l'esecuzione delle leggi dell'impero e decide inoltre quando «si presentino deficienze ... nell'esecuzione delle leggi dell'impero», deficienze, cioè, cui in altri paesi civili può porre rimedio solo una nuova legge (articolo 7, all. 3, che rassomiglia molto a un caso di conflitto giuridico).
 
Cosicché Bismarck ha cercato il suo principale appoggio non nel Reichstag, che rappresenta l'unità nazionale, ma nel Consiglio federale, che rappresenta lo spezzettamento particolaristico. Non ha avuto il coraggio, egli che si dava l'aria di rappresentante dell'idea nazionale, di porsi veramente alla testa della nazione o dei suoi rappresentanti; egli doveva servirsi della democrazia, non servirla; piuttosto che sul popolo egli ha fatto assegnamento sulle manovre condotte dietro le quinte, sulla capacità di mettere insieme mediante mezzi diplomatici - il bastone e la carota - una maggioranza sia pure riluttante nel Consiglio federale. La meschinità della concezione, la grettezza del punto di vista che qui ci si rivela, corrisponde perfettamente al carattere dell'uomo, quale sinora abbiamo imparato a conoscerlo. Tuttavia possiamo meravigliarci che i suoi grandi successi non abbiano potuto, almeno per un istante, elevarlo al di sopra di se stesso.
 
Ma le cose stavano in modo che la preoccupazione fu di dare a tutta la Costituzione dell'impeto un unico fermo cardine, ossia il cancelliere dell'impero. Il Conscio federale doveva occupare una posizione che rendesse impossibile un altro potere esecutivo responsabile che non fosse quello delcancelliere dell'impero, e che perciò escludesse la possibilità di ammettete ministri imperiali responsabili. In effetti tutti i tentativi di regolare l'amministrazione dell'impero costituendo un ministero responsabile urtarono contro una resistenza insormontabile, come attacchi ai diritti del Consiglio federale. La Costituzione era, come si scopri presto, «tagliata su misura» per Bismarck. Era un passo avanti sulla via della sua dittatura personale mediante un bilanciamento dei partiti nel Reichstag e degli Stati particolari nel Consiglio federale: era un passo avanti sulla via del bonapartismo.
 
Del resto non si può dire che, prescindendo da singole concessioni alla Baviera e al Württemberg, la nuova Costituzione costituisse un netto regresso. Ma questo è anche il meglio che si possa dire. I bisogni economici della borghesia erano essenzialmente soddisfatti; alle sue pretese politiche, nella misura in cui essa ancora ne accampava, si opponeva lo stesso veto che al tempo del conflitto.
 
Nella misura in cui ancora accampava pretese politiche. Poiché è innegabile che nelle mani dei nazional-liberali queste pretese si erano rattrappite sino a raggiungere dimensioni molto modeste, e sempre, di giorno in giorno, si rattrappivano di più. Questi signori, ben lungi dall'esigere che Bismarck rendesse più facile la loro cooperazione con lui, tendevano piuttosto ad essere proni al suo volere quando ciò era possibile e, molte volte, anche quando non era o non avrebbe dovuto essere possibile. Se Bismarck li disprezzava, nessuno può volergliene; ma i suoi Junker erano di un solo capello migliori o più virili?
 
Il settore più prossimo in cui l'unità dell'impero rimaneva da costruire, il sistema monetario, fu ordinato mediante le leggi sulla moneta e le banche dal 1873 al 1875. L'introduzione del monometallismo fu un progresso considerevole ma esso fu introdotto solo con esitazioni e ondeggiamenti e anche oggi non si regge ancora su solide basi. Il sistema monetario adottato, il terzo di tallero col nome di marco e con suddivisioni decimali, era il sistema proposto da Soetbeer verso il '40; la moneta che serviva effettivamente da unità era il pezzo da venti marchi oro. Con una modificazione quasi insensibile del valore, lo si poteva rendere assolutamente equivalente o alla sovrana d'oro o al pezzo da venticinque franchi oro o al pezzo da cinque dollari oro; americano e acquistare così un legame con uno dei tre grandi sistemi monetari del mercato mondiate. Si preferì creare un sistema monetario a parte e rendere cosi, senza necessità, più difficili lo scambio e il conteggio dei corsi. Le leggi sui buoni di cassa dell'impero e sulle banche mettevano un limite agli imbrogli con la moneta cartacea dei piccoli Stati e delle banche dei piccoli Stati e rivelavano, in considerazione della crisi che frattanto era sopravvenuta, una certa timidezza che ben conveniva alla Germania non ancora sperimentata in questo campo. Anche qui gli interessi della borghesia venivano nell'insieme salvaguardati in modo conveniente.
 
Infine si dovevano ancora concordare le leggi sulla giustizia. La resistenza degli Stati medi all'estensione della competenza dell'impero anche al diritto civile materiale fu superata; il codice civile è però ancora in gestazione, mentre il codice penale, la procedura penale e civile, il diritto commerciale, la procedura fallimentare e la costituzione dei tribunali sono regolati unitariamente. L'eliminazione delle variopinte norme giuridiche formali e materiali dei piccoli Stati era già in se stessa un bisogno urgente dello sviluppo della borghesia, e in questa eliminazione, molto più che nel loro contenuto, consiste il merito principale delle nuove leggi.
 
Il giurista inglese si appoggia su una storia giuridica che ha salvato attraverso il medioevo una parte considerevole della vecchia libertà germanica, che non conosce lo Stato di polizia soffocato in germe nelle due rivoluzioni del diciassettesimo secolo e che culmina in due secoli di costante sviluppo della libertà borghese. Il giurista francese poggia sulla grande rivoluzione che, dopo la totale distruzione del feudalesimo e dell'arbitrio poliziesco assolutistico, ha tradotto nel linguaggio delle norme giuridiche del suo classico codice proclamato da Napoleone le condizioni economiche di vita della società moderna di recente costituita. Per contro, qual è il fondamento storico dei nostri giuristi tedeschi? Nient'altro che il secolare processo di distruzione dei resti del medioevo, processo passivo, per lo più spinto in avanti da colpi inferti dell'esterno e non ancora compiuto; una società rimasta economicamente arretrata, in cui gli Junker feudali e i maestri delle corporazioni si aggirano come spettri che cercano un nuovo corpo; una situazione giuridica in cui l'arbitrio poliziesco fa giornalmente capolino, anche se la giustizia di gabinetto dei principi è scomparsa nel 1848. Da queste scuole, peggiori di ogni cattiva scuola, sono sorti i padri dei nuovi codici dell'impero, e il lavoro è precisamente in conformità. A parte l'aspetto puramente giuridico, da questi codici la libertà politica esce abbastanza malconcia. Se i tribunali costituiti da scabini danno in mano alla borghesia e alla piccola borghesia un mezzo per cooperare a tenere sottomessa la classe operaia, lo Stato si protegge il più possibile dal pericolo di una rinnovata opposizione borghese mediante la limitazione dei tribunali dei giurati. I paragrafi politici dei codici penali sono abbastanza spesso di un'imprecisione e di un'elasticità tali che essi sembrano fatti su misura per il tribunale imperiale di oggi e questo sembra fatto per loro. Che i nuovi codici siano un progresso di fronte al diritto civile prussiano è evidente: lo stesso Stöcker non riuscirebbe più al giorno d'oggi a fare un orrore simile a questo codice neppure se si facesse circoncidere. Ma le province che sinora hanno avuto il diritto francese sentono anche troppo la differenza tra la copia sbiadita e il classico originale. I nazional-liberali abbandonando il loro programma hanno reso possibile questo rafforzamento del potere statale a spese della libertà borghese: questo primo effettivo regresso.
 
C'è ancora da ricordare la legge imperiale sulla stampa. Il codice penale aveva già regolato per l'essenziale la materia giuridica in questione; l'introduzione di eguali condizioni formali per tutto l'impero e l'abolizione delle cauzioni e dei bolli ancora sporadicamente esistenti hanno formato quindi il contenute principale di questa legge e al tempo stesso l'unico progresso che così si è realizzato.
 
Perché ancora una volta la Prussia si dimostri un vero Stato modello, vi si è introdotta quella che si chiama «autonomia amministrativa». Si trattava di abolire i resti più urtanti del feudalesimo e, tuttavia, lasciare sostanzialmente nel vecchio stato tutto ciò che era possibile. A questo servì l'ordinamento circondariale. II potere di polizia signorile dei signori Junker era diventato un anacronismo. Esso è stato soppresso di nome come privilegio feudale e di fatto ristabilito con la creazione dei distretti fondiari autonomi all'interno dei quali il proprietario del fondo, o è esso stesso capo del fondo con le competenze di un capo di una comunità rurale, o nomina questo capo; e inoltre col conferimento di tutto il potere di polizia e della giurisdizione di polizia di un distretto ad un capo distretto che in campagna era naturalmente, quasi senza eccezioni, un grande proprietario terriero e perciò teneva sotto la sua sferza anche le comunità rurali. Il privilegio feudale del singolo è stato abolito mentre la pienezza di poteri che vi era connessa è stata data all'intera classe. Con un gioco di bussolotti analogo i grandi proprietari terrieri inglesi si sono trasformati in giudici di pace e capi degl'amministrazione, della polizia e della bassa giurisdizione nelle campagne, e cosi:, con un titolo rammodernato, hanno fatto in modo da poter godere ancora di tutte quelle essenziali posizioni di comando che invece non potevano più mantenersi nella vecchia forma feudale. Ma questa è anche l'unica analogia tra l'«autonomia amministrativa» inglese e quella tedesca. Vorrei vedere il ministro inglese che osasse proporre in parlamento la convalida dei funzionari municipali eletti e la loro sostituzione con supplenti imposti dal governo in caso di elezioni non conformi ai desideri, l'introduzione di funzionari statali aventi i pieni poteri dei consigli provinciali, dei governi distrettuali e dei presidenti regionali prussiani, l'ingerenza, prevista nell'ordinamento circondariale, dell'amministrazione statale negli affari interni dei comuni, dei mandamenti e dei circondari e magari, cosa inaudita nei paesi di lingua e di diritto inglese, la soppressione del ricorso giudiziario quale si trova quasi in ogni pagina della organizzazione circondariale. E mentre tanto le Diete circondariali che le Diete provinciali sono ancora composte sempre all'antica maniera feudale da rappresentanti dei tre stati: grandi proprietari terrieri, città e comunità turali, in Inghilterra perfino un ministero fortemente conservatore presenta un progetto di legge che trasferisce l'intera amministrazione delle contee ad autorità elette a suffragio quasi universale [37].
 
La proposta di ordinamento circondariale per le sei province orientali (1871) fu il primo indice del fatto che Bismarck non pensava alla fusione della Prussia con la Germania, ma, al contrario, a un ulteriore rafforzamento della solida cittadella del vecchio prussianesimo, costituita precisamente da queste sei province orientali. Con nomi mutati gli Junker mantennero tutte le essenziali posizioni di comando, e gli iloti della Germania, i lavoratori agricoli di quei territori - sia servi che giornalieri - rimasero nella loro precedente effettiva servitù, ammessi soltanto a due funzioni pubbliche: diventar soldati e servire da gregge elettorale agli Junker nelle elezioni al Reichstag. Il servizio che in questo modo Bismarck ha reso al partito socialista rivoluzionario è indescrivibile e meritevole di ogni ringraziamento.
 
Ma che cosa dire della stupidità dei signori Junker che hanno recalcitrato con tutti i loro mezzi, come dei bambini maleducati, contro questo ordinamento circondariale elaborato unicamente nel loro interesse, nell'interesse della più lunga conservazione dei loro privilegi feudali? La Camera prussiana dei pari, o piuttosto degli Junker, ha dapprima respinto questa proposta che si era trascinata per un anno e la ha adottata solo dopo un'infornata di 24 nuovi «pari». Con ciò gli Junker prussiani dimostrarono ancora una volta di essere dei reazionari meschini, incalliti, irrecuperabili, incapaci di formare il nocciolo di un grande partito indipendente con una missione storica nella vita della nazione, come in realtà fanno i grandi proprietari terrieri inglesi. Hanno cosi confermato la loro totale mancanza di intelletto. A Bismarck non rimaneva che da mostrare a tutto il mondo la loro mancanza parimenti completa di carattere, e una piccola pressione convenientemente esercitata li trasformò in un partito Bismarck sans phrase [38].
 
A questo doveva servire il Kulturkampf [39].
 
La realizzazione del piano imperiale tedesco-prussiano doveva avere come contraccolpo l'unificazione in un partito di tutti gli elementi antiprussiani che poggiavano sul precedente sviluppo particolaristico. Questi elementi variopinti trovarono una bandiera comune nell'ultramontanismo. La ribellione del senso comune, anche presso innumerevoli cattolici ortodossi, contro il dogma dell'infallibilità papale da una parte e la distruzione dello Stato pontificio e la cosiddetta prigionia del papa a Roma dall'altra resero necessaria una concentrazione più stretta di tutte le forze militanti del cattolicesimo. Così già durante la guerra, nell'autunno del 1870, si costituì nella Dieta prussiana il partito specificamente cattolico del Centro; esso comparve nel primo Reichstag tedesco nel 1871 con soli 57 uomini, ma si rafforzò ad ogni nuova consultazione elettorale sino a superare il centinaio. Era composto di elementi molto disparati. In Prussia la sua forza principale risiedeva nei piccoli contadini renani, che continuavano sempre a considerarsi come «prussiani per forza»; inoltre nei grandi proprietari terrieri e nei contadini cattolici dei vescovati vestfalici di Münster e di Paderborn e nei cattolici della Slesia. Il secondo grande contingente era fornito dai cattolici della Germania meridionale e specialmente dai bavaresi. Ma la forza del Centro risiedeva molto meno nella religione cattolica che nel fatto che esso rappresentava le antipatie delle masse popolari contro lo specifico prussianesimo che ora pretendeva al dominio sulla Germania. Queste antipatie erano particolarmente sentite nelle regioni cattoliche, e ad esse si aggiungevano inoltre le simpatie per l'Austria, ora estromessa dalla Germania. In armonia con queste due correnti popolari il Centro era decisamente particolarista e federalista.
 
Questo carattere essenzialmente antiprussiano del Centro fu subito riconosciuto dalle altre piccole frazioni del Reichstag, che erano antiprussiane per motivi locali, e non per motivi nazionali e generali come i socialdemocratici. Non soltanto i polacchi e gli alsaziani cattolici, ma anche i guelfi protestanti si unirono in stretta alleanza col Centro. E sebbene le frazioni borghesi-liberali non avessero mai avuto chiaro il vero carattere dei cosiddetti ultramontani, tuttavia mostrarono di avere un certo sentore del giusto stato di cose quando qualificarono il Centro come «privo di patria» e «nemico dell'impero» [40].
 

Appendice
 
Schizzo della parte conclusiva del quarto capitolo
 
I.
 
Tre classi: due pidocchiose, di cui una in decadenza, l'altra in ascesa, e gli operai che vogliono solo fair play borghese. Barcamenarsi quindi solo tra le due ultime è giusto - ma no! Politica: rafforzare il potere dello Stato in generale e specialmente renderlo pecuniariamente indipendente (statalizzazione delle ferrovie, monopoli) - Stato di polizia e giustizia secondo il diritto civile.
 
«Liberale » e « nazionale », la duplice natura del 1848 continua ancora in Germania dal 1870 al 1888.
Bismarck si doveva appoggiare al Reichstag e al popolo e per questo, non fosse che al fine di orientarsi, necessità di una piena libertà di stampa, di parola, di riunione, di associazione.
 
II.
 
- 1. Costruzione
-- a) -Dal punto di vista economico, già una cattiva legge monetaria.
-- b) Dal punto di vista politico, ristabilimento dello Stato di polizia e leggi giudiziarie antiborghesi del 1876, brutta copia di quelle francesi. Imprecisioni del diritto civile. La corte imperiale ne è il colmo. 1879.
 
- 2. Mancanza di idee provata da infantilismo e dalla querela di Bismarck
-- a) Kulturkampf. Il parroco cattolico né gendarme né poliziotto. Giubilo della borghesia. Non c'è speranza. Andata a Canossa. Unico risultato razionale: il matrimonio civile!
 
- Partito Bismarck sans phrase.
 
- 3. Truffa e crisi. Sue suddivisioni. Pidocchiosità degli Junker conservatori che sono privi di onore al pari: dei borghesi.
 
- 4. Perfetta trasformazione [di Bismarck] in Junker.
-- a) Protezionismo ecc. Coalizione! di borghesi e Junker, parte! del leene di questi ultimi.
-- b) Tentativo di un monopolio dei tabacchi respinto nel 1882.
-- c) Truffa coloniale.
 
- 5. Politica sociale alla Bonaparte.
-- a) Legge contro i socialisti e distruzione delle associazioni e delle casse operaie.
-- b) Infime riforme sociali.
 
III.
 
- 6. Politica estera. Pericolo di guerra, effetto delle annessioni. Incremento dell'esercito. Settennio. Compiuto il periodo, ritorno alle classi di prima del 1870 per assicurare la superiorità ancora per qualche anno.
 
IV.
 
Risultato
- a) Una situazione interna che va in rovina con la morte di quel paio di persone [41]. Non c'è impero senza imperatore! Il proletariato spinto alla rivoluzione, una espansione della socialdemocrazia in occasione dell'abolizione della legge contro i socialisti quale mai si era vista: il caos.
- b) Una pace peggiore della guerra, il risultato di tutto ciò — nel migliore del casi; oppure una guerra mondiale.
 


[1] Allusione alla celebre frase pronunciata da Bìsmarck nel 1862 dinanzi al parlamento prussiano: « Non con discorsi, né con deliberazioni della maggioranza si risolvono i grandi problemi della nostra epoca - fu questo il grave errore del 1848-49 - bensì col sangue e col ferro».
[2] Alessandro I.
[3] Nicola I.
[4] II congresso di Vienna del 1815 aveva fatto collegare tutti i trentasei Stati tedeschi in una Confederazione germanica che aveva il suo organo nella Dieta federale con sede a Francoforte sul Meno. Questa assemblea era composta dei rappresentanti dei singoli Stati ed era sotto la presidenza permanente del rappresentante dell'imperatore d'Austria.
[5] Nel manoscritto di Engels si trova, a questo punto, una annotazione a matita: «Weerth», Georg Weerth, poeta rivoluzionano e amico di Marx ed Engels, aveva, come viaggiatore di commercio, girato molto per il mondo. Probabilmente Engels voleva in seguito utilizzare in questo luogo del manoscritto altre notizie caratteristiche fornitegli da Weerth.
[6] Dalla Mosa sino a Memel, / dall'Adige sino al Baltico, / Germania, Germania sopra tutto, / sopra tutto nel mondo (strofa del Lied des Deutscben di Hoffmann von Fallersleben, che in seguito divenne l'inno nazionale tedesco).
[7] In margine Engels ha annotato: «Pace di Vestf. e di Tesch.». La pace di Vestfalia conclusa il 24 ottobre 1648 poneva termine alla guerra dei trent'anni. Le gelosie meschine dei principi tedeschi dettero modo alla Francia di ergersi a giudice nelle questioni interne tedesche. La pace di Teschen del 13 maggio 1779 pose termine alla guerra di successione bavarese; in questa occasione Federico II, per indebolire l'Austria, sottomise la Germania al volere della Russia.
[8] L'atto che passa sotto il nome di Reichsdeputationshauptschluss (deliberazione della deputazione imperiale, 25 febbraio 1803) segnò la secolarizzazione degli Stati ecclesiastici e la scomparsa di quelli minori; 112 enti statali perdettero la loro anacronistica sovranità e furono assorbiti dai maggiori organismi politici contermini,
[9] Qui Engels ha aggiunto a margine a matita: «Germania-Polonia».
[10] La guerra di Crimea fu tutta una colossale commedia degli errori, in cui ad ogni nuova scena ci si chiede: e ora chi deve essere gabbato? Ma la commedia costò tesori inestimabili e un milione abbondante di vite umane. Si era appena iniziata la lotta, che l'Austria avanzava nei principati danubiani; i russi si ritirarono davanti ad essa. In questo modo, finché l'Austria rimaneva neutrale, era resa impossibile una guerra ai confini territoriali russi dalla parte della Turchia. Ma per avere l'Austria come alleata in una guerra a questi confini, la condizione era che la guerra fosse condotta seriamente per ricostituire la Polonia e far arretrare durevolmente i confini occidentali della Russia. Allora anche la Prussia, attraverso la quale la Russia riceveva ancora tutti i suoi approvvigionamenti, sarebbe stata obbligata a parteciparvi; la Russia sarebbe stata bloccata per terra e per mare e avrebbe ben presto dovuto soccombere. Ma gli alleati non volevano una cosa del genere. Essi furono al contrario lieti di aver evitato ogni pericolo di guerra seria. Palmerston propose di trasferire il teatro della guerra in Crimea, cosa che la Russia desiderava, e Luigi Napoleone acconsenti ben volentieri. La guerra qui poteva restare una guerra finta e tutti i principali interessati erano soddisfatti. Ma l'imperatore Nicola si mise in testa di fare la guerra sul serio dimenticando che quello che era per lui il terreno più favorevole per una guerra finta era, per una guerra sul serio, il più sfavorevole. La forza odia Russia nella difesa — la enorme estensione del suo territorio povero di rifornimenti, impraticabile e scarsamente popolato — si ritorce contro la Russia stessa in ogni guerra russa d'offensiva, e in nessun luogo come in Crimea. Le steppe russe meridionali, che avrebbero dovuto essere la tomba dell'aggressore furono la tomba delle armate russe che Nicola, con stupida brutalità, lanciò l'una dopo l’altra, l'ultima volta in pieno inverno, su Sebastopoli. E quando l'ultima colonna, messa insieme in gran fretta, armata a mala pena e miseramente approvvigionata, ebbe perduto due terzi degli effettivi durante la marcia (interi battaglioni morivano nelle tempeste di neve), e quel che rimaneva non era in grado di ricacciate il nemico dal territorio russo, allora la gonfia zucca vuota di Nicola si afflosciò miseramente e si avvelenò. Da questo momento la guerra riprese di nuovo il carattere di finta guerra e si giunse presto alla conclusione della pace (n.d.a.).
[11] Luigi Bonaparte nel 1848, durante il suo soggiorno in Inghilterra, si era arruolato volontariamente nelle file degli special constables (corpo di riserva di polizia formato da civili) e il 10 aprile 1848 avevapreso parte alla repressione della manifestazione operaia organizzata dai cartisti.
[12] Con disprezzo.
[13] A Basilea, il 5 aprile 1795, la Prussia concluse con la Francia una pace separata in cui ottenne il vescovato di Münster, ma dovette cedere i propri tenitori sulla riva sinistra del Reno. Questa pace provocò lo sfaldamento della prima coalizione antifrancese.
[14] Io e Marx ci siamo abbastanza spesso convinti sul posto che questa era in Renania la tendenza generale. Industriali della riva sinistra del Reno mi chiedevano fra l'altro come si sarebbe trovata la loro industria sotto la tariffa doganale francese (n.d.a.).
[15] In seguito alla pace di Presburgo i paesi della Germania occidentale e meridionale che facevano parte del Sacro romano impero furono riuniti nel luglio 1806 nella Confederazione renana sotto la protezione di Napoleone I.
[16] Credo di fare il vostro gioco; se mi vengono gli assi faremo a mezzo.
[17] La Rheiniscbe Zeitung del 1842 discuteva da questo punto divista la questione dell'egemonia prussiana. Gervinus mi disse fin dall'estate del 1843 a Ostenda: la Prussia deve porsi alla testa della Germania, per questo però sono necessarie tre cose: la Prussia deve dare una Costituzione, deve dare libertà di stampa e deve fare una politica estera che abbia un colore (n.d.a.).
[18] Ancora al tempo del Kttlturkampf alcuni industriali renani si lamentavano con me che, di operai per altri rispetti eccellenti, non potevano far dei sorveglianti, per mancanza di sufficienti cognizioni scolastiche. [A questo punto Engels ha annotato in margine: scuole medie per la borghesia] (n.d.a.).
[19] Che gran calamità / per Tschech il podestà / aver mancato a un passo / quest'uomo cosi grasso!
[20] Guglielmo I.
[21] Organo centrale della socialdemocrazia tedesca, fondato nel 1879 aZurigo.
[22] Feldmaresciallo prussiano autore di un diario.
[23] Federico Guglielmo.
[24] Alessandro II.
[25] Engels ha aggiunto a margine: «Divisione — linea del Meno». Con la pace di Praga del 23 agosto 1866 fu costituita da Bismarck la Confederazione germanica del nord che comprendeva tutti gli Stati a nord della cosiddetta linea del Meno ed era sotto la presidenza del re di Prussia. Non ne facevano parte perciò i quattro Stati della Germania meridionale (Württemberg, Baden, Assia granducale e Baviera) che però furono legati alla Prussia per mezzo di trattati segreti.
[26] Nota marginale di Engels: «Giuramento!». Evidentemente si tratta di una allusione all’incitamento di Bismarck a rompere il giuramento alle bandiere.
[27] I tre sovrani sono quelli dello Hannover, dell'Assia-Kassel, del Nassau; la città libera è Francoforte sul Meno. Questi Stati furono annessi alla Prussia dopo la guerra del 1866.
[28] August Bebel e Wilhelm Liebknecht.
[29] Già prima della guerra austriaca Bismarck, interpellato da un ministro di uno Stato medio per via della sua politica demagogica in Germania, gli rispose che a dispetto di tutti i discorsi avrebbe buttato fuori l'Austria dalla Germania e distrutto la Confederazione. «E voi credete che gli Stati medi assisteranno impassibili a tutto questo?» — «Voi Stati medi, voi non farete un bel niente», — «E che cosa faranno i tedeschi?» — «Allora li porterò a Parigi e li unificherò», (Raccontato a Parigi prima della guerra austriaca dal suddetto ministro e pubblicato durante quella guerra nel Mancbester Guardian dalla sua corrispondente da Parigi signora Crawford) (n.d.a.).
[30] L'8 luglio 1867 fu costituito il parlamento doganale che era formato da rappresentanti della Confederazione germanica del nord e da rappresentanti dei quattro Stati del sud e deliberava in materia di dazi e imposte indirette.
[31] Guglielmo III.
[32] Nell'ordinamento militare prussiano, il Landsturm, o milizia territoriale, formato dalle classi giovanissime e più anziane veniva adoperato in casi di necessità come rincalzo all'esercito attivo e alla Landwehr.
[33] Furono questi, i cannoni della guardia nazionale, non appartenenti allo Stato e proprio per questo non consegnati ai prussiani che Thiers il 18 marzo 1871 ordinò di rubare ai parigini, provocando così l'insurrezione dalla quale ebbe origine la Comune {n.d.a.).
[34] Da questo punto fino alle parole: «Bismarck aveva raggiunto» (cfr, più avanti, p. 98) mancano le parti corrispondenti dal manoscritto. Il testo mancante è ripreso dalla Neue Zeit, a. XIV (1895-96), pp. 772-776.
[35] si rimprovera a Luigi XIV di aver lasciato in piena pace le sue Camere di riunione in territori tedeschi che non gli appartenevano. Anche la più malevola invidia non può rimproverare una cosa del genere ai prussiani. Al contrario. Dopo che essi nel 1795 avevano fatto una pace separata violando direttamente la Costituzione imperiale e avevano riunito intorno a sé i loro piccoli vicini, egualmente infedeli, dietro la linea di demarcazione nella prima Confederazione della Germania del nord, sfruttarono la situazione difficile degli Stati imperiali della Germania meridionale, che ormai conducevano da soli la guerra assieme all'Austria, per tentativi di annessione in Franconia. Essi istituirono ad Ansbach e Bayreuth (che allora erano prussiane) Camere di riunione sul tipo di quelle di Luigi, elevarono pretese su di una serie di tenitori vicini rispetto alle quali quelle di Luigi erano luminosamente convincenti, E quando i tedeschi, battuti, indietreggiarono e i francesi entrarono in Franconia, i prussiani salvatori occuparono il territorio di Norimberga compresi i sobborghi fino alle mura della città e ottennero dai tremanti borghesucci di Norimberga un trattato (2 settembre 1796), per il quale la città si sottometteva al dominio prussiano alla condizione che non ... fossero mai ammessi degli ebrei entro le mura della città. Ma subito dopo l'arciduca Carlo avanzò di nuovo, sconfisse i francesi a Würzburg il 3 e il 4 settembre 1796 e così questo tentativo di inculcare la missione tedesca della Prussia ai cittadini di Norimberga andò in fumo (n.d.a.)
[36] L'Associazione generale degli operai tedeschi (lassalliani) e il Partito operaio socialdemocratico (eisenachiani) guidato da Bebele Liebknecht.
[37] Questo progetto di legge fu presentato al parlamento inglese dal governo Salisbury (1886-1892) nel marzo 1888, divenne legge nell'agosto 1888.
[38] Senza giti di parole.
[39] In italiano «lotta per la civiltà». Così fu chiamato il conflitto traBismarck e i liberali da una parte, e la Chiesa cattolica e il partite del Centro dall'altra.
[40] Qui il manoscritto si interrompe; su come Engels intendesse continuare questo capitolo, cfr. lo « Schizzo della parte conclusiva del quarto capitolo» riportato qui in appendice.
[41] Bismarck e l'imperatore Guglielmo I.
 

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