www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 04-10-21 - n. 801

80 anni dall'eccidio nazista di Babij Jar in Ucraina

Adriana Chiaia | Introduzione a Anatolij Kuznetsov, Babij Jar - 1941: l'occupazione nazista di Kiev, Zambon

2011

A 80 anni dall'eccidio nazista del 1941 in Ucraina proponiamo la lettura dell'introduzione al libro Anatolij Kuznetsov, Babij Jar - 1941: l'occupazione nazista di Kiev, Zambon di Adriana Chiaia di cui riccorre nei prossimi giorni il 5° anniversario della morte (14/03/1926-27/10/2016)

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In questo "romanzo documentario", come lo definisce l'autore, si distinguono due filoni principali, che ovviamente interagiscono tra loro: l'occupazione nazista di Kiev, durata oltre due armi, e la reazione della popolazione alla tragedia che sconvolge lo scorrere pacifico della loro vita.

L'autore, nella premessa indirizzata al traduttore, dichiara:
"Prima di tutto questo libro non è solamente (e non tanto!) un libro sul fascismo tedesco, ma sul fascismo in generale. Io ho messo in evidenza molti fatti che non sono tipici soltanto del fascismo tedesco, hitleriano; situazioni analoghe vi furono e vi sono attualmente, nel mondo, sia pure in potenza. Io ho voluto dire: 'Ecco che cosa accadde, cari lettori, a Kiev; ma ciò non è storia passata, ciò può accadere, per esempio domani nella Vostra Genova. Nel mondo c'è una situazione anormale. La civiltà è in pericolo!'"

In questa premessa, datata 7 dicembre 1967, l'autore sembra dimenticare che l'esperienza dell'occupazione nazista e della resistenza opposta ad essa era toccata anche all'Italia, ed in particolare a Genova, città medaglia d'oro della Resistenza. Se invece, come scrive, vuole riferirsi al manifestarsi di nuove forme di fascismo che incombono sulla "civiltà in pericolo" non possiamo dargli torto, ma dovremmo allora parlare, per restare a Genova, del luglio Sessanta e del più recente G8 del 2001, di Bolzaneto, della scuola Diaz e di Carlo Giuliani e, spaziando nel vasto mondo, delle guerre imperialiste contro l'Iraq, l'Afghanistan o dell'occupazione dei territori palestinesi da parte dello Stato sionista di Israele, ma ciò aprirebbe altri e più vasti scenari che non è possibile trattare in questo spazio.

In realtà, l'autore documenta, dati e testimonianze alla mano, l'invasione e l'occupazione nazista di Kiev e la reazione della sua popolazione: "non racconto come avrebbe potuto essere, racconto come realmente fu" ed anche noi vogliamo, nelle nostre riflessioni, puntare l'obiettivo su questi avvenimenti certamente specifici, particolari, ma esemplari. In primo luogo perché ogni persona pensante troverà facilmente i collegamenti con il presente, in secondo luogo, perché gli insegnamenti del passato sono un'arma per le battaglie future. Se ricordiamo l'occupazione nazista di Kiev, la strage di Marzabotto, i martiri di piazzale Loreto, non lo facciamo per piangerci addosso, ma perché da quel dolore, da quello strazio scaturisce la ribellione, nasce la volontà di resistere e di lottare contro l'oppressore, nasce la certezza che lo sforzo, per quanto possente sia, di chi vuole far girare all'indietro la ruota della storia è una causa persa, che nessun esercito, per formidabile che sia, è invincibile e che la vittoria finale sarà di chi combatte per la causa degli sfruttati e degli oppressi di tutto il mondo.

L'occupazione nazista

19 settembre 1941. L'esercito nazista invade Kiev. L'occupazione della città durerà due anni e due mesi. I suoi abitanti, i personaggi del "romanzo documentario" di Anatolij Kuznecov si muovono per questo interminabile tempo in uno scenario di guerra. Ma si trattava di una guerra diversa da quelle scatenate, nella Prima guerra mondiale, tra le potenze imperialiste in lotta per una nuova spartizione del mondo. Questa guerra era lo scontro che si voleva finale, tra due opposte concezioni del mondo: tra il nazismo, cioè il capitalismo nella sua forma più violenta, più crudele, più terroristica, e il socialismo instaurato in un paese che aveva dimostrato, per la prima volta nella storia, che la classe operaia poteva conquistare il potere e creare una società libera dallo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo.

Le intenzioni di Hitler erano chiare:
"La guerra contro la Russia sarà tale da non poter venire condotta in modo cavalleresco. È una lotta fra ideologie e razze diverse e dovrà essere combattuta con una durezza, una spietatezza e una inesorabilità senza precedenti..." (1)

In quanto alle potenze imperialiste "democratiche", esse avevano sabotato tutti i tentativi diplomatici dell'Unione Sovietica perché si formasse un fronte internazionale antifascista. In fondo, esse speravano che l'attacco nazista volgesse all'Est e si placasse con la conquista di nuove terre mettendo al riparo l'Occidente dalla volontà espansionistica della Germana nazista.

Dopo i bombardamenti aerei ed il tuonare dei cannoni dai campi di battaglia, in un irreale silenzio, l'ingresso dei vincitori fu all'insegna della dimostrazione di forza, del dispiegamento di una schiacciante superiorità di risorse e mezzi. Il primo impatto con la popolazione fu, per così dire, "morbido", con il ben noto corollario dei goffi tentativi di abbordare le ragazze, manuali di conversazione alla mano, e dell'esca di ceste di pane e burro gettate sulla strada "li prenda chi vuole", sperando nella rissa per la foto ricordo (e la memoria corre a Napoli, non quella delle quattro giornate, ma quella, complementare ed inevitabile, delle segnorine, degli sciuscià, delle sigarette e dei pacchetti di chewinggum lanciati dalle jeep dei "liberatori").

Dalla quasi giocosa caccia a ipotetici partigiani, risolta grottescamente con la cattura di un maiale, si passa al saccheggio nelle case e nei luoghi pubblici (che si intreccia con il saccheggio dei cittadini, ma di questo si parlerà più avanti), all'occupazione dei luoghi pubblici, e alla presa di possesso dei mezzi di comunicazione: il giornale locale La parola ucraina e la radio.

Sin dalla convocazione della redazione della stazione radio si registrò il primo segnale della discriminazione degli ebrei:
"I primi ad esser riuniti furono i dipendenti della Radio di Kiev [...]. Il tedesco capo del comitato, di fresca nomina, venne sul palco, lanciò uno sguardo bieco alla gente riunita nella sala e gridò una frase completamente inaspettata:
- Gli ebrei si alzino!
In sala si fece un silenzio mortale. Nessuno si alzò, si mossero solo un po' le teste [...].
- Giudei in piedi!!! - urlò il capo impugnando la pistola.
Allora, in vari punti della sala, si tirarono su musicanti, violinisti, violoncellisti; qualche tecnico, redattori. A testa china, uno dietro l'altro, si avviarono all'uscita", (p. 82)

La conquista e la pulizia etnica della stazione radio e la riedizione del giornale locale che rievocava grossolanamente le glorie dell'Ucraina "indipendente" servivano unicamente a fomentare il sentimento anti-russo e l'odio anti-bolscevico, ad esaltare le vittorie delle truppe del Reich e soprattutto a diramare gli ordini da eseguire senza discutere.

Ma la propaganda non bastava. Bisognava distruggere tutto ciò che il potere socialista aveva costruito per elevare la cultura delle masse popolari, per formare le coscienze dei giovani, per inculcare i principi della solidarietà e dell'amicizia tra i popoli. I nazisti trasformarono le scuole in stalle, distrussero i banchi e le suppellettili, bruciarono o buttarono nelle discariche i libri delle biblioteche scolastiche e rionali. Essi preparavano la nuova era preconizzata dal Fùhrer, aprivano la strada alle direttive di Hitler sulla politica "culturale" da instaurare nelle regioni che, nel suo delirio di potere, aveva la certezza di occupare:

"Per dominare i popoli che abbiamo sottomessi nei territori ad est del Reich, dovremo di conseguenza rispondere nella misura del possibile ai desideri di libertà individuale che essi potranno manifestare, privarli dunque di qualsiasi organizzazione di Stato e mantenerli così a un livello culturale il più basso possibile. Bisogna partire dal concetto che questi popoli non hanno altro dovere che servirci sul piano economico. Il nostro sforzo deve dunque consistere nel trarre dai territori che essi occupano tutto quanto se ne può trarre [...]. In fatto di organizzazione amministrativa, il massimo che si possa loro concedere è un'amministrazione comunale [...]. Ma nel creare tali comunità di villaggi, dovremo procedere in modo che delle comunità vicine non possano fondersi tra loro. Per esempio, avremo cura di evitare che una chiesa unica serva un ampio territorio. Insomma il nostro interesse sarebbe che ogni villaggio avesse la propria setta, che coltivasse la propria nozione di Dio. E se, come gli indiani e i negri, alcuni avessero a celebrare culti magici, non ci dispiacerebbe affatto. Dobbiamo moltiplicare, nello spazio russo, tutte le cause di divisione [...]. E, soprattutto, che non si veda spuntare la ferula dei nostri pedagoghi, con la loro mania di educare i popoli inferiori e la loro mistica della scuola obbligatoria! Tutto quanto i russi, gli ucraini, i kirghisi potessero imparare a scuola (non fosse altro che a leggere e scrivere) finirebbe per volgersi contro di noi [...]. Meglio installare un altoparlante in ogni villaggio: dare alcune notizie alla popolazione, e soprattutto distrarla [...]. La radio non dovrà impicciarsi di offrire ai popoli sottomessi conversazioni sul loro passato storico. No, musica e ancora musica! La musica leggera provoca l'euforia del lavoro [...]" (2).

Quello che veniva imposto con le minacce di fucilazione era "l'ordine nuovo" dell'era nazista. C'è un intero capitolo del libro, "Capitolo dei documenti originali", a cui rimandiamo, che riproduce gli ordini tassativi, che andavano dal coprifuoco, alla consegna degli oggetti preziosi, dei viveri, degli apparecchi radio e delle armi, alle proibizioni di allevare piccioni e che terminavano con la minaccia di rito per il trasgressore, che: "Verrà fucilato".

E a partire da uno di questi manifesti, affissi in diversi punti della città, fu annunciato quello che sarebbe stato uno dei più grandi stermini di massa degli ebrei in una città sovietica. Il manifesto intimava:
"Tutti i giudei della città di Kiev e dintorni devono presentarsi, lunedì 29 settembre 1941 all'angolo di via Melnicov con via Dochturov (vicino al cimitero). Devono prendere con sé i documenti, il denaro, gli oggetti preziosi ed anche un vestito da inverno, biancheria, ecc."
Immancabile la consueta conclusione:
"I giudei che non eseguiranno questo ordine e saranno trovati altrove, verranno fucilati".

La raccomandazione sulle cose da portare con sé faceva supporre che si trattasse di un trasferimento coatto con destinazione ignota, cosa di per sé piena di incognite, ma in una certa misura credibile (il luogo di raccolta era vicino ad una stazione ferroviaria), e comunque meno spaventosa di quella che si rivelò essere la sorte di quel fiume di famiglie che, con nidiate di bambini e bagagli più o meno voluminosi caricati sui più svariati mezzi di trasporto, si mise in cammino verso la morte.

È impossibile per chi non è passato per quelle terribili prove trovare le parole per esprimere i sentimenti che si agitavano nelle menti dei deportati e dei loro accompagnatori: dal dolore per il distacco dai familiari e dalla speranza di tornare ad incontrarli, dall'assurda fiducia nella "correttezza" dei tedeschi, al terrificante presagio della fine. Impossibile trovare le parole per descrivere le modalità dell'orribile procedura programmata con teutonica meticolosità: la spoliazione dei beni delle vittime, la loro denudazione, i pestaggi gratuiti e non per questo meno feroci prima del mitragliamento sull'orlo del burrone e del salto nel vuoto. Non ci sono parole adeguate a descrivere il groviglio di corpi, alcuni ancor vivi, accatastati, strato su strato, nel fondo del burrone.

Non ci sono altre parole per raccontare quei riti bestiali che hanno caratterizzato, nei campi di concentramento, nelle prigioni, nei luoghi di tortura, nelle città e nei villaggi dell'intera Europa, gli eccidi degli ebrei, degli zingari, di tutte le etnie e fedi religiose, dei malati mentali, ossia di coloro che erano considerati "non uomini", dei nemici politici, in prima fila dei comunisti, se non il racconto dei sopravissuti.

Lasciamo dunque che il racconto di una dei pochi sopravvissuti, Dina, che i nostri lettori troveranno nel capitolo dedicato al Babij Jar, ci trasmetta la tremenda ansia dell'attesa al margine del prato di coloro che speravano di essere scampati - perché non marchiati come ebrei - il verdetto di morte, perché non dovevano esserci testimoni, le percosse, il volo per abbreviare il supplizio, il trovarsi vivi nel groviglio di membra sanguinanti, la fuga disperata, la ricerca di solidarietà di sconosciuti che vincessero la paura di nasconderla, la pietà nelle pieghe della coscienza del nemico ed infine la salvezza tra la propria gente.

Il massacro di oltre trentamila ebrei non fu il solo perpetrato dai nazisti a Kiev, lo sgranarsi delle mitragliatrici fu il sottofondo sonoro dei molti mesi di occupazione.

Dopo la grande azione partigiana (sulla quale ritorneremo) che distrusse il Krescatik, la via principale di Kiev, e tutti i nazisti che vi avevano stabilito il loro quartier generale, si aprì la caccia agli ostaggi che venivano catturati di notte nelle case o in pieno giorno nelle strade, fino a raggiungere il numero stabilito dalla macabra contabilità dei nazisti (la nostra memoria corre alle Fosse Ardeatine, al conteggio degli ostaggi che vi perirono). Si poteva cadere nelle retate solo per l'aspetto fisico: le persone dai capelli neri e dal naso lungo erano in pericolo.

Scontati gli arresti dei comunisti, dei presunti dirigenti o attivisti. Su di loro, per istigare i concittadini alla delazione, erano poste taglie in denaro o in generi alimentari.
Gli zingari, catturati "come selvaggina" furono sterminati ad accampamenti interi.
Poi toccò ai malati mentali dell'ospedale psichiatrico che furono uccisi in una camera a gas "montata su un autocarro, mai vista prima di allora. Spingevano gli ammalati nella macchina, a gruppi di sessanta o settanta individui; il motore agiva una quindicina di minuti, poi scaricavano gli asfissiati in una fossa. Questo lavoro durò alcuni giorni, tranquillamente, metodicamente, senza fretta, con gli intervalli prescritti per i pasti. [il corsivo è nostro, ndr]".

Questa meccanica normalità, questa oscena presunzione di incolpevolezza la ritroviamo nell'atteggiamento del soldato nazista che, catturato un ragazzino ebreo sfuggito al massacro del Babij Jar, gli accomoda la paglia sul sedile del carro in cui lo sta portando al macello. (E che dire, allora, dell'incredibile crudeltà di una recente esecuzione di morte in Georgia, USA? Il condannato, Brandon J. Rhode, che aveva tentato il suicidio tagliandosi con una lametta le vene, viene medicato e legato perché non ci riprovi privando lo Stato della "giusta" vendetta e messo a morte una settimana dopo con una iniezione letale).

L'autore riferisce che era diventato molto popolare il detto: "Liquidati gli ebrei, fatti fuori gli zingari, toccherà agli ucraini".

Tutte le fonti storiche documentano la sorte dei soldati russi caduti prigionieri nelle mani del nemico. Così come Hitler aveva ordinato:
"Tutti gli ufficiali dovranno sbarazzarsi delle loro idee invecchiate [...]. Io insisto assolutamente perché i miei ordini siano eseguiti senza discutere. I commissari [sovietici, ndr] sono gli esponenti di ideologie del tutto opposte al nazionalsocialismo. Per cui i commissari dovranno venire eliminati. Saranno scusati quei soldati [tedeschi, ndr] che violeranno le leggi internazionali. La Russia non ha partecipato alla convenzione dell'Aja, quindi non ha nessun diritto d'appellarsi a tali leggi" (3).

Gli ordini di Hitler vennero puntualmente eseguiti.
"... I prigionieri di guerra russi erano più numerosi di tutti gli altri messi insieme - essi ammontavano a circa cinque milioni e 250.000 [...]. Due milioni di essi morirono in cattività - di fame, di freddo, di malattia.. ." (4).

Questa sorte toccò ai reparti del fronte sud-occidentale che, circondati, avevano cercarono di forzare l'accerchiamento ed uscire da Kiev, passando da Darnica, ma non vi riuscirono e furono fatti prigionieri.

L'autore ricorda in una nota che "Successive ricerche hanno stabilito che a Darnica morirono circa 68.000 russi".

Invitiamo, ancora una volta, i nostri lettori a leggere per intero la testimonianza di Vasilij, miracolosamente fuggito dal lager per i prigionieri sovietici allestito nei pressi di Darnica: nessuno può farlo meglio di un testimone diretto.

Ricordiamo soltanto che un reticolato invalicabile divideva i prigionieri comunisti, gli ufficiali, i commissari politici, dagli altri. Per essi la sentenza era di morte per fame. Per gli altri erano la pura sopravvivenza, le angherie, e il lavoro coatto.

E leitmotiv degli orrori, l'umiliazione:
"... dovevano avvicinarsi alla marmitta a gattoni, strisciando sulle ginocchia e sui gomiti...".
Il pane veniva gettato per terra, seguiva l'inevitabile zuffa degli affamati, i guardiani ridevano, e i corrispondenti di guerra fotografavano...

Riecheggiano nella mente le parole "scolpite nel nostro cuore":
"Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.. ." (5).

Il racconto di Vasilij prosegue: "Tra i tedeschi c'era un caporal maggiore appassionato di caccia. Veniva a cacciare nel Lager con un moschetto di piccolo calibro. Era un tiratore eccellente, sparava ad un passerotto, poi si voltava immediatamente e colpiva un prigioniero. Un passero, un prigioniero", (p. 154) (Come non pensare al sadismo impunito degli aguzzini di Abu Graib e di Guantanamo, come non pensare alla licenza di uccidere concessa ai militari ai posti di blocco in Israele?)

La reazione della popolazione

L'autore ci presenta una vasta gamma di comportamenti contraddittori della popolazione di Kiev di fronte agli eccezionali avvenimenti determinati dalla partenza dell'Armata rossa in ritirata e dalla successiva invasione delle truppe naziste. Si va dalla spettacolare azione partigiana al collaborazionismo, dall'atto di sottomissione alla resistenza, dall'aspettativa del ritorno dei bolscevichi all'accettazione del "nuovo ordine", dalla generosa solidarietà alla sordida avidità del profittatore.

Ad evitare che di questi fenomeni si dia un'interpretazione esclusivamente psicologica o che essi vengano inquadrati in una teorizzazione metafisica dell'invariabilità della "natura" dell'uomo, ci permettiamo di suggerire ai nostri lettori di far risalire questi comportamenti a cause storiche e di collocarli nella realtà del tempo e dei luoghi in cui essi si sono manifestati. A tale scopo abbiamo ritenuto utile corredare la nuova edizione del libro che presentiamo di due schede. La prima, intitolata "Il diritto all'autodecisione dei popoli nella concezione del Partito comunista (b) e nella prassi del potere sovietico", tratta la complessa e dibattuta questione nazionale e la seconda, intitolata "Ucraina: dalla rivendicazione dell'autonomia al patto costitutivo dell'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche" ripercorre la storia dell'Ucraina tra le due guerre mondali.

L'Ucraina era dunque una delle Repubbliche socialiste sovietiche che componevano l'Unione Sovietica. Nella Costituzione del 1936 si afferma: "nell'URSS si attua il principio del socialismo: 'da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo lavoro'".

Quindi il primo elemento da tener presente nelle nostre riflessioni è che i fatti di cui ci occupiamo si svolgono in un paese socialista. Cioè in un paese in cui si attuava la transizione dal capitalismo al comunismo.

E qui ci sia consentita una precisazione per fare giustizia dei luoghi comuni usati per ignoranza da taluni o per propaganda avversaria dai più, che definiscono comunisti tutti i regimi socialisti. Nessuno degli Stati socialisti, anche nel momento della loro massima espansione che abbracciava un terzo dell'umanità, poteva essere definito comunista: infatti in nessuno di essi, nemmeno nello Stato guida del sistema socialista, l'Unione Sovietica, si era entrati nella fase superiore del socialismo, il comunismo, nel quale si attua il principio: "da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni". Quali condizioni fossero necessarie per realizzare una società comunista in Unione Sovietica è spiegato, con la consueta chiarezza, da Stalin in Problemi economici del socialismo in URSS. (6).

Marx aveva preconizzato:
'"Quella con cui abbiamo da far qui' (analizzando il programma del partito operaio) 'è una società comunista, non come si è sviluppata sulla sua propria base, ma, viceversa, come emerge dalla società capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le macchie della vecchia società dal cui seno essa è uscita'" (7).

La transizione dal capitalismo al comunismo è il periodo in cui la nuova società deve liberarsi dalle scorie della vecchia, il periodo in cui i nuovi germogli del comunismo, come li chiamava Lenin, si fanno faticosamente strada tra la sterpaglia del passato che vorrebbe soffocarli. Se la rivoluzione abolisce i vecchi rapporti economici e sociali, bisogna ancora lottare non solo perché non si ristabiliscano, ma anche per affrancarsi dalla loro ideologia, dal modo di pensare delle classi sconfitte, dalle abitudini, dalle credenze religiose, dalle superstizioni, dai pregiudizi inveterati.

Il cammino impervio della nuova società socialista non si svolge in un asettico laboratorio in cui, scientificamente, si sperimenta, si controllano i risultati, si correggono gli errori. Avviene invece nel fuoco della lotta di classe in cui il nuovo Stato socialista deve fare i conti, oltre che con i tentativi di sovversione e i sabotaggi delle vecchie classi capitaliste spodestate, con l'aggressione esterna del sistema imperialista mondiale che vede messa in gioco la propria esistenza dal pericolo dell'"infezione", dell'estendersi dell'esempio alle popolazioni sfruttate ed oppresse di tutto il mondo.

Ma, come insegna Lenin,
"... tutte le definizioni troppo concise sono bensì comode, come quelle che compendiano l'essenziale del fenomeno in questione, ma si dimostrano tuttavia insufficienti quando da esse debbono dedursi i tratti più essenziali del fenomeno da definire" (8).

E questo è il nostro caso.

Kiev è la capitale della Repubblica socialista sovietica dell'Ucraina che ha alle spalle una lunga e tormentata storia: da regione periferica oppressa dell'impero zarista, sotto la guida di una classe dirigente borghese si trasforma in repubblica autonoma separata dalla Russia. Dopo la rivoluzione d'Ottobre, alterna i tentativi di instaurazione del potere sovietico con la guerra civile e le occupazioni straniere, tedesca e polacca, per giungere dapprima all'appartenenza alla Federazione degli Stati socialisti sovietici e infine alla Unione Sovietica. Tutte queste fasi sono descritte ampiamente nella seconda scheda sopra menzionata.

E in primo luogo al retaggio di queste esperienze, che hanno segnato per un tempo lunghissimo le abitudini, gli atteggiamenti e i sentimenti dei cittadini della società ucraina, che bisogna ricorrere per comprendere i diversi, a volte opposti comportamenti dei protagonisti del nostro romanzo-documentario.

In secondo luogo è necessario tener conto dell'eccezionalità dello stato di guerra.

Il 22 giugno 1941 era scattata l'operazione "Barbarossa" di aggressione contro l'URSS con massicci bombardamenti e l'invasione delle orde naziste. Kiev era stata una delle prime città bombardate (spassosa, malgrado la drammaticità delle circostanze, la descrizione dell'autore sulla costruzione e i riti per l'uso del rifugio-trincea nel cortile di casa).

Kiev, dal 19 settembre deve sopportare il giogo dell'occupazione nemica. La vita dei suoi abitanti si svolge nelle condizioni di una dura oppressione, che avrebbe portato con sé distruzioni, lutti, fame e miseria.

Kiev è lo scenario di tante vite sospese ("non sapevamo più dove fossimo, se ancora da questa parte del fronte, oppure, ormai, dall'altra; o solo tra gli uni e gli altri") tra il terrore dell'occupazione nazista e la scomparsa improvvisa dei pilastri fondamentali della società sovietica: l'Armata rossa e la classe operaia.

Da un lato, dopo una strenua difesa della città, l'Armata rossa aveva dovuto ritirarsi. Le armate del fronte occidentale cercavano, spesso senza riuscirvi, di schierarsi su una linea di difesa più arretrata per evitare l'accerchiamento.

Dall'altro lato, la partenza dei lavoratori dell'Arsenale e delle altre industrie avveniva nel quadro della geniale strategia che, durante la guerra, permise di continuare la produzione militare e civile in Unione Sovietica: i macchinari e gli impianti delle fabbriche nelle zone occupate venivano smontati e trasportati verso Oriente; insieme ad essi venivano evacuati gli operai e i tecnici, perché, lontano dal fronte, in Siberia e negli Urali, potesse ripartire la produzione.

Interrotte inoltre le funzioni amministrative locali, chiusi i centri culturali, le scuole, i luoghi di ritrovo, si era creato un grande vuoto nella vita della società. I cittadini si ritrovarono senza alcun riferimento, soli con la propria coscienza davanti ad ogni decisione, ad ogni scelta. Le alternative che in tempo di pace sono oggetto di speculazioni filosofiche, imponevano risposte concrete, scelte di vita: da che parte stare? Resistere o sopravvivere? Fino a che punto spingere la propria solidarietà col fuggiasco? Nascondere un combattente clandestino senza correre rischi o a rischio della vita? (la nostra memoria corre ai fratelli Cervi).

E i partigiani ucraini dettero la loro risposta. Kiev fu teatro di una delle più spettacolari azioni contro l'invasore. Ce la racconta l'autore nel capitolo intitolato al Krescatik, la via principale di Kiev, sulla quale si affacciavano gli edifici principali e dove i tedeschi si erano acquartierati, occupando le sedi pubbliche, i locali commerciali e requisendo le abitazioni degli sfollati, nelle quali si erano dati al saccheggio sistematico dei beni che vi si trovavano. Tutto si era svolto con la solita sistematicità e precisione.

"Era il 24 settembre 1941, dopo le tre del pomeriggio.
La Casa del Comando militare della città saltò in aria insieme al 'Mondo dei fanciulli' [...]. Nella via del Traforo si levò una colonna di fuoco e di fumo [...]. Da principio i tedeschi persero la tramontana, poi si riorganizzarono, si schierarono a cordone intorno alla casa che bruciava e acchiappavano tutta la gente che capitava a tiro [...]. Spingevano tutti gli arrestati nel cinema vicino, che presto si affollò di gente bastonata, ferita, insanguinata. In quel momento, fra le rovine della casa in fiamme, tuonò un'altra esplosione di potenza eguale alla precedente. Allora crollarono i muri e la sede del comando tedesco si trasformò in un mucchio di mattoni. Il Krescatik si velò di polvere e di fumo. Il terzo scoppio fece saltare la casa di fronte, [...] con gli uffici dei tedeschi. [Essi] abbandonarono il cinema al grido 'Si salvi chi può!' Il Krescatik è minato!' e scattarono in tutte le direzioni a gambe levate. Le esplosioni cessarono solo il 28 settembre. L'incendio principale durò due settimane e per tutto questo periodo esso fu isolato da truppe armate di mitra".

Nemmeno l'operazione di spegnimento riuscì: "i tedeschi fecero arrivare, con un aeroplano, dei lunghissimi tubi di gomma che stesero fino al fiume Dnepr, attraverso il parco dei Pionieri, e con potentissime pompe si misero a pompare acqua. Ma questa non arrivò fino al Krescatik; qualcuno, in mezzo alla vegetazione del parco, aveva tagliato i tubi".

L'autore conclude il suo racconto con comprensibile orgoglio:
"I tedeschi, che erano entrati tanto altezzosamente, e si erano sistemati così bene, ora si sbrancavano come topi in trappola [...]. Non poterono nemmeno ricuperare i cadaveri dei loro compagni, che arsero completamente. Era bruciato anche tutto quello che essi avevano depredato in quei giorni". "Nessuna capitale europea reagì alle truppe hitleriane come Kiev. Essa non poteva più difendersi e sembrava che si fosse consegnata al nemico. Ma si dette fuoco sotto gli occhi dei tedeschi e trascinò nella tomba molti di loro", (p. 86)

C'è da mettere in rilievo che a far saltare le mine disseminate in tutti i luoghi strategici, a far incendiare le casse di molotov nascoste nelle soffitte degli edifici occorreva che qualcuno azionasse gli inneschi. Sicuramente coloro che compirono l'azione, che rimasero sconosciuti, non poterono salvarsi. Questi eroici partigiani immolarono la vita per l'onore dell'Ucraina sovietica. Essi senza dubbio appartenevano alla nuova generazione "dei figli dei pastori che oggi all'Università tenevano in mano il compasso" (9).

È vero che, all'altro estremo della contraddizione, Kiev conobbe anche l'onta del collaborazionismo (ricordiamo i poliziotti ucraini che affiancarono le SS nel massacro di Babij Jar, p. 95, 98,101).

Tuttavia, più in generale, bisogna riconoscere che il collaborazionismo con i nazisti dei Vlasov (10), dei Bandera (11), etc. costituì un fenomeno - pur nella sua gravità - marginale, rispetto all'unanime, eroica partecipazione alla Grande guerra patriottica di tutti i popoli dell'Unione Sovietica che sostennero il peso maggiore della lotta contro il nazifascismo.

In Unione Sovietica non ci furono quinte colonne né si formarono governi collaborazionisti, come accadde nelle "democrazie" occidentali.

In Italia, Benito Mussolini fondò la repubblica-fantoccio di Salò, al servizio di Hitler. I fascisti repubblichini, al fianco dei nazisti, commisero ogni sorta di atrocità contro i partigiani e la popolazione civile.

Tuttavia, né gli atti eroici, né i tradimenti devono impedirci di analizzare i comportamenti contraddittori della popolazione, della "gente comune" che devono essere fatti risalire alle cause sopra indicate e non vanno nascosti perché completano il quadro della realtà. Il marxismo è una scienza e, come tutte le scienze, trae dall'esperienza la teoria che guida l'azione.

L'autore, dopo aver messo in luce i grandi fatti della Storia con la maiuscola, dedica gran parte del suo libro agli avvenimenti quotidiani e agli atteggiamenti contraddittori della popolazione nei loro confronti. Avvenimenti ed atteggiamenti che vengono fatti rivivere attraverso lo sguardo curioso e critico di un ragazzo di dodici anni, Tolja, puntato sia sul contesto della sua famiglia che su quello più vasto delle sue amicizie e della città.

La famiglia dell'autore, che ci viene descritta in uno dei primi capitoli è il microcosmo di tutte le contraddizioni.

Semerik Fédor Vlasovic, il nonno, è la personificazione del reazionario.
Egli manifesta la sua ammirazione per i tedeschi ("questo sì che è un esercito!"), che non solo, secondo lui, hanno già vinto la guerra, ma che hanno diritto di praticare la legge del vae victis, in base alla quale giustifica le ruberie della soldataglia: "Porca miseria, mi ero proprio dimenticato che è ben il loro diritto di vincitori di saccheggiare per tre giorni tutto quello che vogliono!"

Ma non si tratta soltanto di una opportunistica sottomissione alla legge del più forte. L'ammirazione per la forza è da sempre radicata nella sua mente ed ora si manifesta apertamente: è l'ammirazione per i possenti mezzi e armamenti, per le divise impeccabili, per i cavalli da tiro poderosi. Ammirazione accompagnata dal compatimento per i soldati dell'Esercito rosso in ritirata:

"dei cavallucci stanchi, sfiancati, tiravano furgoni militari, cannoni o carri. I soldati erano neri di polvere, coperti di ferite, alcuni, probabilmente con i piedi scorticati, camminavano scalzi, con le scarpe pendenti dalle spalle. Marciavano sotto il peso degli zaini, dei pastrani arrotolati, delle armi, con le gavette ciondolanti e tintinnanti".

Semerik raccontava meraviglie su una sua esperienza di lavoro in una colonia tedesca (a dispetto di qualsiasi documentazione storica sull'occupazione tedesca dell'Ucraina nel 1918, tanto crudele da suscitare la sollevazione in armi della popolazione), in cui aveva potuto apprezzare l'ordine e la precisione (paragonati al disordine del regime bolscevico: "non sanno amministrare"), la supposta onestà dei tedeschi - non hanno bisogno di chiudere a chiave la porta di casa - e di contro, il castigo senza appello per i ladri e gli scansafatiche. La sua fiducia per il "nuovo ordine", portato sui cannoni nazisti, non veniva minimamente scossa dalla dura realtà, come la sua credulità, per il "paradiso in terra" promesso dai volantini di propaganda, piovuti dal cielo, prima delle bombe. "Aveva settantadue anni ed ecco che ritornò a sognare" osserva Tolja.

Altrettanto profondo è il disprezzo di Semerik per i bolscevichi: "È finito il potere sovietico" esclama, quel potere di cui bisognava cancellare ogni traccia: bruciare la bandiera rossa, i diplomi di merito ottenuti a scuola dal nipote e perfino, come vedremo in seguito, i libri "sovversivi" o presunti tali.

È tutta ideologica la sua avversione per i "proletari" e non corrisponde alla sua posizione sociale. Ha infatti un passato di contadino povero e di operaio, ma la sua mentalità, è tipica del piccolo-borghese che aspira a scalare la scala sociale, per conquistare una posizione economica agiata e indipendente. Nessun tentativo fallito di far fortuna come allevatore di bestiame lo spinge ad entrare nel kolchoz, come gli suggeriva suo genero, ma - lui, il difensore dell'ordine - non si peritava di sottrarre qualche metro quadrato dal terreno del kolchoz confinante, spostando di nascosto il recinto del suo orto. A causa del suo individualismo, della sua avarizia, della sua diffidenza verso tutti aveva pessimi rapporti con i vicini di casa, con i quali metteva in atto le sue meschine prevaricazioni. In risposta, i vicini lo avevano soprannominato "Settesoldi".

Per completare il quadro, aveva dato prova del suo bieco sciovinismo commentando l'ordine di deportazione degli ebrei con un agghiacciante: "Una buona notizia! Eh!... Domani non ci sarà più un ebreo. Vadano pure...".

La contraddizione principale in famiglia, che diventava spesso un aspro diverbio, era naturalmente quella con il genero, Vasilij Kuznecov, nei confronti del quale Semerik nutriva un insanabile rancore per non essere riuscito a corromperlo e ad ottenere alcun privilegio da lui, quando ricopriva la carica di comandante della polizia municipale.

Vasilij era russo ed era un vero bolscevico, entrato giovanissimo nell'Armata rossa, aveva combattuto in Crimea contro Vrangel', ma non usava vantarsi di quell'impresa, i suoi racconti un po' guasconeschi parlavano delle omeriche bevute per festeggiare la vittoria e, in quanto alle medaglie che si era meritato, da perfetto ribelle le aveva rifiutate: "... durante lo zar c'erano le medaglie ed ora siamo di nuovo con questi ciondoli? Mica per le patacche combattiamo...". (Scemo, era stato l'inevitabile commento del nonno, avresti potuto venderle).

Tolja ricorda: "Una volta smobilitato Vasilij lasciò il servizio e andò a studiare alla facoltà operaia e di lì al politecnico. Passava le notti a disegnare, poi viaggiò per le campagne di Uman per dirigere la collettivizzazione delle terre. Quando andò a sostenere la tesi di laurea mi portò con sé e quando finì l'applaudirono. Diventò ingegnere industriale".
Dissapori con la moglie l'avevano portato lontano da Kiev. E tutto questo era avvenuto prima della guerra.

A contraddire Semerik ci pensava, impegnandosi in un continuo battibecco, sua moglie, Dolgorukova Marfa Efimovna, nonna del nostro eroe. Molto religiosa, aveva allestito in un angolo della casa una specie di altare con icone di santi e madonne; nei momenti di pericolo recitava una personalissima versione del Padre nostro ed aveva fatto battezzare di nascosto dai genitori il nipotino. Al contrario di Semerik, Marfa non aveva nemici, aveva un cuore generoso e compassionevole che la portava a dividere con i più poveri e disgraziati il poco che aveva. Sebbene fosse analfabeta, aveva un innato senso della giustizia, un istinto che, attraverso personalissimi segnali (il berretto calcato su naso) le faceva individuare il "nemico".

Lenin nel fare il bilancio della guerra civile aveva detto: "Storicamente, vince la classe che può condurre dietro a sé la massa della popolazione" (12). Marfa rappresentava esattamente la grande maggioranza della popolazione ucraina che riconosceva i vantaggi portati dal potere sovietico. Per questo rinfacciava aspramente al marito la mancanza di gratitudine e gli ricordava la vita miserabile che entrambi avevano condotto sotto gli zar: l'isbà cadente, la servitù per un boccone di pane nelle case degli agrari.

Kuznecova Marija Fédorovna, la madre di Tolja e moglie di Vasilij, come lui, apparteneva alla generazione dei nuovi tempi, la rivoluzione socialista le aveva dato molto. Sarebbe stata anch'essa una serva come sua madre; invece potè studiare, divenne maestra e cominciò a insegnare dal 1923. Durante i bombardamenti prestava servizio di guardia alla sua scuola per prevenire gli incendi. Non perdeva tempo a discutere con il padre, che considerava irrecuperabile. Dopo aver tentato in ogni modo, senza riuscirvi, di sfollare e raggiungere con suo figlio la zona libera della Russia (drammatico il racconto della corsa affannosa, attraverso la città bombardata, p. 117 e segg.) rimase ad aiutare la sua famiglia, per la quale il suo stipendio era l'unica fonte di sostentamento. Malgrado il prolungarsi dell'occupazione nazista, manteneva una fede incrollabile nel ritorno dei "nostri", che, trattandosi di una donna - come spesso accade -, dai familiari veniva attribuita al desiderio di ricongiungersi con il marito. Che fosse invece l'espressione della sua coscienza di comunista è dimostrato dalla coerenza delle sue opinioni e delle sue azioni.

Per quanto riguarda il personaggio principale - l'autore all'età di dodici anni - la nuova situazione costituì una scuola di vita, un'educazione della mente attraverso l'impatto sconvolgente con la nuova realtà.

Nel "capitolo dei ricordi", ci viene presentato Tolja, il pioniere modello che frequentava la scuola, riceveva attestati di merito e diplomi, ma era troppo piccolo perché quella esperienza lo formasse profondamente, come avveniva per Bolik, di qualche anno più grande, il quale vedeva e rivedeva i film patriottici come "Capaev", "Se domani la guerra. .."e "Bogdan Chmel'ni-ckij" e sognava di imitarne gli eroi in azioni di guerra.

Bolik potè realizzare i suoi sogni, quando, entrato in un istituto industriale, all'inizio della guerra, fu mobilitato con la sua scuola per la costruzione di fortificazioni, "a scavar trincee" e sparì. Più tardi - come si può leggere nel seguito del racconto - salvatosi miracolosamente dal bombardamento di un convoglio diretto in Russia, tornerà a casa, lacero e ferito, ma con lo stesso spirito indomito e con la volontà di unirsi ai partigiani.

Anche a Tolja piaceva giocare alla guerra, ma la guerra, quella vera, che già infuriava in Europa pareva lontana. Quando l'uragano dell'invasione nazista si abbatté su Kiev, la durezza del presente (le scuole devastate e trasformate in stalle dai nazisti) avrebbe suscitato il ricordo e il rimpianto del tempo felice. Allora, l'inaugurazione della scuola nuova, della stazione agricola sperimentale per ragazzi, della stazione tecnica infantile, della strada, prima "storta e brutta", asfaltata per l'occasione apparivano novità quasi scontate, come se ogni cosa fosse naturale e dovuta. Era stata la madre a ricordare a Tolja la fortuna di essere nato nei tempi nuovi e a raccomandargli di studiare: "Voi pensate solo a studiare, a diventare uomini. Se non diventerete veri uomini la colpa sarà solo vostra".

Purtroppo, i tempi felici erano finiti.

Il primo tedesco che aveva fatto irruzione nella casa aveva indicato severamente la bandiera rossa. Malgrado che il nonno avesse ordinato di bruciarla, Tolja l'aveva nascosta in soffitta. Ma questa volta l'ordine del nonno fu imperativo: "Su, dammi i tuoi libri, - disse il nonno. - Tutti i ritratti, tutti i libri sovietici! Marusja, al lavoro! Se volete campare". E così finirono nella stufa tutti i certificati d'onore con i ritratti di Lenin e di Stalin e tutti i libri sovietici a pacchi interi.

Allora Marija Fédorovna che si era opposta invano, rivolgendosi al figlio disse qualcosa di molto importante:
"... mai gli idioti hanno risparmiato i libri. Hanno bruciato la biblioteca Alessandrina; al tempo dell'Inquisizione buttavano i libri nel fuoco; hanno bruciato le opere di Radiscev; Hitler faceva dei falò di libri sulle piazze... Tu devi ancora cominciare a vivere, ricordati che quando cominciano a bruciare i libri è un brutto segno, vuol dire che imperano la prepotenza, l'ignoranza e la paura. Cosa ci si può aspettare da ciò? Quando una banda di degenerati dà fuoco ai libri sulle piazze è terribile, ma è ancora il male minore. Ma quando ogni uomo, in tutte le case comincia a buttare i libri nella stufa, tremando di paura...", (p. 133)

Come dire: i barbari commettono azioni esecrabili, ma sono ancor peggiori coloro che per viltà li prevengono e li sostituiscono compiendo le stesse azioni sciagurate.

In quei giorni i nazisti avevano devastato le scuole e le biblioteche.
Tolja racconta:
"Un reparto militare aveva occupato la mia scuola. Per alcune ore volarono dalla finestra i banchi, l'attrezzatura scolastica, i mappamondi e la biblioteca. I libri della nostra biblioteca rionale furono buttati in un orto. I libri erano sparsi anche per le strade, calpestati come spazzatura", (p. 134)

Il pianterreno della scuola era stato trasformato in una stalla. I libri, buttati fuori dalle biblioteche, marcivano ammucchiati sotto la pioggia.
Tolja, ricordando le parole di sua madre, cominciò a comportarsi da uomo. Mise in un sacco i libri meno rovinati e li portò a casa. Al nonno disse che sarebbero serviti ad alimentare la stufa. Poiché c'era poco petrolio e da un pezzo mancava la luce elettrica, inventò un sistema di illuminazione artigianale e prese a leggere fino a tarda notte.

Tuttavia la realtà circostante era così complicata che le scelte non potevano essere sempre lineari.

Nel saccheggio del mercato, a cui partecipa, Tolja, con meraviglia, scopre un lato della sua personalità che non si era mai manifestato: "Io non ero avido per natura, nonnina aveva un nipote tanto gentile ed educato ed improvvisamente questo saccheggio mi aveva travolto come un'ondata veemente. Mi si stringeva la gola dall'avidità, dalla cupidigia, dalla bramosia, dalla febbre di possedere".

In altre occasioni, questa volta spinto dal bisogno, (vedi capitolo "Faccio affari"), insieme al suo amico Surka che, essendo ebreo viveva nascosto in casa sotto falso nome, scopre la sua attitudine di venditore, più o meno fortunato, di merce varia: cartine per sigarette, noci.

Scopre il valore di scambio, la gioia di possedere soldi "veri" per comprare altre merci, l'orgoglio di "guadagnarsi la vita". Ma le leggi del mercato ispirano odio per chi non può o non vuole comprare e spingono all'inganno. Tolja si sente un "vigliacco" quando si dà alla fuga per non cambiare una merce avariata.
Il suo amico Surka, i cui occhi ardevano di una luce febbrile d'affamato, suggerì di vendere i giornali e di pulire le scarpe. E così i due ragazzi passavano le giornate per strada, pronti a captare ogni nuovo avvenimento.

Attraverso i loro occhi vediamo passare il drammatico corteo dei prigionieri russi di guerra.
"I prigionieri erano sporchi, con le barbe lunghe e gli occhi spiritati. Molti di essi indossavano pastrani militari sbrindellati, altri avevano i piedi avvolti in stracci, altri erano a piedi nudi, qualcuno aveva il tascapane. L'aria vibrava dal fruscio e dallo scalpiccio compatto. Tutti stropicciavano i piedi, guardando ottusamente davanti a sé, [...] e gli elegantoni tedeschi di scorta scalpitavano con i loro tacchi ferrati e berciavano nella loro lingua", (p. 148,149)

E qui scatta la solidarietà di Tolja che con una corsa pazza raggiunge la sua casa e, abbandonati i giornali, trae dalle preziose riserve della famiglia un sacchetto di patate e le getta una per volta ai prigionieri, a rischio di provocare una rissa, e vede, allucinato, come il prigioniero che ha raccolto una patata la divori riparandosi con le mani.

Quando il triste corteo fu passato, Tolja si mise a riflettere:
"Fino a quel momento, dei sistemi escogitati dai nazisti per avvilire i prigionieri, io sapevo solo per quel che ne avevo letto sui nostri giornali sovietici o per sentito dire [...]. Ora avevo visto con i miei occhi. E questo era più spaventoso di quanto avevano scritto o mormorato.
Di proposito. Meditato. Con la fame, con la tortura, con le pallottole essi sentivano il bisogno di ridurre l'uomo alla follia, di uccidere in lui ogni sentimento umano, la volontà, perché non potesse più reagire. Perché la massa si trasformasse in un gregge incosciente", (p. 150)

Tolja aveva imparato dalla pratica. La sua coscienza andava formandosi, distingueva il bene dal male. Prendeva posizione contro i profittatori, grandi e piccoli. Aveva condiviso il dolore della nonna e la sua indignazione contro coloro che avevano preso possesso della casa che era stata loro affidata dai lavoratori evacuati in Russia al seguito dell'Arsenale.

"- Questa casa diventerà mia e di mio marito. I sovietici non torneranno più...
- Fanno tutti così, ora, - spiegò Marusja. - Le case degli sfollati vengono prese da chi ne ha bisogno, per di più questa era di un comunista. Finito il loro tempo! Il vostro documento non mi dice niente, è sovietico, è scaduto, e non dimenticatevi che anche Voi siete parente di un comunista.
Il suo allegro marito dal volto non rasato aprì l'uscio di casa e si piantò sulla soglia con le mani sui fianchi. La nonna fece appello alla coscienza, al Signore, gli disse che sarebbe andata a reclamare; lui rideva divertito", (p. 76)

Tolja imparava ad odiare i profittatori.

Un giorno scoperse che la sua amichetta che, come gli altri bambini affamati, usufruiva di un pasto caldo alla mensa del consiglio rionale, aveva in casa ogni ben di Dio e le chiese spiegazioni. La ragazzina rispose che loro erano finnici, di razza ariana, e perciò venivano riforniti da un magazzino speciale per i Volksdeutsche [tedeschi che vivono in altri paesi, ndr].

"- Ecco come vi siete sistemati, - borbottai, non riuscendo ancora a capacitarmi. Liala era un'amica sincera, che divideva tutto con me, ed improvvisamente salta fuori che lei è di razza ariana e che io sono un fesso qualunque... E tu vieni ancora a prendere la zuppa alla mensa degli affamati!" Tolja uscì sbattendo forte la porta.

La prima volta che nel periodo dell'occupazione nazista si era imbattuto nel razzismo etnico e religioso, la sua reazione era stata di meraviglia e di sgomento. Affisso su uno steccato c'era un manifesto sul quale era scritto:
"I giudei, i polacchi e i moscali [nome dispregiativo con cui i nazionalisti ucraini indicavano i russi, ndr] sono i nemici inesorabili dell'Ucraina!"

Per Tolja erano parole inaudite che aprirono in lui interrogativi altrettanto insoliti:
"Davanti a questo manifesto mi venne da pensare per la prima volta chi mai io fossi. Mia madre era un'ucraina schietta, mio padre un russo puro sangue. Cioè io ero per metà ucraino, per metà 'moscai', quindi ero nemico di me stesso.
I miei migliori amici erano Surka Mazà, mezzo ebreo, cioè giudeo, e Bolik Kaminskij, mezzo polacco. Ne risultava una strana diavoleria!" (p. 72)

Tolja pensò che a scrivere quel manifesto dovevano essere stati dei cretini. Ma chi aveva permesso di stampare quest'assurdità e di farla attaccare agli steccati?

In questo libro, che a ragione si può definire un caleidoscopio di contraddizioni e di contrasti, il capitolo "Amata bellissima terra infinita" apre all'improvviso lo scenario inconsueto dei villaggi sperduti e della campagna.

Ci racconta il viaggio di Vasilij, miracolosamente fuggito dai lager nazisti di Darnica (suo è il racconto del bestiale trattamento dei prigionieri), in cerca di un sicuro rifugio e di un lavoro in campagna. Il viaggio in compagnia del nostro giovane eroe, su un furgone militare tedesco, ricuperato in un fosso ed inadatto alla carreggiata rudimentale, tirato da un morello zoppo, ha tutta l'aria di una piacevole avventura, lontana dai tempi bui.

"Io giacevo riverso sul fieno, contemplavo le chiome ondeggianti, alle volte scorgevo il grigio scoiattolo o il picchio variopinto e pensavo, forse, a tutte queste cose insieme, che il mondo era vasto, [... lontano dalla nostra] città, dove solo il diavolo sa cosa succede, dove c'è il Babij Jar, Darnica, ordini, fame, ariani, Volksdeutsche, libri in fiamme; e fuori città tutto rimane così com'era milioni di anni fa, i pini bisbigliano sommessi con le loro cime, e sotto il cielo si stende la terra immensa e benedetta, né ariana, né ebrea, né zingaresca, ma semplicemente terra per gli uomini, precisamente per gli Uomini...". (p. 159)

La guerra, che peraltro è presente non solo per qualche segno delle battaglie (le croci sormontate dagli elmetti dei tedeschi caduti), ma soprattutto per l'assenza di uomini validi, arruolati nell'esercito - molti di loro non torneranno -, sembra lontana e, a differenza della città il cibo abbonda.

Tuttavia quello che, in questo quadro idillico, colpisce è, in primo luogo, l'arretratezza del modo di vivere quotidiano:
"La sua capanna era bassa, interrata, col tetto di paglia bucherellato e finestrelle minuscole. Dentro sembrava una caverna, col pavimento di terra battuta, sul quale si mescolavano bambole di paglia, stracci, bambini e gatti.
In mezzo troneggiava una stufa spampanata e scorticata e vicino ad essa stava un palco di legno, detto "pavimento", dove dormivano, a ponte, cioè chi per dritto e chi per traverso. L'aria era stantia e pesante, puzzolente", (p. 161)

In secondo luogo, abbandonato il kolchoz dai kolchoziani richiamati alle armi, messe in salvo le macchine agricole, l'agricoltura era arretrata allo stadio precedente alla collettivizzazione, alla produzione per autoconsumo. I sistemi di raccolta e conservazione del grano erano tornati quelli primitivi: si falciava a mano e si macinava il grano tra due pietre. Tutto ciò dava la misura del grave colpo arrecato dalla guerra all'economia e al suo funzionamento nei due sensi: la fornitura di strumenti e macchinari agricoli dalle fabbriche alle campagne e viceversa l'approvvigionamento di alimenti da queste alla città. Un gigantesco compito spettava, nel dopoguerra, alla ricostruzione.

Nel seguente capitolo "Notte", Tolja torna in città e alla sua vista si aprono nuovi scenari di distruzione:
"... dinanzi a noi si presentò il convento in fiamme. Tutte le arcate del campanile principale erano illuminate da una viva luce gialla, come una luminaria, e si sviluppava molto fumo. La cattedrale Uspenskij non esisteva più, solo una massa di rovine sulle quali spuntavano resti di mura affrescate. Bruciavano tutti i musei, tutta la cittadella compresa tra le mura [...]. Dal convento scappavano in molti e tutti dicevano che era esplosa la cattedrale Uspenskij. E dentro di essa erano custoditi molti antichi manoscritti e libri. Il vento sparpagliava le foglie in fiamme che appiccavano il fuoco dappertutto [...]. Era il 3 novembre 1941, io vidi il famoso convento delle Grotte in fiamme", (p 166)

E il Babij Jar funzionava ancora. Questa volta vi furono fucilati i marinai della flotta del Dnepr:
"I marinai furono portati al Babij Jar in una giornata molto fredda, mi pare che venisse giù una neve fine e secca [...]. Avevano le mani legate da filo di ferro, ma non tutti, perché alcuni alzavano i pugni. Camminavano in silenzio [...]. Solo ogni tanto qualcuno alzava il pugno, come se si sgranchisse le membra.
Molti erano scalzi, in mutande. Specialmente i primi erano impressionanti. Guardavano fissi avanti a sé e marciavano di scatto come se fossero di granito. Quando furono al Burrone reagirono e si misero a urlare. Gridarono: 'Viva Stalin!', 'Viva l'Armata Rossa!', 'Viva il comunismo!'", (p. 167)

Con queste immagini tragiche, che abbiamo voluto riportare interamente, per sottolineare il valore della loro testimonianza, e con la riflessione finale del protagonista si chiude il libro.

È il 23 novembre e il giornale La parola ucraina, stampato dai nazisti per demoralizzare la popolazione, strombazzava di vittorie schiaccianti della Germania, e le motivava con le assurde teorie hitleriane : "chi si batte e chi vince non sono la materia e la massa, ma l'anima e l'uomo".

Tolja, che aveva perso la speranza che qualche cliente si fermasse per farsi pulire le scarpe e sedeva "infelice e cattivo sotto al chiosco del mercato", rifletteva sul mondo che lo circondava, sulla prepotenza, la fame e la morte che vi imperavano. Si liberava dall'influenza del nonno, il suo cattivo maestro, "io capii che il nonno era uno stupido", e si domandava come tutto questo fosse accaduto e quali fossero le prospettive per il futuro.

Domande angosciose che egli attribuisce al manifestarsi del "primo segno di una maturità precoce".

Dal Babij Jar si udivano raffiche di mitragliatrici.
Kiev fu liberata dal 1° Fronte ucraino il 6 novembre 1943. L'occupazione nazista era durata 778 giorni.

Milano, 15 ottobre 2010

Note:

1) William L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1962, p. 898.
2) Enzo Collotti, La Germania nazista, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1962, pp. 250-251.
3) William L. Shirer, Op. CU., pp. 898-899.
4) Ibidem, p. 1029.
5) Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi Editore, 1960, p. 11.
6) Vedi Stalin, Problemi economici del socialismo in URSS, De Donato Editore, Bari, 1976, pp. 128-129.
7) K. Marx citato in Lenin, "Stato e rivoluzione", Opere complete, voi. 25, Editori Riuniti, Roma, 1967, p. 436.
8) Lenin, "L'imperialismo fase suprema del capitalismo", Opere complete, voi. 22, Editori Riuniti, Roma, 1966, p. 266.
9) H'ja Erenburg raccolta "La guerra" in L'URSS nella seconda guerra mondiale, voi. 1, C.E.I. Compagnia Edizioni Internazionali, Milano, 1966, p. 168.
10) Andrej Andreevic Vlasov. Generale dell'Armata rossa che nel 1942 fu fatto prigioniero dai tedeschi e passò dalla loro parte. Vedi Ludo Martens, Stalin. Un altro punto di vista, Zambon editore, 2006, p. 223 e segg.
11) Stepan Bandera. Uno dei capi della sedicente "Armata insurrezionale ucraina" appartenente all'Organizzazione di estrema destra dei nazionalisti ucraini. I suoi uomini operarono in un primo tempo sotto il comando tedesco, nel 1943 ottennero una propria autonomia, ovviamente nei limiti dell'ideologia e della prassi naziste. Furono infatti i più feroci persecutori degli ebrei e dei partigiani russi. Dopo la disfatta dei nazisti sostennero, smentiti da prove irrefutabili, di aver combattuto "contro i tedeschi e contro i russi". Vedi ibidem, pp. 151-153.
12) Lenin, "VIII Conferenza del PCR(b)", Opere complete, voi. 30, Editori Riuniti, Roma, 1967, p. 155.


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