a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare di Torino
Dizionario
enciclopedico marxista
Premessa A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z
H I J K
Idealismo, Ideologia, Illuminismo, Imperialismo, Industria, Industria domestica, Infantilismo, Intellettuale, Intellettuale collettivo, Intellettuali organici e tradizionali, Interesse, Internazionale, Internazionalismo proletario,
Il termine
appare nel linguaggio filosofico alla fine del XVII secolo in contrapposizione
a materialismo; nei testi dei teorici
marxisti, al di là delle differenze non sempre trascurabili, è usato per
indicare la tesi della priorità del pensiero su ogni oggetto esistente.
La definizione va messa in rapporto con la teoria della conoscenza (Filosofia, Materialismo dialettico) in questo
senso:
il verbo conoscere rimanda a un soggetto che conosce e a un oggetto che è
conosciuto o, come si dice, al pensiero e all'essere; la conclusione
dell'idealismo di fronte a questa coppia di elementi è che l'essere (l'oggetto,
la realtà) non è neppure immaginabile senza il pensiero (il soggetto, la
coscienza). L'elemento prioritario è dunque quest'ultimo e tutto deve esservi
ricondotto.
Se si ritiene che il pensiero sia in grado di rappresentare l'essere in maniera
conforme alla sua natura si è nella sfera dell'idealismo oggettivo, che
considerando il mondo «una realizzazione progressiva dell'idea assoluta»
attribuisce al pensiero la capacità di cogliere le idee presenti in ogni
singola parte della realtà. Se al contrario si ritiene che il pensiero non
colga l'essere così com'è, oppure che il fatto è indimostrabile o irrilevante
in quanto sempre e comunque si ha a che fare con il pensiero elaborato da un
soggetto, si è nella sfera dell'idealismo soggettivo.
E' facile comprendere che queste posizioni non si concludono all'interno della
filosofia in quanto pura e semplice teoria estranea alle cose del mondo;
affermando la priorità del pensiero sull'essere si afferma che le idee, di
fatto, precedono la realtà, che non esiste più di conseguenza tanto un soggetto
conoscente che ha da fare i conti con un oggetto a lui estraneo, quanto un
soggetto che crea i suoi oggetti; per usare le parole di Marx è una filosofia
«che discende dal cielo sulla terra, che considera le «rappresentazioni, i
pensieri, i concetti, e in genere i prodotti della coscienza» resa autonoma
dalla realtà «come le vere catene degli uomini». Ne segue che essa può
combattere soltanto una battaglia di frasi contro altre frasi ignorando il
mondo reale, e che ogni teoria o ipotesi intorno a esso non è per l'idealismo
altro che un prodotto del pensiero non giudicabile sulla base della sua
aderenza alla realtà, ma soltanto sul piano di una logica astratta. Il rapporto
pensiero:essere è dunque risolto in modo che il primo è tutto e comprende in
sé, come propria creatura, il secondo; non c'è bisogno di fare, basta pensare.
Quando l'idealismo raggiunse con Hegel la sua insuperata pienezza sistematica,
conteneva già in misura decisiva le premesse del proprio superamento. Lenin ha
così sintetizzato la situazione:
«La fede di Hegel nella ragione umana e
nei suoi diritti e la tesi fondamentale della filosofia hegeliana, secondo la
quale nel mondo avviene un processo continuo di trasformazione e di evoluzione,
portarono gli allievi del filosofo berlinese che non volevano conciliarsi con
la realtà, all'idea che anche la lotta contro la realtà, la lotta contro
l'ingiustizia esistente e contro il male dominante, debba avere le sue radici
nella legge mondiale dello sviluppo perpetuo. Se tutto si sviluppa, se le
istituzioni esistenti vengono sostituite da altre istituzioni, perché
dovrebbero durare eternamente l'autocrazia del re di Prussia o dello zar russo,
l'arricchimento di un'infima minoranza a spese della stragrande maggioranza, il
dominio della borghesia sul popolo? La filosofia di Hegel trattava dello
sviluppo dello spirito e delle idee; essa era idealista. Dallo sviluppo
dello spirito essa deduceva lo sviluppo della natura, dell'uomo e dei rapporti
sociali tra gli uomini. Marx e Engels, accettando il pensiero di Hegel sul
perpetuo processo di sviluppo, respinsero la concezione aprioristica
dell'idealismo; studiando la vita essi videro che non è lo sviluppo dello
spirito che spiega lo sviluppo della natura, ma che, viceversa, lo spirito va
spiegato per mezzo della natura, della materia» (Friedrich Engels in
Marx-Engels-Marxismo, p. 45).
Conclusa l'epoca dell'idealismo come filosofia sistematica che
abbracciava l'intero campo dei fenomeni del reale e del sapere in forma
organica, l'idealismo in quanto tendenza generica a risolvere il rapporto tra
pensiero ed essere in termini comunque idealistici è passato in molte correnti
della filosofia borghese contemporanea e di qui in altri campi del sapere.
Termine
coniato dal filosofo francese Destutt De Tracy negli ultimi anni del secolo
XVIII per indicare una nuova disciplina scientifica il cui oggetto di studio
avrebbe dovuto essere la formazione delle idee e la ricerca delle leggi che le
governano; successivamente la parola fu usata in senso completamente diverso
per indicare teorie artificiose, astratte, senza alcun legame con la realtà.
Marx raccolse questo significato, molto diffuso nella prima metà
dell'ottocento, dandogli una precisa fisionomia collegata ai suoi rapporti con
la società: per Marx, infatti, l'ideologia è un sistema di idee (filosofiche,
morali, sociali, giuridiche, politiche, ecc.) che si presenta come indipendente
da ogni condizionamento che non sia quello derivante dalle leggi del puro
pensiero. Questa è già una falsa pretesa alla cui base si trova la convinzione
implicita che il pensiero abbia una sua vita e una sua storia staccata dalle
condizioni reali degli uomini che pensano. Per Marx l'inizio di ogni
riflessione che non voglia cadere in questo errore ma, al contrario, tener
d'occhio la realtà deve essere diverso:
«... non si parte da ciò che gli uomini
dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si immagina, si
rappresenta che siano, per arrivare da qui agli uomini vivi; ma si parte dagli
uomini realmente operanti e sulla base del processo reale della loro vita si
spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo
di vita. Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell'uomo sono
necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita, empiricamente
constatabile e legato a presupposti materiali. Di conseguenza la morale, la
religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza
che ad esse corrispondono, non conservano oltre le parvenze dell'autonomia.
Esse non hanno storia, non hanno sviluppo, ma gli uomini che sviluppano la loro
produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con
questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non
è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza» (Ideologia
tedesca, in Opere, V, p. 22).
In assenza di questi presupposti si arriva a considerare ogni idea o
sistema di idee come «un individuo vivente»; Engels parlava in questo caso del
«vecchio e prediletto metodo ideologico» consistente «non già nel conoscere le
qualità di un oggetto traendole dall'oggetto stesso» ma nel ricavarle mediante
un processo deduttivo dal concetto dell'oggetto; in altre parole ci si fa, in
un primo tempo, un'idea sommaria di una cosa e poi «si rovescia la frittata»
prendendo l'idea della cosa come termine di confronto per la cosa stessa, alla
fine non è più l'idea a dover corrispondere alla cosa ma questa all'idea, non
il pensiero a doversi uniformare alla realtà, ma la realtà al pensiero.
Le ideologie non sono però soltanto innocui esercizi teorici; di fatto esse
nascono e crescono in una società divisa in mille modi ed è proprio una di
queste divisioni, quella del lavoro materiale dal lavoro intellettuale (Divisione del lavoro), che assicura al
pensiero 1'opportunità di «emanciparsi dal mondo», di immaginare cioè le idee
in forma distaccata dalla vita reale.
Ciò non è senza conseguenze. La situazione effettiva - economica, sociale,
politica, ecc. - in cui si formano le ideologie non è una situazione ideale di
pacifica uguaglianza, ma al contrario una situazione di scontro, lacerata
dall'antagonismo tra classi dominanti e classi subalterne. E si dà il caso,
osserva Marx, che gli uomini appartenenti alle prime
«... in quanto dominano come classe e
determinano l'intero ambito di un'epoca storica, è evidente che essi lo fanno
in tutta la loro estensione, e quindi fra l'altro dominano anche come pensanti,
come produttori di idee che regolano la produzione e la distribuzione delle
idee del loro tempo; è dunque evidente che le loro idee sono le idee dominanti
dell'epoca» (ivi, pp. 44-45).
Queste idee che rappresentano in vario modo il pensiero della classe al
potere nelle sue diverse componenti dominano la cultura dell'epoca in tutte le
sue espressioni particolarmente laddove queste assumono un interesse pratico
immediato per la conservazione del potere, come nella scuola e nella sfera del
diritto; inoltre le idee della classe dominante vengono diffuse in ogni
circostanza, a ogni livello, su ogni argomento della vita quotidiana in modo
non solo da contenere e screditare gli atteggiamenti critici ma da esercitare
una vasta opera di persuasione, più o meno diretta, sulle classi subalterne.
E' da notare che la divisione del lavoro è penetrata anche all'interno della
classe dominante così che una sua parte
«... si presenta costituita dai
pensatori della classe (i suoi ideologi attivi, concettivi, i quali
dell'elaborazione dell'illusione di questa classe su se stessa fanno il loro
mestiere principale), mentre gli altri nei confronti di queste idee e di queste
illusioni hanno un atteggiamento più passivo e più ricettivo, giacché in realtà
sono i membri attivi di questa classe e hanno meno tempo di farsi delle idee e
delle illusioni su se stessi» (ivi, p. 45).
Può anche accadere che tra i suoi gruppi si sviluppino delle ostilità e
allora sorge l'impressione della reciproca indipendenza, ma non appena si
profila un pericolo per la classe nel suo insieme «si dilegua anche la parvenza
che le idee dominanti non siano le idee della classe dominante e abbiano un
potere distinto da questa classe».
Marx e Engels usarono sempre la parola ideologia in senso negativo (Falsa coscienza) non per sostenere che
nelle ideologie mancassero elementi di verità ma per indicare che questi
apparivano interpretati e disposti in modo da favorire o quanto meno non ledere
gli interessi della classe corrispondente.
Successivamente, anche ad opera dei marxisti russi che non avevano potuto
leggere né l'Ideologia tedesca né altri scritti ancora inediti, il
termine ideologia venne usato in modo generico per indicare un sistema di idee:
si parlò così di ideologia marxista, proletaria, borghese, cattolica, ecc.
Storicamente
è il movimento di pensiero che nel XVIII secolo, specialmente in Francia,
condusse un'aspra critica contro l'autoritarismo e le idee tradizionali in ogni
campo. Ne fecero parte D'Alambert, Diderot, La Mettrie, Voltaire, Holbach, e
molti altri. Engels li ricorda come
«I grandi uomini che in Francia,
illuminando gli spiriti, li prepararono alla rivoluzione che si avvicinava,
agirono essi stessi in un modo estremamente rivoluzionario. Non riconoscevano
nessuna autorità esteriore di qualsiasi specie essa fosse. Religione,
concezione della natura, società, ordinamento dello stato, tutto fu sottoposto
alla critica più spietata; tutto doveva giustificare la propria esistenza
davanti al tribunale della ragione o rinunciare all'esistenza. L'intelletto
pensante fu applicato a tutto come unica misura» (Antidühring, p. 24).
Attualmente il termine di illuminismo viene talvolta usato in senso
critico per indicare la ripresa diretta di idee e posizioni di quel movimento
quasi che il tempo non fosse passato. Così, per esempio, si dice che ha un
atteggiamento illuministico chi si avvale di una generica idea di progresso per
spiegare fenomeni ora assai meglio conosciuti o chi pensa che l'istruzione,
comunque portata, abbia un potere risolutivo nei confronti dei molti problemi
sociali della nostra epoca.
E' un fenomeno
che investe l'economia, le caratteristiche politiche, sociali, culturali e
istituzionali delle società borghesi a capitalismo avanzato, allorquando lo
sviluppo del modo di produzione capitalistico o le esigenze di accrescimento
del capitale non potrebbero essere soddisfatte nel quadro di un'economia
limitata nei confini nazionali.
L'aumento della concorrenza determina infatti la necessità, per mantenere alto
o per aumentare il profitto, di investire maggiore capitale in macchinari e
tecnologia. Le imprese capitalistiche sono pertanto spinte a cercare all'estero
mercati ancora liberi dalla concorrenza (Capitalismo monopolistico
e Capitale finanziario).
Questa fase si distingue dal precedente sviluppo di tipo «liberistico» perché i
paesi capitalisti, invece di importare materie prime e di esportare merci,
tendono a investire capitali nei paesi industrialmente meno avanzati o
sottosviluppati, influenzando così il loro stesso sviluppo economico, sociale e
politico.
In questo tipo di colonialismo sorge ben
presto una concorrenza tra gli stessi paesi imperialisti anche nella
spartizione delle «zone di influenza».
Secondo la concezione marxista-leninista l'imperialismo è dovuto all'evoluzione
delle caratteristiche fondamentali del capitalismo, come estremo tentativo di
assicurare sbocchi commerciali alla produzione sovrabbondante sul mercato
interno.
Mentre i teorici della seconda internazionale (Kautsky, Bernstein) separavano
la politica imperialista dallo sviluppo in senso monopolistico del capitalismo,
Lenin vide invece la necessità per il capitalismo della politica colonialista
per il mantenimento del profitto. Egli individua cioè nell'imperialismo una
fase storica necessaria del capitalismo. Per Lenin inoltre i caratteri
dell'imperialismo sono quelli del capitalismo sulla via del tramonto
(«putrefazione» e «parassitismo» del capitalismo) necessari per il mutamento
dei rapporti di produzione.
Sotto l'aspetto politico, l'imperialismo si configura come tendenza alla
reazione e al fascismo dal punto di vista della politica interna e, per quella
estera, all'aggressione e alla guerra ad altri popoli meno progrediti. Lenin
mette in rilievo la differenza tra l'imperialismo del periodo monopolistico
rispetto a quelli precedenti:
«Politica coloniale e imperialismo
esistevano anche prima del più recente stadio del capitalismo, anzi, prima del
capitalismo stesso. Roma, fondata sulla schiavitù, condusse una politica
coloniale ed attuò l’imperialismo. Ma le considerazioni "generali"
sull'imperialismo che dimentichino le fondamentali differenze tra le formazioni
economico-sociali o le releghino nel retroscena, degenerano in vuote banalità»
(Lenin, L'Imperialismo, in Opere scelte, voi unico, p. 228).
Anche la politica coloniale dei precedenti stadi del capitalismo si
differenzia sostanzialmente dalla politica coloniale del capitale finanziario:
la caratteristica fondamentale del moderno capitalismo è costituita dal dominio
delle leghe monopolistiche dei grandi imprenditori.
Il periodo dell'imperialismo, secondo il marxismo, è stato preceduto ed è la
conseguenza di una serie di crisi economiche internazionali, di cui la più
grave ha avuto inizio negli ultimi decenni del secolo scorso, a cui la
borghesia ha cercato di sfuggire attraverso la soppressione della libera
concorrenza e con quella che è nota come la formazione del capitale finanziario
(compenetrazione del capitale bancario con quello industriale).
A questo proposito Lenin delinea la formazione e lo sviluppo dell'imperialismo
in tre momenti: un primo periodo dal 1860 al 1870 durante il quale si verifica
l'apogeo della libera concorrenza e i monopoli sono soltanto in embrione; un
secondo periodo dopo la crisi del 1873 in cui si ampliò lo sviluppo dei cartelli o
trust, e infine l'ascesa degli affari alla fine del sec. XIX e il
periodo della crisi degli anni 1900-1903 durante i quali i cartelli diventano
una delle basi di tutta la vita economica.
Lenin poi delinea i principali contrassegni dell'imperialismo: in primo luogo
la concentrazione della produzione e del capitale, poi la formazione di
un'oligarchia finanziaria sulla base del capitale finanziario, l'importanza
avuta dall'esportazione di capitale rispetto all'esportazione di merci, la
nascita di associazioni monopolistiche internazionali, e infine la compiuta
ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.
«L'imperialismo è dunque il capitalismo
giunto a quella fase di sviluppo in cui si è formato il dominio dei monopoli e
del capitale finanziario, l'esportazione di capitale ha acquistato grande
importanza, è incominciata la ripartizione del mondo tra i trust
internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell'intera superficie
terrestre tra i più grandi paesi capitalistici» (ivi, p. 234).
Rispetto all'antico imperialismo, quello moderno è basato su due
fondamentali novità: la concorrenza dei diversi imperialismi e la prevalenza
del finanziere sul commerciante. L'imperialismo rappresenta quindi storicamente
una «scelta obbligata» compiuta dalla borghesia dei paesi capitalistici più
sviluppati, in quanto unica alternativa possibile per superare le difficoltà
economiche intrinseche al capitalismo liberistico, senza tuttavia rinunciare al
sistema di organizzazione sociale fondato sul profitto capitalistico.
Conseguentemente l'imperialismo rappresenta l'ultima forma possibile di
organizzazione economica capitalistica e inoltre determina le condizioni
internazionali (lotte di liberazione dei popoli coloniali) per la definitiva
soppressione dell'imperialismo stesso. In questo senso l'imperialismo è «la
fase suprema del capitalismo».
Come attività
collettiva organizzata intorno a materiali da trasformare in vista di un certo
uso, essa esiste fin dall'antichità; l'estrazione di minerali e la costruzione
di edifici, per esempio, sono forme antichissime di industria basate quasi
esclusivamente sul lavoro degli schiavi e sull'uso di macchine molto semplici
(mulini ad acqua, argani, ecc.) o di strumenti di lavoro individuali. Per
questo Marx, criticando le considerazioni ideologiche sui rapporti tra uomo e
natura, poteva affermare che «la celeberrima unità dell'uomo con la natura è
sempre esistita nell'industria». Qui infatti l'uomo attraverso il lavoro
conosce, utilizza e modifica forze e materiali naturali.
Ma è con l'introduzione di «macchinari», cioè di un insieme comprendente la
macchina motrice, il meccanismo di trasmissione, la macchina utensile o
operatrice, che sorge quella che Marx chiama la «grande industria», l'industria
moderna, erede della manifattura. Qui
«l'articolazione del processo lavorativo
sociale è puramente soggettiva, è una combinazione di operai
parziali; nel sistema delle macchine la grande industria possiede un organismo
di produzione del tutto oggettivo, che l'operaio trova davanti a sé,
come condizione materiale di produzione pronta» (Il Capitale, libro I,
p. 428).
Questa condizione materiale esige il lavoro in comune: «il carattere
cooperativo del processo lavorativo diviene dunque necessità tecnica imposta
dalla natura del mezzo di lavoro stesso»; di conseguenza è necessaria una
coerente organizzazione che regoli il lavoro in comune nel modo più adatto a
favorire il funzionamento delle macchine. Nascono così i regolamenti e le norme
di lavoro per gli operai; dal piano tecnico si passa al piano umano, sociale,
indicando i comportamenti più razionali nel processo lavorativo. Il capitalismo
si impadronisce di questa pur necessaria elaborazione di regole e la trasforma
in un codice oppressivo che ha per scopo l'intensificazione dello sfruttamento:
«Il codice della fabbrica in cui il capitale formula come privato legislatore e
arbitrariamente la sua autocrazia sugli operai, prescindendo da quella
divisione dei poteri tanto cara alla borghesia e da quel sistema
rappresentativo che le è ancor più caro, non è che la caricatura capitalistica
della regolazione sociale del processo lavorativo» (Il Capitale,
libro I, pp. 468-469).
La democrazia borghese, in altre parole, si sbarazza apertamente delle proprie
illusioni davanti alla porta della fabbrica al suo interno infatti i grandi
principi di libertà, di uguaglianza, di dignità perdono il loro significato e
l'uomo «libero» che ha «liberamente» venduto la propria forza-lavoro diventa un'appendice della
macchina. Riassume Engels:
«E' fenomeno comune a tutta la
produzione capitalistica, in quanto non sia soltanto processo lavorativo, ma
anche processo di valorizzazione del capitale, che non è l'operaio ad adoperare
la condizione del lavoro, ma, viceversa, la condizione del lavoro ad
adoperare l'operaio; ma questo capovolgimento viene ad avere soltanto con
le macchine una realtà tecnologicamente evidente. Mediante la sua
trasformazione in macchina automatica, il mezzo di lavoro si
contrappone all'operaio durante lo stesso processo lavorativo quale capitale,
quale lavoro morto, che domina e succhia la forza-lavoro vivente» (Studi sul
Capitale, pp. 79-80).
I temi dell'industria, e quindi delle macchine, sono per Marx essenziali
non solo per lo studio del modo capitalistico di produzione in senso tecnico-economico,
ma anche per individuare le nuove forme di servitù dell'esistenza umana; dai Manoscritti
del ‘44 al Capitale la disgregazione dell'uomo è il centro di un
interesse che si esprime dapprima nei termini filosofici dell'estraniazione, dell'alienazione, della reificazione, poi in termini più concreti
del modo di essere dell'uomo nel sistema di fabbrica, cioè in un
complesso organico di macchine che non ha più alcun bisogno della tradizionale
abilità artigiana del passato; qui si compiono, per usare le parole del Capitale,
il cammino verso «la desolazione intellettuale», la trasformazione dell'uomo in
semplice macchina che produce plusvalore, la corruzione dello sviluppo dello
spirito: tanto più gravi in quanto esse sono di fatto una realtà nella quale il
lavoratore è gettato fin dall'infanzia o dalla primissima gioventù.
Certamente negli anni in cui Marx scriveva queste righe la situazione era
giunta a un punto così drammatico da indurre la borghesia a porvi un limite; il
parlamento della nazione più altamente industrializzata, l'Inghilterra, istituì
l'obbligo legale dell'istruzione elementare quale condizione per il consumo
«produttivo» dei ragazzi al di sopra dei 14 anni. Con ciò si pensava di
salvaguardare almeno in parte lo sviluppo della personalità minato dal lavoro
in fabbrica; in altri Stati, quando l'industrializzazione portò a problemi
analoghi si adottarono provvedimenti dello stesso genere.
La grande industria, dove l'applicazione cosciente della scienza aveva
sostituito l'esperienza connessa con i vecchi mestieri, segnava la decisiva
affermazione del modo di produzione capitalistico su ogni altro precedente; nel
con tempo formava alla sua «dura scuola» la coscienza della nuova classe con la
quale, entro un tempo brevissimo, avrebbe dovuto sostenere ben altre lotte da
quelle delle occasionali e confuse ribellioni del più recente passato.
Attività
produttiva, sorta prevalentemente nelle campagne a partire dalla fine del XIV
secolo, svolta da artigiani su commissione di mercanti che fornivano sia la
materia prima che gli strumenti di lavoro. In questo modo i mercanti tendevano
ad aggirare l'ostacolo dei prezzi maggiori fissati dalle corporazioni urbane
degli artigiani: nelle campagne invece gli artigiani si trovavano in condizioni
molto diverse; lontani dai mercati, che potevano raggiungere solo abbandonando
il lavoro per periodi relativamente lunghi, finivano col vendere i loro
prodotti all'unico mercante presente sul luogo di lavoro. In breve, la
dipendenza dal mercante, che era solitamente anche il fornitore delle materie
prime, produsse un diffuso indebitamento e i mercanti si trovarono spesso ad
essere proprietari degli strumenti di lavoro degli artigiani.
Successivamente l'industria a domicilio conobbe un notevole sviluppo che portò
alla ribalta la figura del mercante-imprenditore, nella quale si manifestava
concretamente la prevalenza del capitale monetario sulla piccola produzione
mercantile (Capitale commerciale). Sorse
ben presto la necessità, in certi settori, di organizzare la produzione in
forme più controllabili da parte dell'imprenditore: nacquero così le manifatture.
Nell'epoca del capitalismo moderno esiste ancora un'attività chiamata industria
domestica che, per usare le parole di Marx, ha in comune con quella del passato
soltanto il nome, essendo un puro rapporto esterno della fabbrica in cui il
lavoro può essere eseguito con attrezzature modestissime e il più delle volte
da mano d'opera non esperta e ancor meno retribuita.
Questa situazione è continuata anche dopo l'affermazione del capitalismo
monopolistico e costituisce una fonte di profitto che può essere ingrandita o
ridotta, senza comportare investimenti i proporzionali.
Una strategia
politica è «infantile» quando invece di tener conto della situazione concreta,
è ispirata piuttosto da atteggiamenti emotivi che travisano o perdono di vista
i caratteri oggettivi di una determinata realtà storica. Engels, riferendosi al
proclama dei Comunardi blanquisti del 1874, scriveva nello stesso anno: «Quale
puerile ingenuità portare come argomento teorico la propria impazienza!».
Lenin a sua volta metteva in guardia dalle analisi avventate, dalla
superficialità e dalla rigidezza di certe posizioni teoriche che, individuando
in modo schematico i caratteri di una situazione, finiscono col proporre forme
unilaterali di lotta con scarse probabilità di successo o, peggio, destinate
fin dall'inizio alla sconfitta.
«La conclusione è chiara: negare per
principio i compromessi, negare in generale ogni ammissibilità di compromessi,
di qualunque genere essi siano, è una puerilità, che è persino difficile
prendere sul serio» (Lenin, L'estremismo malattia infantile del comunismo,
p. 24).
Genericamente
indica l'attività separata e diversa dall'attività pratica. Intellettuali sono
definiti coloro che svolgono prevalentemente questo tipo di attività, il più
delle volte come professione. La concezione materialistica della storia
riconduce il problema della definizione di ciò che è «intellettuale» e
dell'analisi della funzione di coloro che svolgono prevalentemente un'attività
intellettuale, al più generale problema della divisione sociale del lavoro e della società
divisa in classi. Infatti l'attività intellettuale ha potuto apparire come
indipendente dalla produzione materiale solo dal momento in cui una parte della
società si è trovata nella condizione di poter ottenere i propri mezzi di
sussistenza senza produrli direttamente. Gli intellettuali sono dunque il
prodotto di una delle prime e più importanti divisioni dei compiti all'interno
della società, che sostanzialmente corrisponde anche alla nascita di due classi
distinte: coloro che producono i mezzi di sussistenza e coloro che non hanno bisogno
di farlo, perché possono ottenerli utilizzando il lavoro dei primi.
Soltanto una parte di questi ultimi fu in grado di dedicarsi interamente
all'elaborazione di teorie, concezioni e idee che costituiscono il patrimonio
intellettuale dell'umanità. Marx afferma: «Quegli stessi uomini che
stabiliscono i rapporti conformemente alla loro produttività materiale,
producono anche i principi, le idee, le categorie, conformemente ai loro
rapporti sociali».
Nel corso dello sviluppo storico la separazione fra trasformazione pratica del
mondo e riflessione teorica si è ulteriormente approfondita, fino a determinare
un contrasto inconciliabile all'interno del capitalismo. La borghesia ha
elaborato e approfondito, attraverso i suoi intellettuali, le conoscenze di tutta
l'epoca storica in cui essa è la classe dominante. Tuttavia le contraddizioni
del modo di produzione capitalistico si riflettono anche in questo grande
lavoro teorico, al punto che le «idee dominanti» della borghesia hanno
suscitato dei problemi che non possono trovare soluzione se non oltre il suo
punto di vista, che è necessariamente limitato e ristretto dai suoi interessi
di classe.
La classe operaia ha anch'essa prodotto una «coscienza teorica», ma lo ha fatto
solo in quanto si è posta come classe rivoluzionaria, che ha creato un nuovo
tipo di attività intellettuale che ha come scopo diretto la soppressione della
separazione tra lavoro manuale e intellettuale, il ricongiungimento di teoria e
pratica, la critica sia delle idee borghesi, che della realtà storica in cui
sono le idee dominanti.
Il problema degli intellettuali è dunque, nel marxismo, sia quello della
formazione di nuovi «intellettuali», organicamente legati alla funzione storica
della classe operaia (Intellettuali
organici e tradizionali), che quello del superamento pratico, concreto e
storico della separazione fra teoria e prassi, fra intellettuali e produttori. Il
problema della funzione degli intellettuali, in Italia fu affrontato, dal punto
di vista marxista, da Gramsci, all'interno della prospettiva della costruzione
di un nuovo blocco storico e della
realizzazione dell'egemonia della classe
operaia.
Gramsci
sviluppò la concezione del partito come «intellettuale collettivo». Nella sua
analisi l'intervento diretto di grandi masse nella vita delle nazioni moderne,
la costituzione di una vasta rete di organi di informazione e di mezzi di
comunicazione, rendono indispensabile l'organizzazione e la centralizzazione
delle forze e delle aspirazioni, della «volontà collettiva», di settori sempre
più ampi di popolazione. Questa funzione non può più essere svolta, secondo
Gramsci, come avveniva spesso nel passato, da «una persona reale, un individuo
concreto» ma è compito di un «organismo collettivo», di «un elemento di società
complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva
riconosciuta e affermatasi parzialmente nell'azione».
Non solo tutti gli appartenenti a un partito politico diventano
«intellettuali», cioè svolgono una «funzione che è direttiva e organizzativa,
cioè educativa, cioè intellettuale», ma l'intero partito svolge nei confronti
della classe che rappresenta un ruolo fondamentalmente educativo e di direzione
politica, cosa che può avvenire solo in quanto è un «collettivo»:
«Con l'estendersi dei partiti di massa
e il loro aderire organicamente alla vita più intima (economico-produttiva)
della massa stessa, il processo di standardizzazione dei sentimenti popolari da
meccanico e casuale diventa consapevole e critico. La conoscenza e il giudizio
di importanza di tali sentimenti non avviene più da parte dei capi per
intuizione ... ma avviene da parte dell'organismo collettivo per
"compartecipazione attiva e consapevole", per
"con-passionalità", per esperienza dei particolari immediati ... Così
si forma un legame stretto tra grande massa, partito, gruppo dirigente, e tutto
il complesso, ben articolato, si può muovere come un "uomo
collettivo"» (Gramsci, Quaderni del Carcere, p. 1430).
Intellettuali organici e tradizionali
Secondo
Gramsci
«Ogni gruppo sociale, nascendo sul
terreno originario di una funzione essenziale nel mondo della produzione
economica, si crea insieme, organicamente, uno o più ceti di intellettuali che
gli danno omogeneità e consapevolezza della propria funzione non solo nel campo
economico, ma anche in quello sociale e politico» (Quaderni del Carcere,
p. 1513).
Lo studio della formazione di questo tipo di intellettuali fu uno dei
più impegnativi per Gramsci nel periodo del carcere. Egli, ampliando
notevolmente l'accezione del termine «intellettuale», si oppose alla concezione
che intendeva l'attività intellettuale come separata dalla cosiddetta attività
pratica e più in generale dall'attività produttiva, criticando anche la pretesa
esistenza di un «ceto» intellettuale autonomo dalle classi sociali direttamente
legate al mondo della produzione. Tuttavia ogni gruppo sociale che «emerge
dalla storia» si trova a dover contrastare il ceto di intellettuali legato ai
gruppi preesistenti, che Gramsci chiama «intellettuali tradizionali». «La più tipica
di queste categorie intellettuali è quella degli ecclesiastici ... (che) ...
può essere considerata ... la categoria intellettuale organicamente legata
all'aristocrazia fondiaria».
Gramsci si adoperò per favorire la formazione di un nuovo tipo di intellettuali
che formassero il «personale politico specializzato» in grado di svolgere
un'opera di «direzione» e organizzazione nel processo di formazione di un nuovo
blocco storico:
«ogni nuovo organismo storico (tipo di società) crea una nuova superstruttura,
i cui rappresentanti specializzati e portabandiera (gli intellettuali) non
possono non essere concepiti anch'essi come "nuovi" intellettuali,
sorti dalla nuova situazione e non continuazione della precedente
intellettualità» (ivi, p. 1407).
L'interesse è
la parte del profitto, o meglio del plusvalore, che il capitalista operante,
industriale o commerciante, qualora impieghi capitale preso a prestito deve pagare
al proprietario che gli ha prestato questo capitale. Nell'analizzare le
caratteristiche specifiche che il capitale assume quando viene prestato per
essere restituito con un interesse, cioè quando diventa capitale produttivo
di interesse, Marx mette in rilievo la particolare forma mistificata in cui
appaiono i rapporti sociali nel modo di produzione capitalistico:
«E' nel capitale produttivo di
interesse che il rapporto capitalistico perviene alla sua forma più esteriore e
assume l'aspetto di un feticcio. Noi abbiamo qui D-D', denaro che produce più
denaro, valore che valorizza se stesso, senza il processo che serve da
intermediario fra i due estremi … Il rapporto sociale è perfezionato come
rapporto di una cosa, del denaro, con se stessa ... Qui la figura di feticcio
del capitale e la rappresentazione del capitale come feticcio sono portate a
termine ... Nella sua forma immediata, in quanto il capitale produttivo di
interesse, e precisamente nella sua forma di capitale monetario produttivo di
interesse ... il capitale riceve la sua forma di feticcio pura, D-D', come
soggetto, cosa vendibile» (Il Capitale, libro III, pp. 463, 464, 465).
Infatti l'interesse ha, in realtà, la stessa origine del plusvalore: lo
sfruttamento della forza-lavoro. Ma il
capitale produttivo di interesse non viene impegnato direttamente e
immediatamente nella produzione, ma solo dopo che è stato prestato. Marx
osserva che in questo modo il capitale viene usato come merce. Nel capitale produttivo
di interesse il capitale è merce.
Tuttavia non solo non è una merce come tutte le altre, in quanto il suo valore
d'uso è quello di essere capitale e quindi di valorizzarsi (e in questo Marx
rileva un'analogia, anche se solo formale, con la forza-lavoro, poiché
anch'essa, quando è venduta come merce produce valore), ma il capitale
produttivo di interesse non viene affatto venduto in cambio di un equivalente,
bensì viene solo momentaneamente alienato dal suo proprietario per ritornare al
suo punto di partenza, valorizzato, con gli interessi, al termine di un ciclo
produttivo o di un determinato periodo di tempo anche più lungo.
La complessità dei rapporti che intercorrono tra chi presta e chi riceve in
prestito il capitale, che in una fase avanzata di sviluppo del capitalismo sono
sempre mediati dal credito, dalle banche, ecc., e la concorrenza tra chi presta e chi riceve in
prestito il capitale per aumentare la propria parte di profitto, accentuano in
modo mistificatorio l'analogia del capitale produttivo di interesse con la
merce «normale».
Questo è uno dei motivi per cui l'economia borghese in genere, e lo stesso
Proudhon, che pure per certi aspetti fu critico nei confronti del capitalismo,
definisce l'interesse come prezzo del capitale. Questa è, del resto, una delle
definizioni tuttora più diffuse, o che almeno sottende a molte interpretazioni
attuali dell'interesse. A questo proposito Marx osserva che definire
«l'interesse come prezzo del capitale è un'espressione del tutto irrazionale»,
infatti il prezzo di una merce è il suo valore espresso in denaro, ma il
capitale produttivo di interesse è essenzialmente capitale monetario, cioè
denaro:
«Come potrebbe ora una somma di valore avere un prezzo oltre al proprio prezzo,
oltre al prezzo espresso nella sua stessa forma monetaria? ... Un prezzo che
differisca qualitativamente dal valore è una contraddizione assurda» (ivi, pp.
420-421).
Inoltre la reale natura dell'interesse può essere compresa, secondo Marx, solo
a condizione che il capitale produttivo di interesse venga considerato nel suo
processo complessivo di valorizzazione, quindi nel suo rapporto antagonistico
da un lato con il profitto commerciale e industriale, e dall'altro come parte
costitutiva del capitale complessivo, nella sua contraddizione fondamentale con
il lavoro salariato. La semplice espressione giuridica, formale, del contratto
tra chi presta e chi riceve in prestito del denaro non rivela, anzi nasconde,
il legame profondo che sussiste tra profitto medio e interesse, e
rispettivamente tra saggio medio del profitto (Saggio del profitto) e saggio
dell'interesse, che esprime la proporzione tra interesse e capitale
prestato.
«Il carattere sociale antagonistico
della ricchezza materiale - il suo antagonismo col lavoro - quale lavoro
salariato è espresso, a parte il processo di produzione, già nella proprietà di
capitale in quanto tale. Questo momento particolare, separato dallo stesso
processo di produzione capitalistico, di cui è un costante risultato e quindi
una costante premessa, si esprime nel fatto che il denaro, e parimenti la
merce, in sé e per sé, sono capitale in modo latente e potenziale, che essi
possono essere venduti come capitale, rappresentando in questa forma il potere
di disporre di lavoro altrui, il diritto di appropriarsi di lavoro altrui,
costituendo quindi valore che si valorizza» (ivi, p. 422).
Organizzazione
dei movimenti operai sul piano internazionale. Il primo tentativo di
unificazione delle organizzazioni operaie dei diversi paesi, per l'elaborazione
di un programma di lotta che superasse i limiti imposti dai confini nazionali,
costituisse un adeguamento allo sviluppo della coscienza della classe operaia e
rispondesse al carattere internazionale dello sfruttamento capitalistico con
una lotta internazionale, fu la I Internazionale.
Tra i principali sostenitori della necessità di questa associazione furono Marx
ed Engels, che contribuirono notevolmente a organizzare nel 1864 a Londra il
primo congresso di questa «Associazione Internazionale degli Operai».
All'interno della I Internazionale sorsero, tuttavia, dei contrasti sul
problema del ruolo della classe operaia e su quali dovessero essere le sue
forme di organizzazione per il raggiungimento degli obiettivi rivoluzionari.
Soprattutto in seguito alla sanguinosa i repressione della Comune di Parigi,
nel 1871, le divergenze sulle prospettive di sviluppo dell'associazione
internazionale divennero inconciliabili e nel 1872 di fatto la I Internazionale
cessò di esistere. Essa fu sciolta ufficialmente nel 1876. Alla I
Internazionale partecipò, fino al 1872, anche la corrente anarchica, capeggiata
da Bakunin.
Tredici anni dopo, una vasta ripresa dell'attività politica e organizzativa del
movimento operaio ripropose il problema di un'organizzazione e di un'attività
internazionale dei partiti socialisti («socialdemocratici»), che nel frattempo
si erano formati in gran parte dei paesi europei. Fu costituito, così, a Bruxelles
un ufficio permanente che diresse la Il Internazionale. Tuttavia anche questa
esperienza mostrò ben presto i suoi limiti storici, a causa soprattutto delle
tendenze opportuniste (Opportunismo) dei
suoi principali esponenti, che giunsero fino al punto di appoggiare la politica
imperialista dei governi dei principali paesi europei. Con lo scoppio della
prima guerra mondiale la contraddizione tra le aspirazioni rivoluzionarie delle
classi oppresse e la politica della Il Internazionale giunse al punto che si
rese necessaria la creazione di una III Internazionale, nel 1919, che fu
chiamata Internazionale Comunista.
Soprattutto Lenin contribuì alla costruzione di questo nuovo organismo, che
riunificò le correnti rivoluzionarie che erano state in minoranza all'interno
della Il Internazionale, a cui Lenin stesso aveva partecipato, favorendo la
formazione dei partiti comunisti in tutto il mondo. Questa Internazionale fu
l'esperienza forse più significativa e progredita di lotta internazionale del
movimento operaio e contadino e contribuì grandemente alla lotta contro il
nazifascismo (Fronte), mantenendo saldi legami
tra i vari partiti comunisti anche durante la seconda guerra mondiale. Fu
sciolta nel 1943. Da allora non sono più stati fatti tentativi importanti di
creare altri organismi internazionali per il coordinamento del movimento
operaio.
E' la
concezione che sostiene la necessità dell'unione e dell'aiuto reciproco tra le
forze rivoluzionarie di tutto il mondo.
In particolare si oppone al nazionalismo e all'imperialismo. Fin dai primi anni
della sua esistenza il movimento operaio organizzato ha fatto propria la
concezione internazionalista, organizzando associazioni internazionali (Internazionale) e appoggiando «dappertutto
ogni moto rivoluzionario contro le condizioni sociali e politiche esistenti».
La concezione internazionalista propria del marxismo afferma che è
indispensabile che le classi oppresse conducano la lotta rivoluzionaria contro
i rispettivi governi per contribuire allo sviluppo della rivoluzione
internazionale. Secondo Lenin l'internazionalismo consiste nell'affermare,
agendo di conseguenza, che «l'interesse della rivoluzione operaia
internazionale sta al di sopra dell'integrità territoriale, della
sicurezza, della tranquillità di questo o quello, e più esattamente del
proprio Stato nazionale».