È una continua fonte di frustrazione che un settore importante della sinistra sia dell'avviso che indebolire il pluridecennale controllo esercitato dagli Stati Uniti sui livelli più alti della gerarchia dell'imperialismo equivalga - in sé - ad attaccare l'imperialismo.
Molti dei nostri amici, compresi coloro che sostengono di aspirare a un futuro socialista, ravvisano erroneamente nell'erosione della posizione degli USA quale potenza egemone del sistema imperialista un passaggio indispensabile per garantire un futuro giusto, una pace duratura o un progresso verso il socialismo.
Se è vero che coloro che combattono lo Stato-nazione più potente del sistema imperialista per conquistare la sovranità, l'autonomia o una via indipendente meritano sempre il nostro appoggio entusiastico e assoluto, una vittoria in questa lotta potrebbe anche non garantire un futuro migliore per i lavoratori. I vincitori, come è spesso avvenuto nelle lotte anticoloniali del dopoguerra, potrebbero anche ritrovarsi prigionieri di una classe dominante locale affamata di potere, sfruttatrice e antidemocratica, che proseguirebbe o intensificherebbe l'oppressione del popolo, magari soltanto con uno stile più familiare.
Oppure, potrebbero subire la sostituzione di un'ex-grande potenza in declino o sconfitta con un'altra grande potenza più forte. Germania e Turchia, sconfitte nella prima guerra mondiale, persero molte delle loro colonie a vantaggio dei vincitori; dopo la seconda guerra mondiale, alcune delle colonie giapponesi furono ricolonizzate e caddero nelle grinfie di un'altra potenza più forte; e naturalmente il Vietnam, dopo aver sconfitto la Francia, si ritrovò ricacciato a forza nella sfera d'interesse statunitense - un esito poi rovesciato definitivamente dall'eroico Vietnam.
Sostenere che il declino o la caduta degli USA quale principale grande potenza del sistema imperialista significhi chiudere i conti con l'imperialismo equivale a fraintendere grossolanamente l'imperialismo stesso. L'imperialismo, in quanto fase del capitalismo, è destinato a incombere fino a quando esisterà il capitalismo monopolistico. La battaglia decisiva contro l'imperialismo è la lotta contro il capitalismo.
Non si devono confondere le potenze che partecipano al sistema imperialista globale con il sistema in sé, così come non si possono identificare le singole corporation capitaliste con il sistema capitalista in quanto tale.
La storia non fornisce alcun esempio in cui la caduta o l'eliminazione di una potenza globale o semi-globale dalla sua posizione egemone abbia aperto la strada a un periodo di pace e prosperità planetaria. La caduta dell'impero romano d'Occidente, quella dell'impero romano d'Oriente e quella del Sacro Romano Impero non inaugurarono alcun periodo di armonia di questo genere. Lo stesso si può dire dell'ascesa e della caduta della Repubblica di Venezia, della Repubblica Olandese o degli imperi coloniali portoghese e spagnolo dell'era del mercantilismo.
Al tempo di Lenin, le rivalità che minacciavano il dominio globale della Gran Bretagna non portarono affatto alla pace, bensì al conflitto mondiale. E il primo dopoguerra non produsse alcuna armonia. Al contrario, le rivalità capitaliste con la Germania e il Giappone causarono aggressioni e guerre ancor più devastanti. E con la dissoluzione dell'impero britannico un tempo dominante, dopo la guerra, gli USA gli subentrarono al vertice della gerarchia delle potenze globali, facendo pesare con brutalità la propria posizione dominante. Non vi è alcuna ragione per ritenere che le cose andranno diversamente una volta che gli Stati Uniti saranno stati scalzati dal loro piedistallo. Il capitalismo e la sua tendenza alla guerra e alla miseria perdureranno.
La storia, dunque, non fornisce alcun esempio di sostituzione di un mondo unipolare con un mondo capitalista multipolare e sostenibile improntato al reciproco rispetto e all'armonia. Il multipolarismo da solo, come soluzione contro l'oppressione dell'imperialismo, è anzi del tutto assente nella storia mondiale.
Certo, a rigor di termini potrebbe essere vero che il predominio degli Stati Uniti nel sistema imperialista mondiale stia venendo meno. Indubbiamente, la sconfitta decisiva subita nella guerra del Vietnam rappresentò un colossale rovescio per la capacità del governo USA di dettare la linea agli Stati più deboli. Anche la sconfitta subita in Afghanistan dopo una guerra ventennale segnala un indebolimento. E le sfide della Repubblica Democratica Popolare di Corea e la resilienza di Cuba evidenziano anch'esse i limiti odierni dell'imperialismo USA.
Inoltre, l'ascesa della Cina popolare come potenza economica e sofisticata potenza militare viene percepita dal governo degli Stati Uniti come una minaccia sia economica sia militare, sebbene non vi sia motivo di ritenere che la RPC sia più pericolosa del Vaticano per il sistema imperialista. Entrambi questi Stati esprimono oggi una condanna più che giustificata verso i peggiori eccessi dell'imperialismo, ma nel concreto contribuiscono ben poco al suo rovesciamento.
L'emarginazione, l'indebolimento o i rovesci subiti dalla suprema potenza imperialista vanno salutati con favore, ma la sinistra non deve illudersi che essi implichino la fine dell'imperialismo, un colpo decisivo contro il sistema capitalista o vantaggi duraturi per i lavoratori.
Un recente esempio della fallacia multipolare - l'illusione romantica che l'imperialismo sia soltanto l'imperialismo USA - è rappresentato dai numerosi commenti della sinistra al vertice tenuto ai primi di settembre dall'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (OCS), a cui hanno partecipato il presidente Xi, il presidente Putin, il primo ministro Narendra Modi e altri leader eurasiatici. Il professor Michael Hudson ha commentato enfaticamente:
I principi annunciati dal presidente cinese Xi, dal presidente russo Putin e da altri membri dell'OCS hanno preparato il terreno per enunciare nei dettagli il principio di un nuovo ordine economico internazionale fondato su linee che furono promesse ottant'anni fa al termine del secondo conflitto mondiale, ma che sono state distorte fino a divenire irriconoscibili durante quella che i Paesi dell'Asia e altri esponenti della Maggioranza Globale sperano di poter considerare soltanto una lunga parentesi nella storia, caratterizzata da un allontanamento dalle regole fondamentali della civiltà, della diplomazia internazionale, del commercio e della finanza.
Hudson prevede un nuovo ordine economico che dovrebbe mantenere una promessa enunciata ottant'anni fa. Ma non ci spiega in che modo questo nuovo ordine internazionale capitalista sarà diverso dall'ordine internazionale capitalista che lo ha preceduto, se non nelle idealistiche dichiarazioni dei suoi fautori. Non ci spiega come verranno evitate le rivalità inter-imperialiste associate alle grandi potenze capitaliste. Dimentica di dirci come sarà possibile attenuare in qualche misura la natura competitiva e spietata delle relazioni sociali capitaliste. Perora la sua causa basandosi su parole enfatiche pronunciate durante una conferenza, come se parole identiche o simili non fossero state già pronunciate ottant'anni or sono alla conferenza di Bretton Woods.
Si è fatto un gran parlare del caloroso annuncio di Xi e Modi, che hanno dichiarato di essere «partner e non rivali». Ma come riferisce l'acuto Yves Smith:
Un nuovo articolo di Indian Punchline, intitolato L'India sconfessa lo «spirito di Tianjin» e guarda all'UE, suggerisce che l'idea che l'India sia passata armi e bagagli nel campo OCS-BRICS potrebbe essere esagerata. Ecco un brano cruciale dell'articolo:
...Modi era appena tornato a Delhi quando il ministro degli Esteri S. Jaishankar si è incontrato con la schiera di politici europei più ferocemente anti-russi, in un'ostentata presa di distanza dalla troika Russia-India-Cina.
Quasi a sottolineare lo scetticismo espresso dall'articolo di Indian Punchline, Modi ha deciso di non partecipare al summit commerciale virtuale del BRICS successivamente indetto dal presidente brasiliano Lula da Silva.
Il ministro Jaishankar, che lo sostituiva, ha colto l'occasione per sollevare la questione dei deficit commerciali dei membri dei BRICS, osservando che essi sono responsabili dei più alti deficit dell'India e che quest'ultima intende assicurarsi che la situazione venga corretta - non esattamente una manifestazione di fiducia verso i fratelli e sorelle BRICS dell'India. Assomiglia più a un esempio di mercanteggiamento geopolitico.
Nemmeno la Cina sembra fare proprio il romantico idealismo dei nostri amici di sinistra, come conferma la seguente citazione:
«La Cina è molto cauta riguardo alla collaborazione con questi due Paesi [Russia Corea del Nord]. Diversamente da quanto si sostiene in Occidente, secondo cui essi sarebbero suoi alleati, la Cina non è schierata nello stesso campo. La sua visione della guerra e dei problemi di sicurezza è molto diversa dalla loro», ha dichiarato Tang Xiaoyang, presidente del dipartimento Relazioni Internazionali dell'Università di Tsinghua, sottolineando che Pechino non combatte alcuna guerra da oltre quattro decenni. «Ciò che la Cina vuole è la stabilità sulle sue frontiere».
Si potrebbe concludere che le speranze della sinistra in un nuovo ordine internazionale più giusto, guidato dai BRICS, siano poco più che una chimera. È evidente che BRICS sono, nella migliore delle ipotesi, un'alleanza economica opportunista, priva del peso politico o militare necessario per imporre il multipolarismo a un mondo unipolare.
* * *
Alla base dell'investimento della sinistra nel multipolarismo come risposta all'imperialismo vi è anche un'argomentazione teorica. L'argomento non è nuovo. A elaborarlo fu Karl Kautsky, che lo illustrò in un articolo intitolato Ultraimperialismo, pubblicato su Die Neue Zeit nel settembre del 1914, solo un mese dopo l'inizio della prima guerra mondiale.
Riassumendo (mi sono occupato più a fondo di queste argomentazioni qui, qui e qui), Kautsky sosteneva che le grandi potenze si sarebbero spartite il mondo e avrebbero deciso di evitare ulteriori contrasti e rivalità. Si sarebbero rese conto del fatto che aggressioni e guerre erano irrazionali e controproducenti, optando per un imperialismo armonioso che Kautsky definì «ultraimperialismo». La sua opinione era la seguente:
La frenetica concorrenza tra imprese gigantesche, banche gigantesche e multi-milionari ha costretto i grandi gruppi finanziari, che stavano assorbendo quelli più piccoli, a escogitare l'idea del cartello. Allo stesso modo, la conseguenza della guerra mondiale tra le grandi potenze imperialiste potrebbe essere una federazione dei più forti, che rinunceranno alla corsa al riarmo.
In modo analogo, gli odierni multipolaristi/ultraimperialisti prevedono un mondo in cui un'allegra brigata di potenti Paesi espellerà gli USA dal vertice del sistema capitalista mondiale per il loro pessimo comportamento, e la satrapia rappresentata dall'UE si metterà in riga. Al posto di questo sistema verrà creato un nuovo ordine «armonioso», «win-win», che eliminerà le diseguaglianze tra «Nord globale» e «Sud globale». A promuovere e a imporre questo nuovo ordine sarà una variopinta schiera di Stati caratterizzati dalla divisione in classi e da un orientamento capitalista, guidata da una schiera altrettanto variopinta che comprende despoti, capi di teocrazie e populisti. Tutti i Paesi BRICS+ eccetto uno sono rigorosamente fedeli al capitalismo; la maggior parte di loro sono ostili a qualsiasi sistema sociale alternativo, quale il socialismo.
Lenin, nella prefazione del 1915 a L'economia mondiale e l'imperialismo di Bucharin, si prende gioco dell'argomentazione di Kautsky e di concetti quali l'ultraimperialismo:
Ragionando in modo teorico astratto si può giungere alla conclusione a cui è appunto giunto... Kautsky (…). In Kautsky, l'evidente rottura con il marxismo ha assunto la forma non della negazione o della dimenticanza della politica, non del «salto» al di sopra dei conflitti, scosse e mutamenti politici, numerosi e vari soprattutto nell'epoca imperialistica, non dell'apologia dell'imperialismo, ma del sogno di un capitalismo «pacifico». Il capitalismo «pacifico» è stato sostituito dall'imperialismo non pacifico, bellicoso, catastrofico... In questa aspirazione a eludere la realtà dell'imperialismo e a evadere nel sogno di un «ultraimperialismo» - che non si sa se sia realizzabile o no - non vi è neppur una traccia di marxismo... Nell'epoca futura... un marxismo a credito, una promessa di marxismo, un marxismo per domani, ma per oggi una teoria - e non soltanto teoria - piccolo-borghese, opportunista dell'attenuamento dei contrasti. [Tratto dal mio articolo menzionato sopra].
I concetti chiave che ci riguardano qui sono «capitalismo pacifico», «marxismo a credito» e «attenuamento dei contrasti». Lenin è sbalordito dal fatto che Kautsky - sedicente marxista - possa anche soltanto concepire l'idea di un capitalismo pacifico, un'idea che contraddice la logica stessa delle relazioni sociali capitaliste; il che dovrebbe suggerire ai multipolaristi di darsi una svegliata.
L'espressione «marxismo a credito» sta a sottolineare ironicamente che sperare che un accordo tra le grandi potenze capitaliste metta freno all'imperialismo è assurdo quanto sforare il limite della propria carta di credito. Nel caso dei multipolaristi, significa rimandare la resa dei conti con il capitalismo a un futuro molto, molto distante.
Analogamente, Kautsky «attenua» il contrasto tra gli Stati capitalisti rivali immaginando un impossibile accordo che garantisca relazioni «armoniose» - un'idea completamente rifiutata da Lenin. In buona sostanza, Lenin considera l'opportunismo di Kautsky alla stregua di una ritirata dal progetto socialista. Lo stesso si può affermare riguardo al progetto multipolare.
Troppi, a sinistra, si rifiutano di guardare il multipolarismo attraverso la lente della teoria dell'imperialismo di Lenin, in particolare nella forma alquanto cristallina in cui essa compare nel suo opuscolo del 1916 L'imperialismo.
In relazione alla promessa del multipolarismo, Lenin traccia qui uno scenario ipotetico in cui le potenze imperialiste riescono effettivamente a spartirsi il mondo e a costituire un'alleanza votata alla pace e alla prosperità reciproca. Questo sistema multipolare idealizzato - l'«ultraimperialismo» di Kautsky - riuscirebbe forse a eliminare «attriti, conflitti e lotte nelle forme più svariate»?
Basta porre nettamente tale questione perché non si possa rispondere che negativamente. (…) Pertanto, nella realtà capitalista, e non nella volgare fantasia filistea dei preti inglesi [Hobson] o del «marxista» tedesco Kautsky, le alleanze «inter-imperialiste» o «ultra-imperialiste» non sono altro che un «momento di respiro» tra una guerra e l'altra, qualsiasi forma assumano dette alleanze, sia quella di una coalizione imperialista contro un'altra coalizione imperialista, sia quella di una lega generale tra tutte le potenze imperialiste. Le alleanze di pace preparano le guerre e a loro volta nascono da queste; le une e le altre forme si determinano reciprocamente e producono, su di un unico e identico terreno, dei nessi imperialistici e dei rapporti dell'economia mondiale e della politica mondiale, l'alternarsi della forma pacifica e non pacifica della lotta. [Corsivi di Lenin].
Lenin ritiene dunque che, fino a quanto persisterà il capitalismo, vi sarà un'incessante lotta interna alla classe a livello internazionale, una lotta che si manifesta nella rivalità e nella guerra inter-imperialista.
Naturalmente si può respingere l'argomentazione di Lenin, e perfino la sua teoria dell'imperialismo. È altresì possibile sostenere che le posizioni di Lenin fossero valide per la sua epoca ma siano inapplicabili oggi, alla luce dei molti cambiamenti subiti dal capitalismo globale. Ciò equivarrebbe a sostenere che il sistema imperialista che Lenin procedette ad analizzare non esiste più, e che è stato sostituito da un sistema diverso.
Queste «correzioni» a Lenin hanno un precedente. Kwame Nkrumah, scrivendo nel 1965, dimostrò che l'imperialismo aveva in gran parte abbandonato il progetto coloniale a vantaggio di una forma di imperialismo più razionale ed efficiente, ma comunque brutalmente sfruttatrice: il neocolonialismo. Il suo libro Neo-Colonialism: The Last Stage of Imperialism («Il neocolonialismo: ultima fase dell'imperialismo») sostiene questa tesi in modo persuasivo.
In questo breve saggio, Garrido tocca ambiziosamente numerosi temi, tra cui gli errori dei «marxisti-leninisti dogmatici», il ruolo - ammesso che ne abbiano uno - della Russia e della Cina popolare nel sistema imperialista, la metodologia marxista, la condizione contemporanea del capitale finanziario, il concetto di «super-imperialismo» di Michael Hudson, l'importanza degli accordi di Bretton Woods e dell'abbandono del gold standard, nonché l'attualità della teoria dell'imperialismo di Lenin in relazione all'economia globale odierna.
Soffermarci su tutte queste questioni ci allontanerebbe dal nostro tema, per quanto esse meritino ulteriori approfondimenti. Nello specifico, Garrido scrive:
La mia impressione è che la fase imperialista correttamente analizzata da Lenin nel 1917 sia stata caratterizzata negli anni del dopoguerra da un'evoluzione che ne ha in parte trasformato il carattere, con lo sviluppo del sistema di Bretton Woods. Questo non significa che Lenin abbia «sbagliato», ma semplicemente che il suo oggetto di studio - da lui analizzato in modo corretto all'epoca in cui scrisse - ha attraversato sviluppi tali da obbligare chiunque aderisca alla sua stessa visione marxista del mondo a rifinire di conseguenza la propria interpretazione dell'imperialismo. Bretton Woods trasforma l'imperialismo da fenomeno internazionale in fenomeno globale, incarnato non più da grandi potenze imperialiste, ma da istituzioni finanziarie globali (il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale) controllate dagli Stati Uniti e strutturate intorno all'egemonia del dollaro.
E aggiunge che, con l'abbandono del gold standard da parte di Nixon, «l'imperialismo diviene sinonimo di unipolarismo ed egemonismo degli USA».
Questo non è vero. Come afferma Garrido, «l'imperialismo [al tempo di Lenin] non era semplicemente una linea politica (come ritenevano i seguaci di Kautsky), bensì uno sviluppo integrale della modalità di vita capitalista» (corsivo mio).
Analogamente, l'imperialismo odierno non è un insieme di linee politiche, ma un'espressione essenziale del capitalismo contemporaneo.
Garrido, tuttavia, segue le orme di Kautsky scambiando l'imperialismo odierno per una serie di linee politiche - Bretton Woods e l'abbandono del gold standard da parte degli Stati Uniti. L'intera infrastruttura commerciale e finanziaria del dopoguerra fu la conseguenza di decisioni politiche. E queste furono plasmate non da un «nuovo» imperialismo, ma dal potere economico dominante degli Stati Uniti nel dopoguerra. Come Garrido sa bene, questa asimmetria deve oggi fronteggiare una sfida - ma si tratta di una sfida lanciata alle politiche degli USA o al potere di cui essi godono, non al sistema imperialista in sé.
La «trasformazione» che Garrido ritiene di poter ravvisare non è altro che un riordinamento del sistema internazionale esistente prima della guerra, in cui New York sostituisce Londra quale centro finanziario dell'universo capitalista. È la sostituzione del vasto mondo coloniale, delle sanguinose rivalità e delle alleanze e delle gerarchie variabili del periodo interbellico con la creazione di un sistema neocoloniale dominato dagli Stati Uniti e rafforzato dal ruolo di guardiani del capitalismo da essi assunto nella guerra fredda.
La base, il capitalismo monopolistico, rimane qualitativamente la stessa; è la sua sovrastruttura a evolversi con le circostanze storiche. Il sistema di Bretton Woods e il successivo abbandono del gold standard rispecchiano l'evoluzione di tali circostanze.
E come funziona il «nuovo» imperialismo di Garrido?
Ciò che conta è che il capitalismo si è evoluto a uno stadio superiore, che l'imperialismo di cui scriveva Lenin non è più la fase «suprema» del capitalismo, che ha lasciato il posto - attraverso il suo immanente sviluppo dialettico - a una nuova forma caratterizzata da un ulteriore rafforzamento della sua base caratteristica, il capitale finanziario. Siamo infine entrati nell'era dell'imperialismo capitalista preconizzata da Marx nel III volume del Capitale, in cui la logica dominante dell'accumulazione è interamente passata da D-M-D' a D-D', cioè dal capitale produttivo al capitale finanziario parassitario produttore di interessi.
Il riferimento di Garrido al III volume del Capitale appare in contraddizione con la lettura che io e altri diamo di questo testo. Nel capitolo 51, l'ultimo completo, Marx, per tramite di Engels, ritorna alle origini della questione - la produzione delle merci. Sgombra il campo dall'idea che esista una qualsiasi fonte di valore indipendente nella distribuzione - in termini di circolazione, rendita o «profitto». È il lavoro salariato impiegato nella produzione di merci a produrre valore nel modo di produzione capitalista. È per questo che Marx, nel III volume, osserva che «La vera e propria scienza della moderna economia comincia solo quando l'indagine teorica si sposta dal processo di circolazione al processo di produzione» (capitolo 20).
Naturalmente Marx conosceva i mercati azionari, e non sarebbe rimasto sorpreso dinanzi al raffinato arsenale di strumenti dell'odierno settore finanziario, quali i derivati e gli swap. Marx li analizza sotto la voce «capitale fittizio». Con «fittizio», Marx intende «proiettato nel futuro», riferendosi a promesse di pagamento calcolate su un valore futuro, o «scommesse». Queste promesse circolano tra i capitalisti e vengono acquisite come valore contingente. Diventano attrattive nei periodi di sovra-accumulazione - la super-concentrazione di capitale in poche mani - quando le opportunità di investimento nell'economia produttiva si riducono. E scompaiono come per miracolo quando il valore futuro da cui dipendono non si concretizza.
Fraintendendo il ruolo internazionale del capitale finanziario, Garrido finisce per affermare che «...la parte del leone dei profitti realizzati dal sistema imperialista viene accumulata attraverso debiti e interessi». Al suo culmine, prima del grande crack del 2007-2009, la finanza (in termini generali finanza, settore assicurativo e settore immobiliare) rappresentava forse il 40% dei profitti negli Stati Uniti; oggi, con i titoli tecnologici del NASDAQ, questa percentuale è probabilmente minore. Ma questo riguarda soltanto i profitti negli Stati Uniti.
Con la deindustrializzazione, la produzione di merci si è spostata nella Repubblica Popolare Cinese, in Indonesia, in Vietnam, in India, in Brasile, nell'Europa orientale e in altre regioni caratterizzate da bassi salari, e gli USA sono diventati il centro della finanza mondiale. Al minimo scossone subito dalla produzione di merci, l'intero edificio del capitale fittizio crolla, insieme ai suoi profitti fittizi.
Come viene spiegato con dovizia di particolari in tutti e tre i volumi del Capitale, la produzione di merci costituisce la base del modo di produzione capitalista, e la fonte del valore è il lavoro salariato, non certo le manovre mistificatorie degli imbonitori di Wall Street.
Garrido fa eco a molti fautori di sinistra del multipolarismo separando l'imperialismo dal sistema capitalista, attraverso la reinterpretazione del meccanismo dello sfruttamento, la negazione della logica della competizione e della rivalità capitalista o la ridefinizione delle sue caratteristiche. Il contributo specifico di Garrido a questa manovra consiste nell'individuare l'ingiustizia dell'imperialismo non nello sfruttamento, bensì nei «debiti e interessi».
Nell'universo dei multipolaristi di sinistra, i veri anti-imperialisti sarebbero gli Stati dei BRICS (per Garrido, la Russia e la Repubblica Popolare Cinese). Ma per chi è meno incline alla teoria, per chi esita ad addentrarsi nel ginepraio dei dibattiti teorici, c'è una pratica cartina di tornasole: la Palestina.
Se l'assalto genocida contro il popolo palestinese da parte dello Stato teocratico della «grande Israele» è l'atto imperialista chiave di questo momento, dove sono questi anti-imperialisti? Hanno forse organizzato un'opposizione internazionale, interrotto i commerci, imposto sanzioni, annullato il riconoscimento o la cooperazione, inviato combattenti volontari o messo in atto in qualsiasi altro modo una resistenza concreta?
Nel passato, il Vietnam in lotta contro l'imperialismo trasse beneficio dall'aiuto materiale, concreto fornitogli da cinesi e sovietici; i sovietici si spinsero fino a un passo dalla guerra per sostenere Cuba contro le minacce imperialiste nei primi anni Sessanta; i cubani combatterono e morirono in Angola lottando contro l'imperialismo e l'apartheid negli anni Settanta e Ottanta. E perfino gli Stati Uniti, nel 1956, si unirono all'Unione Sovietica nello sventare i progetti imperiali di britannici, francesi e israeliani sul Canale di Suez.
I tanto acclamati «anti-imperialisti» di oggi hanno intenzione di imitarli, oppure il multipolarismo è solo un mucchio di chiacchiere?
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