a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare di Torino
Dizionario enciclopedico marxista
Premessa A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z
Quadri, Questione femminile, Questione meridionale, Questione nazionale
Termine che nel linguaggio militare è usato per indicare gli ufficiali; nel
linguaggio politico adottato dai partiti comunisti, indica quei militanti che
rivestono funzioni direttive e organizzative ai vari livelli della struttura
del partito.
Le caratteristiche dei quadri dei partiti comunisti, le loro funzioni e la
necessità storica che tali partiti avessero al loro interno dei «rivoluzionari
di professione» furono elaborate da Lenin, secondo cui era essenziale che
all'interno del partito vi fosse un gran numero di membri in grado di dirigere,
in stretto contatto con le masse, le varie organizzazioni in qualunque
occasione, e che soprattutto fosse in grado di ricostituire il partito nel caso
di spietate repressioni, come di fatto avvenne in Russia dopo il 1905.
E' oggi patrimonio comune del movimento comunista internazionale, anche grazie
a Gramsci, la necessità della presenza di un «personale politico specializzato
all'interno dei partiti comunisti» .
La condizione di sfruttamento e di oppressione della donna è una caratteristica
permanente dall'inizio del processo di divisione
sociale del lavoro. Secondo il marxismo, dal momento in cui la donna venne
allontanata dai settori determinanti del processo produttivo con la formazione
delle società patriarcali, essa è sempre stata sottomessa a forme più o meno
dure di sfruttamento e di subordinazione politica, culturale e sociale
all'uomo. Per il marxismo inoltre i rapporti di produzione investono anche i
rapporti di riproduzione: di conseguenza la famiglia,
che è una delle forme istituzionali tipica dei rapporti di riproduzione
dell'umanità da molti secoli a questa parte, viene influenzata in maniera
determinante dal1'organizzazione complessiva del processo produttivo e quindi
dalla società.
A loro volta determinate condizioni istituzionali che regolano i rapporti tra
uomo e donna sono necessarie alla forma di organizzazione della società per
riprodursi e mantenere immutati i rapporti di produzione.
La condizione della donna è quindi una delle contraddizioni fondamentali della
società, resa particolarmente acuta dal momento della formazione della moderna
società capitalistica.
La lotta che la classe operaia ha condotto per la propria emancipazione ha
aperto condizioni politiche e sociali favorevoli allo sviluppo di un movimento
di liberazione della donna.
Dopo le numerose testimonianze che già verso la metà dell'800 illustrarono la condizione
femminile (ad esempio in: Engels, La
condizione della classe operaia in Inghilterra),sorse un movimento in forma organizzata,
anche se, inizialmente, la sua attività tese alla pura e semplice
rivendicazione della cosiddetta parità di diritti tra uomo e donna. Soprattutto
in Inghilterra e in America le «suffragette» si batterono per ottenere il
diritto di voto e la parità di retribuzioni e di condizioni di lavoro con gli
uomini, cosa che non avveniva in nessun paese del mondo.
Tuttavia la nascita di un vero e proprio movimento di rivendicazione femminile
che prendesse coscienza da un lato della generale divisione in classi della
società e della posizione sociale occupata dalla donna, e dall'altro
dell'esigenza di costituire un'organizzazione femminile a fianco della classe
operaia, è databile ai primi anni del '900. La più famosa sostenitrice della
necessità di un movimento femminile di classe fu Klara Zetkin che fece parte
della Lega di Spartaco e fu tra i fondatori del Partito Comunista Tedesco.
Da allora le rivendicazioni di liberazione della donna sono state, con fortune
alterne, legate alla storia del movimento operaio. Dopo la rivoluzione Lenin
affermava:
«... nessun partito
democratico del mondo e nessuna delle repubbliche borghesi più progredite ha
fatto in decine d'anni nemmeno la centesima parte di quello che noi abbiamo
fatto anche solo nel primo anno del nostro potere. Noi non abbiamo
letteralmente lasciato pietra su pietra di tutte le abiette leggi sulla
menomazione dei diritti della donna, sulle restrizioni al divorzio, sulle
oziose formalità da cui era vincolata, sulla ricerca della parternità ecc.».
E molto realisticamente continuava:
«la donna, nonostante tutte le leggi
liberatrici è rimasta una schiava della casa perché essa è oppressa, soffocata,
inebetita, umiliata dalla meschina economia domestica che la incatena alla
cucina, ai bambini e ne logora le forze in un lavoro bestialmente improduttivo,
meschino, snervante che inebetisce e opprime. La vera emancipazione della donna,
il vero comunismo incomincerà soltanto là e allora, dove e quando incomincerà
la lotta delle masse contro la piccola economia domestica, o meglio dove
incomincerà la trasformazione di questa economia nella grande economia
socialista» (Lenin, La grande iniziativa, in
Opere scelte, volume unico, pp.
505-506).
E'quindi messo in evidenza il
rapporto tra la questione femminile e il tema generale della lotta per una
nuova organizzazione della società.
La seconda guerra mondiale ha provocato un'accelerazione della maturazione
sociale della donna, ormai esposta quanto l'uomo alle conseguenze disastrose e
distruttive di un conflitto moderno, e ne ha visto la partecipazione
organizzata - e insostituibile - alle lotte di liberazione nazionale.
Molteplici cause sono all'origine della notevole produzione teorica e
saggistica del dopoguerra, che, da vari paesi, ha contribuito ad approfondire i
temi della condizione femminile: fra esse, l'imponente ingresso delle donne
nella produzione e nelle lotte del lavoro, l'elevamento del livello culturale
medio, l'introduzione del suffragio universale, la progressiva scomparsa della
grande famiglia patriarcale che paralizzava soprattutto la donna, la massiccia
proletarizzazione di donne appartenenti a vari ceti, ecc. Questi motivi
indicano la fragilità delle posizioni che individuano semplicisticamente nel
rapporto uomo/donna la contraddizione essenziale, attribuendogli di fatto una
sorta di perennità sottratta alla complessa dinamica delle altre contraddizioni
che lacerano la società dominata dal capitalismo.
Attualmente la partecipazione delle donne alle iniziative per la propria
liberazione si manifesta in varie forme e organizzazioni, come dimostrano per
esempio le lotte recenti e in corso in Italia per un nuovo diritto di famiglia
e per l'autodecisione riguardo all'aborto.
Dopo il 1860, in Italia la questione meridionale diviene emblematica per
comprendere sia il periodo che condusse all'unificazione del territorio
nazionale (Risorgimento), sia lo sviluppo economico, sociale e politico dello
Stato unitario dal 1861 ai giorni nostri. Apertasi ufficialmente già nel corso
della spedizione dei Mille, allorché vennero repressi i moti contadini - il
cosiddetto «brigantaggio» - che reclamavano la «riforma agraria» del resto
promessa da Garibaldi, la questione meridionale può dirsi ancora aperta.
Sulle cause del mancato sviluppo economico del Mezzogiorno d'Italia nei settori
industriale e agricolo, a cui va aggiunto lo stato di arretratezza culturale, sociale
e politica in cui sono stati mantenuti il proletariato e il sottoproletariato
meridionali, si è avuto un lungo e ampio dibattito, che ha visto come
protagonisti «meridionalisti» e uomini politici, e che infine ha coinvolto
l'intera classe proletaria con analisi compiute da tutto il movimento operaio e contadino. In sintesi, attualmente si
possono distinguere due analisi storiche, contrapposte, che inseriscono la
questione meridionale nel più vasto problema del divario economico tra Nord e
Sud d'Italia: quella degli storici liberali e quella degli storici marxisti.
La prima può essere riassunta nell'affermazione che «... l'inferiorità
economica del Mezzogiorno si presentò ... per un certo periodo, e sotto certi
aspetti si presenta tuttora, come una condizione storica dello sviluppo
industriale del Nord», basando questa affermazione sulla tesi
dell'inevitabilità di uno sfruttamento di tipo colonialistico del Mezzogiorno
per l'accumulazione di capitali necessari per lo sviluppo dell'industria già
embrionalmente presente nel Settentrione.
La seconda, sviluppando le analisi compiute da Gramsci, sottolinea come il «blocco storico» costituito dall'alleanza
tra il capitale industriale e finanziario del Nord e quello agrario del Sud
impose uno sfruttamento gravoso al Mezzogiorno e in generale a tutto il settore agricolo italiano, non
per inevitabili «necessità economiche», ma per mantenere il proprio ruolo
egemone nello Stato unitario. Mediante l'introduzione di un sistema fiscale
centralizzato prima, del protezionismo e del rialzo delle tariffe doganali
(1887) poi, l'economia del Mezzogiorno finanziò, impoverendosi ulteriormente,
lo sviluppo industriale del Settentrione, cui contribuì anche con la forzata
immigrazione interna e con l'emigrazione, che forniva rimesse in valuta
pregiata, costantemente utilizzate per creare strutture industriali a vantaggio
della grande industria concentrata nelle aree settentrionali. Con questi mezzi
il Meridione, così come la maggior parte delle zone agricole, restavano grandi
serbatoi di forzalavoro a basso costo ed era garantito un elevato profitto al
capitale industriale e finanziario e la massima rendita alla grande proprietà
fondiaria.
La politica demagogica del fascismo aggravò la situazione, come risulta dalla
analisi sul divario del reddito tra Nord e Sud, che smentisce la trionfalistica
affermazione dell'«Enciclopedia Italiana» (vol. XXIII, p. 151) del 1934:
«Di una questione meridionale non si può più legittimamente parlare: perché
tante differenze sono scomparse e perché ormai sono in piena attuazione i
provvedimenti del Governo fascista che mirano intenzionalmente ad elevare il
tono dell'Italia agricola, specialmente meridionale. Ma più ancora perché ogni
traccia di contrasto, antagonismo, ogni senso di interessi diversi, sono
scomparsi dagli animi per la funzione operata dalla guerra mondiale e dal
fascismo».
In realtà la prima guerra mondiale costituì l'occasione, anche se
parzialmente fallita, in cui i contadini del Sud poterono acquisire una
coscienza di classe, e la lotta antifascista contribuì a rendere consapevole il
proletariato operaio dell'imprescindibile necessità di un'alleanza con le forze
contadine per giungere a una nuova egemonia. Scrive Gramsci nel 1926, in La questione meridionale:
«Il proletariato distruggerà il blocco agrario meridionale nella misura in cui
riuscirà, attraverso il suo partito, ad organizzare in formazioni autonome e
indipendenti sempre più notevoli masse di contadini poveri; ma riuscirà in
misura più o meno larga in tale suo compito obbligatorio anche subordinatamente
alla sua capacità di disgregare il blocco intellettuale che è armatura
flessibile ma resistentissima del blocco agrario» (p. 42).
Le note vicende connesse con la seconda guerra mondiale, la Resistenza e il
dopoguerra hanno evidenziato come non solo non sia stata realizzata la parola
d'ordine dettata da Gramsci per la fondazione dell'«Unità» (settembre 1923) -
«Personalmente io credo che la parola d'ordine "governo operaio e
contadino" debba essere adattata in Italia così: "Repubblica federale
degli operai e contadini"» - ma anche come la mancata soluzione della
questione meridionale abbia piuttosto contribuito, col perpetuarsi del divario
economico tra Nord e Sud, al rafforzamento del vecchio «blocco» dirigente.
Si può oggi constatare che mentre nel Mezzogiorno «la povertà diventa causa di
se stessa», gli interventi principali dello Stato, che risalgono agli anni '50,
sono stati una riforma fondiaria («legge stralcio») che ha toccato solo un
ventesimo del territorio del Sud, inserita nella mai approvata «riforma
agraria»; e l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, che attraverso varie
fasi - assistenziale, di intervento selettivo, di intervento
selettivo-incentivante - ha contribuito soprattutto ad accrescere nel
Mezzogiorno il clientelismo, lo spopolamento di intere aree agricole e la
creazione di impianti largamente improduttivi, anche perché privi delle
necessarie infrastrutture, le cosiddette «cattedrali nel deserto».
Lo squilibrio tra Nord e Sud rappresenta inoltre la fonte di un processo di
restrizione generale del mercato interno e di dispersione e distruzione di
forze produttive, costituendo una delle cause principali della debolezza del
sistema economico italiano. La questione meridionale rimane, pertanto, un
problema centrale per lo sviluppo dell'economia nazionale e per il progresso
del movimento operaio e contadino.
Il problema della nazionalità si
pose con particolare rilievo e urgenza in seno al movimento operaio prima della
guerra 1914-18 e fu affrontato da Lenin, soprattutto in polemica con Rosa
Luxemburg, nel senso del «diritto delle nazioni all'autodecisione» cioè del
«diritto all'indipendenza, alla libera separazione politica dalla nazione
dominante».
In sintesi, per Lenin la questione nazionale si pone in questi termini: l'unità
nazionale è un elemento essenziale della rivoluzione democratico-borghese
inerente le specifiche necessità produttive e di mercato di quella fase;
tuttavia tale unità non si è verificata nello stesso periodo in tutti i paesi,
tanto che accanto all'Impero russo, paese a struttura semifeudale, coesistevano
paesi europei che si erano già lasciati alle spalle le rivoluzioni nazionali e
il cui capitalismo era già nella fase ultima dell'imperialismo. Il problema per
il movimento operaio complessivo era quindi complicato dal fatto di dover
mantenere l'unità internazionale di classe con i proletari di quelle piccole
nazioni che aspiravano all'indipendenza e alla formazione di Stati nazionali.
Secondo Lenin l'atteggiamento corretto da assumere era appunto quello del
«diritto delle nazioni all'autodecisione».
«Gli interessi della
classe operaia e la sua lotta contro il capitalismo esigono la stessa
solidarietà e l'unità più stretta degli operai di tutte le nazioni, esigono che
si opponga resistenza alla politica nazionalistica della borghesia di qualsiasi
nazionalità. Perciò negare alle nazioni oppresse il diritto d'autodecisione,
cioè di separazione, oppure sostenere tutte le
rivendicazioni nazionali della borghesia delle nazioni oppresse, equivarrebbe,
per i socialdemocratici, a sottrarsi ai compiti della politica proletaria e a
subordinare gli operai alla politica borghese ... L'operaio salariato rimarrà
in tutti i casi un oggetto di sfruttamento, e per lottare con successo contro
questo sfruttamento il proletariato dev'essere esente dal nazionalismo, deve
essere, per così dire, completamente neutrale nella lotta della borghesia delle
diverse nazioni per la supremazia. Il minimo appoggio del proletariato di una
qualsiasi nazione ai privilegi della "propria" borghesia nazionale
susciterà inevitabilmente la sfiducia del proletariato delle altre nazioni,
indebolirà la solidarietà internazionale di classe, dividerà gli operai con
grande gioia della borghesia. Negare il diritto all'autodecisione o alla
separazione significa inevitabilmente sostenere in pratica i privilegi della
nazione dominante» (Lenin, Sul diritto di
autodecisione delle nazioni, p. 89-90).
L'analisi di Lenin si muove, ovviamente, dalla concreta situazione della Russia
zarista, ma l'obiettivo finale è sempre l'affermazione del proletariato
internazionale; egli ravvisava perciò nelle lotte di liberazione e di
indipendenza delle piccole nazioni una formidabile arma contro l'imperialismo.