www.resistenze.org - materiali resistenti in linea - dizionario enciclopedico marxista - - n. 220

a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare di Torino


Dizionario enciclopedico marxista


Premessa    A    B    C    D    E    F    G    H I J K    L    M    N    O    P    Q    R    S    T    U    V W X Y Z


Q

Quadri, Questione femminile, Questione meridionale, Questione nazionale

 

Quadri


Termine che nel linguaggio militare è usato per indicare gli ufficiali; nel linguaggio politico adottato dai partiti comunisti, indica quei militanti che rivestono funzioni direttive e organizzative ai vari livelli della struttura del partito.

Le caratteristiche dei quadri dei partiti comunisti, le loro funzioni e la necessità storica che tali partiti avessero al loro interno dei «rivoluzionari di professione» furono elaborate da Lenin, secondo cui era essenziale che all'interno del partito vi fosse un gran numero di membri in grado di dirigere, in stretto contatto con le masse, le varie organizzazioni in qualunque occasione, e che soprattutto fosse in grado di ricostituire il partito nel caso di spietate repressioni, come di fatto avvenne in Russia dopo il 1905.

E' oggi patrimonio comune del movimento comunista internazionale, anche grazie a Gramsci, la necessità della presenza di un «personale politico specializzato all'interno dei partiti comunisti» .

Questione femminile


La condizione di sfruttamento e di oppressione della donna è una caratteristica permanente dall'inizio del processo di divisione sociale del lavoro. Secondo il marxismo, dal momento in cui la donna venne allontanata dai settori determinanti del processo produttivo con la formazione delle società patriarcali, essa è sempre stata sottomessa a forme più o meno dure di sfruttamento e di subordinazione politica, culturale e sociale all'uomo. Per il marxismo inoltre i rapporti di produzione investono anche i rapporti di riproduzione: di conseguenza la famiglia, che è una delle forme istituzionali tipica dei rapporti di riproduzione dell'umanità da molti secoli a questa parte, viene influenzata in maniera determinante dal1'organizzazione complessiva del processo produttivo e quindi dalla società.

A loro volta determinate condizioni istituzionali che regolano i rapporti tra uomo e donna sono necessarie alla forma di organizzazione della società per riprodursi e mantenere immutati i rapporti di produzione.

La condizione della donna è quindi una delle contraddizioni fondamentali della società, resa particolarmente acuta dal momento della formazione della moderna società capitalistica.

La lotta che la classe operaia ha condotto per la propria emancipazione ha aperto condizioni politiche e sociali favorevoli allo sviluppo di un movimento di liberazione della donna.

Dopo le numerose testimonianze che già verso la metà dell'800 illustrarono la condizione femminile (ad esempio in: Engels, La condizione della classe operaia in Inghilterra),sorse un movimento in forma organizzata, anche se, inizialmente, la sua attività tese alla pura e semplice rivendicazione della cosiddetta parità di diritti tra uomo e donna. Soprattutto in Inghilterra e in America le «suffragette» si batterono per ottenere il diritto di voto e la parità di retribuzioni e di condizioni di lavoro con gli uomini, cosa che non avveniva in nessun paese del mondo.

Tuttavia la nascita di un vero e proprio movimento di rivendicazione femminile che prendesse coscienza da un lato della generale divisione in classi della società e della posizione sociale occupata dalla donna, e dall'altro dell'esigenza di costituire un'organizzazione femminile a fianco della classe operaia, è databile ai primi anni del '900. La più famosa sostenitrice della necessità di un movimento femminile di classe fu Klara Zetkin che fece parte della Lega di Spartaco e fu tra i fondatori del Partito Comunista Tedesco.

Da allora le rivendicazioni di liberazione della donna sono state, con fortune alterne, legate alla storia del movimento operaio. Dopo la rivoluzione Lenin affermava:

«... nessun partito democratico del mondo e nessuna delle repubbliche borghesi più progredite ha fatto in decine d'anni nemmeno la centesima parte di quello che noi abbiamo fatto anche solo nel primo anno del nostro potere. Noi non abbiamo letteralmente lasciato pietra su pietra di tutte le abiette leggi sulla menomazione dei diritti della donna, sulle restrizioni al divorzio, sulle oziose formalità da cui era vincolata, sulla ricerca della parternità ecc.».

E molto realisticamente continuava:

«la donna, nonostante tutte le leggi liberatrici è rimasta una schiava della casa perché essa è oppressa, soffocata, inebetita, umiliata dalla meschina economia domestica che la incatena alla cucina, ai bambini e ne logora le forze in un lavoro bestialmente improduttivo, meschino, snervante che inebetisce e opprime. La vera emancipazione della donna, il vero comunismo incomincerà soltanto là e allora, dove e quando incomincerà la lotta delle masse contro la piccola economia domestica, o meglio dove incomincerà la trasformazione di questa economia nella grande economia socialista» (Lenin, La grande iniziativa, in Opere scelte, volume unico, pp. 505-506).

E'quindi messo in evidenza il rapporto tra la questione femminile e il tema generale della lotta per una nuova organizzazione della società.

La seconda guerra mondiale ha provocato un'accelerazione della maturazione sociale della donna, ormai esposta quanto l'uomo alle conseguenze disastrose e distruttive di un conflitto moderno, e ne ha visto la partecipazione organizzata - e insostituibile - alle lotte di liberazione nazionale.

Molteplici cause sono all'origine della notevole produzione teorica e saggistica del dopoguerra, che, da vari paesi, ha contribuito ad approfondire i temi della condizione femminile: fra esse, l'imponente ingresso delle donne nella produzione e nelle lotte del lavoro, l'elevamento del livello culturale medio, l'introduzione del suffragio universale, la progressiva scomparsa della grande famiglia patriarcale che paralizzava soprattutto la donna, la massiccia proletarizzazione di donne appartenenti a vari ceti, ecc. Questi motivi indicano la fragilità delle posizioni che individuano semplicisticamente nel rapporto uomo/donna la contraddizione essenziale, attribuendogli di fatto una sorta di perennità sottratta alla complessa dinamica delle altre contraddizioni che lacerano la società dominata dal capitalismo.

Attualmente la partecipazione delle donne alle iniziative per la propria liberazione si manifesta in varie forme e organizzazioni, come dimostrano per esempio le lotte recenti e in corso in Italia per un nuovo diritto di famiglia e per l'autodecisione riguardo all'aborto.

Questione meridionale


Dopo il 1860, in Italia la questione meridionale diviene emblematica per comprendere sia il periodo che condusse all'unificazione del territorio nazionale (Risorgimento), sia lo sviluppo economico, sociale e politico dello Stato unitario dal 1861 ai giorni nostri. Apertasi ufficialmente già nel corso della spedizione dei Mille, allorché vennero repressi i moti contadini - il cosiddetto «brigantaggio» - che reclamavano la «riforma agraria» del resto promessa da Garibaldi, la questione meridionale può dirsi ancora aperta.

Sulle cause del mancato sviluppo economico del Mezzogiorno d'Italia nei settori industriale e agricolo, a cui va aggiunto lo stato di arretratezza culturale, sociale e politica in cui sono stati mantenuti il proletariato e il sottoproletariato meridionali, si è avuto un lungo e ampio dibattito, che ha visto come protagonisti «meridionalisti» e uomini politici, e che infine ha coinvolto l'intera classe proletaria con analisi compiute da tutto il movimento operaio e contadino. In sintesi, attualmente si possono distinguere due analisi storiche, contrapposte, che inseriscono la questione meridionale nel più vasto problema del divario economico tra Nord e Sud d'Italia: quella degli storici liberali e quella degli storici marxisti.

La prima può essere riassunta nell'affermazione che «... l'inferiorità economica del Mezzogiorno si presentò ... per un certo periodo, e sotto certi aspetti si presenta tuttora, come una condizione storica dello sviluppo industriale del Nord», basando questa affermazione sulla tesi dell'inevitabilità di uno sfruttamento di tipo colonialistico del Mezzogiorno per l'accumulazione di capitali necessari per lo sviluppo dell'industria già embrionalmente presente nel Settentrione.

La seconda, sviluppando le analisi compiute da Gramsci, sottolinea come il «blocco storico» costituito dall'alleanza tra il capitale industriale e finanziario del Nord e quello agrario del Sud impose uno sfruttamento gravoso al Mezzogiorno e in generale a tutto il settore agricolo italiano, non per inevitabili «necessità economiche», ma per mantenere il proprio ruolo egemone nello Stato unitario. Mediante l'introduzione di un sistema fiscale centralizzato prima, del protezionismo e del rialzo delle tariffe doganali (1887) poi, l'economia del Mezzogiorno finanziò, impoverendosi ulteriormente, lo sviluppo industriale del Settentrione, cui contribuì anche con la forzata immigrazione interna e con l'emigrazione, che forniva rimesse in valuta pregiata, costantemente utilizzate per creare strutture industriali a vantaggio della grande industria concentrata nelle aree settentrionali. Con questi mezzi il Meridione, così come la maggior parte delle zone agricole, restavano grandi serbatoi di forzalavoro a basso costo ed era garantito un elevato profitto al capitale industriale e finanziario e la massima rendita alla grande proprietà fondiaria.

La politica demagogica del fascismo aggravò la situazione, come risulta dalla analisi sul divario del reddito tra Nord e Sud, che smentisce la trionfalistica affermazione dell'«Enciclopedia Italiana» (vol. XXIII, p. 151) del 1934:

«Di una questione meridionale non si può più legittimamente parlare: perché tante differenze sono scomparse e perché ormai sono in piena attuazione i provvedimenti del Governo fascista che mirano intenzionalmente ad elevare il tono dell'Italia agricola, specialmente meridionale. Ma più ancora perché ogni traccia di contrasto, antagonismo, ogni senso di interessi diversi, sono scomparsi dagli animi per la funzione operata dalla guerra mondiale e dal fascismo».

In realtà la prima guerra mondiale costituì l'occasione, anche se parzialmente fallita, in cui i contadini del Sud poterono acquisire una coscienza di classe, e la lotta antifascista contribuì a rendere consapevole il proletariato operaio dell'imprescindibile necessità di un'alleanza con le forze contadine per giungere a una nuova egemonia. Scrive Gramsci nel 1926, in La questione meridionale:

«Il proletariato distruggerà il blocco agrario meridionale nella misura in cui riuscirà, attraverso il suo partito, ad organizzare in formazioni autonome e indipendenti sempre più notevoli masse di contadini poveri; ma riuscirà in misura più o meno larga in tale suo compito obbligatorio anche subordinatamente alla sua capacità di disgregare il blocco intellettuale che è armatura flessibile ma resistentissima del blocco agrario» (p. 42).

Le note vicende connesse con la seconda guerra mondiale, la Resistenza e il dopoguerra hanno evidenziato come non solo non sia stata realizzata la parola d'ordine dettata da Gramsci per la fondazione dell'«Unità» (settembre 1923) - «Personalmente io credo che la parola d'ordine "governo operaio e contadino" debba essere adattata in Italia così: "Repubblica federale degli operai e contadini"» - ma anche come la mancata soluzione della questione meridionale abbia piuttosto contribuito, col perpetuarsi del divario economico tra Nord e Sud, al rafforzamento del vecchio «blocco» dirigente.

Si può oggi constatare che mentre nel Mezzogiorno «la povertà diventa causa di se stessa», gli interventi principali dello Stato, che risalgono agli anni '50, sono stati una riforma fondiaria («legge stralcio») che ha toccato solo un ventesimo del territorio del Sud, inserita nella mai approvata «riforma agraria»; e l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, che attraverso varie fasi - assistenziale, di intervento selettivo, di intervento selettivo-incentivante - ha contribuito soprattutto ad accrescere nel Mezzogiorno il clientelismo, lo spopolamento di intere aree agricole e la creazione di impianti largamente improduttivi, anche perché privi delle necessarie infrastrutture, le cosiddette «cattedrali nel deserto».

Lo squilibrio tra Nord e Sud rappresenta inoltre la fonte di un processo di restrizione generale del mercato interno e di dispersione e distruzione di forze produttive, costituendo una delle cause principali della debolezza del sistema economico italiano. La questione meridionale rimane, pertanto, un problema centrale per lo sviluppo dell'economia nazionale e per il progresso del movimento operaio e contadino.

Questione nazionale


Il problema della nazionalità si pose con particolare rilievo e urgenza in seno al movimento operaio prima della guerra 1914-18 e fu affrontato da Lenin, soprattutto in polemica con Rosa Luxemburg, nel senso del «diritto delle nazioni all'autodecisione» cioè del «diritto all'indipendenza, alla libera separazione politica dalla nazione dominante».

In sintesi, per Lenin la questione nazionale si pone in questi termini: l'unità nazionale è un elemento essenziale della rivoluzione democratico-borghese inerente le specifiche necessità produttive e di mercato di quella fase; tuttavia tale unità non si è verificata nello stesso periodo in tutti i paesi, tanto che accanto all'Impero russo, paese a struttura semifeudale, coesistevano paesi europei che si erano già lasciati alle spalle le rivoluzioni nazionali e il cui capitalismo era già nella fase ultima dell'imperialismo. Il problema per il movimento operaio complessivo era quindi complicato dal fatto di dover mantenere l'unità internazionale di classe con i proletari di quelle piccole nazioni che aspiravano all'indipendenza e alla formazione di Stati nazionali. Secondo Lenin l'atteggiamento corretto da assumere era appunto quello del «diritto delle nazioni all'autodecisione».

«Gli interessi della classe operaia e la sua lotta contro il capitalismo esigono la stessa solidarietà e l'unità più stretta degli operai di tutte le nazioni, esigono che si opponga resistenza alla politica nazionalistica della borghesia di qualsiasi nazionalità. Perciò negare alle nazioni oppresse il diritto d'autodecisione, cioè di separazione, oppure sostenere tutte le rivendicazioni nazionali della borghesia delle nazioni oppresse, equivarrebbe, per i socialdemocratici, a sottrarsi ai compiti della politica proletaria e a subordinare gli operai alla politica borghese ... L'operaio salariato rimarrà in tutti i casi un oggetto di sfruttamento, e per lottare con successo contro questo sfruttamento il proletariato dev'essere esente dal nazionalismo, deve essere, per così dire, completamente neutrale nella lotta della borghesia delle diverse nazioni per la supremazia. Il minimo appoggio del proletariato di una qualsiasi nazione ai privilegi della "propria" borghesia nazionale susciterà inevitabilmente la sfiducia del proletariato delle altre nazioni, indebolirà la solidarietà internazionale di classe, dividerà gli operai con grande gioia della borghesia. Negare il diritto all'autodecisione o alla separazione significa inevitabilmente sostenere in pratica i privilegi della nazione dominante» (Lenin, Sul diritto di autodecisione delle nazioni, p. 89-90).

L'analisi di Lenin si muove, ovviamente, dalla concreta situazione della Russia zarista, ma l'obiettivo finale è sempre l'affermazione del proletariato internazionale; egli ravvisava perciò nelle lotte di liberazione e di indipendenza delle piccole nazioni una formidabile arma contro l'imperialismo.