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a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare di Torino


Dizionario enciclopedico marxista


Premessa    A    B    C    D    E    F    G    H I J K    L    M    N    O    P    Q    R    S    T    U    V W X Y Z


E

Economia, Economia politica, Economicismo, Egemonia, Eguaglianza, Egualitarismo, Emancipazione, Emancipazione femminile, Empiriocriticismo, Entrismo, Estraniazione, Estremismo, Etica, Evoluzionismo

 

Economia

 

In generale può essere intesa come la base materiale, il fondamento, della vita umana e della società (così come la natura è immediatamente il fondamento, per esempio, dell'esistenza animale). E' l'insieme del lavoro e delle condizioni della sua realizzazione come trasformazione della natura, «ricambio organico tra l'uomo e la natura». In questo senso l'economia comprende tutto il complesso dei rapporti di produzione e di distribuzione, delle forze produttive e dei mezzi di produzione.
L'uso di questa parola ha spesso dato origine a equivoci, in quanto, essendo riferita a qualcosa di molto complesso, può assumere molti significati. Anche per questo il marxismo adotta prevalentemente una terminologia più precisa per indicare i «fenomeni economici». Infatti 1'«economia» in generale è il fondamento di qualunque società umana e occorre, secondo il marxismo, individuare i tratti caratteristici delle diverse formazioni economico sociali succedutesi nella storia dell'umanità.

Inoltre così come il concetto di società, nel senso marxista del termine, non può essere compreso senza l'economia, 1'«economia» comprende in sé i rapporti sociali. Il concetto più ampio e comprensivo di «modo di produzione», quindi, è più adeguato nell'analisi dei complessi fenomeni che vengono genericamente riassunti sotto il nome di «economia».
Per quanto riguarda la cosiddetta scienza economica intesa come determinazione puramente quantitativa dei rapporti economici, come se fossero dei semplici rapporti tra «cose», essa, proprio perché non ha come fondamento l'analisi complessiva del modo di produzione, non è in alcun modo in grado di comprendere le leggi di sviluppo dell'economia e, in generale, non riesce ad essere neppure un efficace strumento di previsione dell'evoluzione di quelle che essa definisce «le diverse congiunture economiche», nonostante si avvalga di metodi di indagine statistica e dell'applicazione di «modelli matematici» estremamente raffinati e complessi. Secondo M. Hobb,

«La crescente formalizzazione della teoria economica negli ultimi decenni ha avuto per risultato di rendere quasi completamente quantitativa l'analisi dell'equilibrio del mercato compiuta da questa teoria, lasciando poco o punto spazio alle differenze qualitative, e certamente nessuno spazio alla differenza di natura cosiddetta socio-economica» (Introduzione al Capitale, in Il Capitale, p. 8).

Tuttavia il marxismo afferma che è possibile la conoscenza delle leggi di sviluppo dell'economia, contraddicendo la conclusione a cui sono pervenuti molti studiosi borghesi di «scienza economica», a condizione che l'analisi venga condotta sulla base dell'esame approfondito del modo di produzione nel suo complesso, svolta secondo un metodo materialistico e dialettico (Economia politica).

Economia politica

 

E' la conoscenza scientifica dell'economia del periodo della produzione capitalistica. Si è sviluppata come scienza autonoma, con categorie proprie, in modo sistematico, solo dal periodo della manifattura. Secondo il marxismo ciò che è l'oggetto dell'economia politica, cioè il modo di produzione capitalistico e le sue leggi di sviluppo, ne condiziona fortemente gli orientamenti e gli stessi metodi di indagine. Nella prefazione alla prima edizione de Il Capitale Marx afferma:

«Nel campo dell'economia politica la libera ricerca scientifica non incontra soltanto gli stessi nemici che incontra in tutti gli altri campi. La natura peculiare del materiale che tratta chiama a battaglia contro di essa le passioni più ardenti, più meschine e più odiose del cuore umano, le Furie dell'interesse privato... Oggi perfino l'ateismo è culpa levis, in confronto alla critica dei rapporti tradizionali di proprietà» (p. 7).

Infatti una delle caratteristiche distintive dell'economia politica, nel periodo precedente a Marx, è quella di considerare i rapporti capitalistici di produzione come rapporti «naturali», destinati a durare in eterno, in contrapposizione ai rapporti di produzione precedenti al capitalismo che venivano invece considerati come «artificiali» e di cui veniva riconosciuto il carattere transitorio di forme storiche particolari della produzione. Tuttavia i complessi rapporti che intercorrono tra il capitalismo, così come esso si sviluppa concretamente, e il riflesso di questo sviluppo nelle concezioni di coloro che per primi cercarono di studiarne le leggi, ha fatto sì che Marx dovesse distinguere tra economia politica in generale, economia politica nella sua forma classica o scuola classica dell'economia politica, e economia politica volgare, più spesso citata come economia volgare, a cui Marx non riconosceva alcun carattere di scientificità.

La scuola classica dell'economia politica, i cui principali esponenti furono A. Smith e D. Ricardo, che ebbe, in senso stretto, tra i suoi fondatori anche W. Petty, secondo Marx fu il primo vero e proprio tentativo di analisi scientifica del capitalismo, che pose quella che da Marx stesso è considerata come la legge fondamentale dell'economia politica: i valori delle merci sono determinati dai tempi di lavoro in esse contenuti. Il tratto distintivo di questa scuola fu, indipendentemente dalle differenze specifiche tra i suoi vari esponenti, quello di porre al centro della propria indagine il lavoro, e di condurre un'analisi che cercava di scoprire i nessi interni dei rapporti capitalistici di produzione. L'economia politica classica, particolarmente con Ricardo, giunse fino alle soglie della comprensione del carattere mistificatorio e alienante della produzione su basi capitalistiche.

«Il grande merito dell'economa politica classica consiste nell'aver dissipato questa falsa apparenza e illusione [la materializzazione dei rapporti sociali, (Reificazione [n.d.r.]), questa autonomizzazione e solidificazione dei diversi elementi sociali della ricchezza, questa personificazione delle cose e oggettivazione dei rapporti di produzione, questa religione della vita quotidiana, riducendo l'interesse a una parte del profitto e la rendita all'eccedenza oltre il profitto medio, così che ambedue coincidono nel plusvalore; in quanto essa rappresenta il processo di circolazione come pura e semplice metamorfosi delle forme e infine riduce, nel processo diretto di produzione, valore e plusvalore delle merci al lavoro» (ivi, libro III, pp. 943-944).

Gli studi condotti da Smith e da Ricardo, che prestò maggior attenzione al problema dell'analisi dello sfruttamento capitalistico, del valore-lavoro e del plusvalore, possono essere considerati come la più alta espressione - sul terreno delle teorie economiche - del pensiero borghese, così come la filosofia classica tedesca trovò in Hegel il suo massimo e insuperato esponente. Marx, oltre a riconoscere e ad apprezzare l'impegno scientifico di questa scuola, dedicò la parte senz'altro più rilevante dei suoi studi alla critica dell'economia politica classica. Infatti la citazione sopra riportata così prosegue:

«Tuttavia anche i migliori suoi rappresentanti rimangono, e del resto non può accadere diversamente partendo dal punto di vista borghese, più o meno impigliati in quel mondo dell'apparenza da essi criticamente dissolto e quindi cadono tutti più o meno in incoerenze e contraddizioni non risolte, arrestandosi talvolta a metà strada» (ivi).

Il limite principale dell'economia politica classica fu proprio quello di non riuscire a portare fino alle sue estreme conseguenze l'analisi del valore-lavoro e di non comprendere che il carattere transitorio e storicamente determinato è proprio anche del capitalismo, e che i rapporti di produzione capitalistici nel loro sviluppo generano le premesse per il loro superamento.

Ricardo che ha, secondo l’espressione di Marx, «sezionato» l'economia borghese «che nelle sue profondità ha un aspetto del tutto diverso da quello che presenta alla superficie», può essere considerato come l'ultimo esponente della scuola classica dell'economia politica, in quanto lo sviluppo coerente della sua concezione implica la critica del regime economico fondato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sfocia direttamente nella critica radicale del capitalismo e anche della scienza che ha cercato di studiarne lo sviluppo dal punto di vista della classe borghese.

Sismondi che, sia pur frammentariamente, ha cercato di criticare Ricardo partendo dai presupposti dell'economia politica classica, viene considerato da Marx come l'autore di un timido tentativo di autocritica di questa scienza. Inoltre l'economia politica classica non riuscì a spiegare soddisfacentemente le cause delle crisi, la legge dell'accumulazione capitalistica, il fenomeno della concorrenza e le sue cause profonde (questo soprattutto in Smith, che fu un sostenitore del liberismo) e in generale, come afferma Engels nella prefazione dell'edizione inglese de Il Capitale, essa

«... pur consapevole perfettamente che sia il profitto sia la rendita non sono che suddivisioni, sezioni di quella parte non retribuita del prodotto che l'operaio deve fornire al suo imprenditore (che è il primo ad appropriarsela benché non ne sia il possessore ultimo, esclusivo), non è mai andata al di là delle nozioni comunemente accettate di profitto e di rendita, non ha mai esaminato nel suo complesso, come un tutto unico questa parte non retribuita del prodotto (che è chiamata da Marx plusprodotto), e dunque non è mai giunta ad una chiara comprensione né della sua origine e della sua natura, né delle leggi che regolano la successiva distribuzione del suo valore» (ivi, libro I, p. 55).

Ben diversa fu, come già abbiamo accennato, la considerazione che il marxismo ha dell'economia volgare, che non è altro che la banalizzazione dell'economia politica, che si ferma alla superficie dei fenomeni economici e spesso è una vera e propria apologia del capitalismo, corrispondente in pieno alle esigenze che la classe dominante ha di nascondere e mistificare i reali rapporti di produzione. Esponenti divenuti famosi più che per proprio merito per le critiche che il marxismo rivolge loro furono, tra gli altri, ai tempi di Marx ed Engels, F. Bastiat e E. Dühring.

Se l'economia politica classica ha in Ricardo il suo ultimo esponente, l'economia politica borghese in generale è sopravvissuta alle critiche di Marx, nel senso che ha preferito ignorarne l'opera o deformarne i principi. Lo sviluppo del capitalismo monopolistico, in particolare, ha fatto ritenere a molti studiosi che si potesse parlare di un superamento della concezione marxiana (Marxismo) dell'economia politica, in quanto la nuova fase del capitalismo sarebbe regolata da leggi diverse da quelle studiate da Marx.

L'analisi del capitalismo monopolistico condotta da Lenin in L'imperialismo fase suprema del capitalismo mostra invece che, anche in questa nuova fase, permangono le stesse condizioni generali dei rapporti di produzione esaminati da Marx, e che anzi si sono aggravate e intensificate le contraddizioni caratteristiche del capitalismo del XIX secolo.

Dopo la grande crisi del 1929, soprattutto negli USA, sorse una nuova scuola economica, il cui principale esponente fu Keynes, che fornì il fondamento teorico della politica inflazionistica che caratterizzò la successiva ripresa economica. Questo periodo, comunemente chiamato neocapitalismo o ancora più genericamente società dei consumi, è stato considerato come totalmente differente dal capitalismo studiato da Marx e da Lenin. Tuttavia gli sviluppi più recenti del modo di produzione capitalistico, che sono contraddistinti dal permanere di una situazione di crisi generalizzata di carattere internazionale, non solo economica ma anche politica, confermano che è tuttora indispensabile, per comprendere la natura di questa crisi e le sue possibili soluzioni, rifarsi ai principi della critica dell'economia politica e del capitalismo sviluppati dal marxismo.

Economicismo

 

Tendenza abbastanza diffusa nei partiti socialdemocratici - a cominciare dagli ultimi anni dell'Ottocento - a limitare gli obiettivi della classe operaia alla lotta economica connessa all'aumento dei salari. Si presentò come corrente relativamente organizzata in Russia e nel sindacalismo rivoluzionario di G. Sorel, l'economicismo fu la manifestazione sul piano politico della rinuncia a una critica complessiva dal punto di vista marxista della società capitalistica e, in ultima analisi, fu il prodotto di una concezione che contraddiceva gli stessi risultati fondamentali dell'analisi di Marx, che dimostravano l'esistenza di uno stretto rapporto tra organizzazione economica capitalistica e Stato borghese e l'impossibilità per la classe operaia di ottenere miglioramenti stabili delle condizioni di vita dei lavoratori attraverso la semplice rivendicazione economica.

L'economicismo fu combattuto dai principali esponenti del movimento comunista in quanto riduceva il ruolo del partito a semplice contemplazione dell'evoluzione spontanea del movimento di rivendicazione economica. Lenin dedicò una delle sue opere più importanti, il Che fare, all'analisi del rapporto tra rivendicazione economica e lotta politica, mostrando la necessità che il partito politico rivoluzionario trasformi la lotta economica - spesso spontanea - delle masse in lotta politica organizzata per il fine consapevole del rovesciamento dei rapporti di produzione capitalistici, della distruzione dell'apparato statale borghese e della sua sostituzione con lo stato socialista.

Anche Gramsci esaminò criticamente le concezioni economiciste, paragonando il «liberismo» proprio di un gruppo sociale dominante e dirigente e 1'«economicismo» proprio «di un gruppo ancora subalterno, che non ha ancora acquisito coscienza della sua forza e delle sue possibilità e modi di sviluppo e non sa perciò uscire dalla fase di primitivismo». Secondo Gramsci infatti il «sindacalismo teorico» di Sorel, giudicato «economicismo allo stato puro», era una derivazione delle dottrine economiche del libero scambio e impediva alla classe operaia «(...) di svilupparsi oltre la fase economico-corporativa per elevarsi alla fase di egemonia etico-politica nella società civile e dominante dello Stato» (Egemonia).

Egemonia

 

E' la funzione esercitata dal gruppo sociale che è, o è in grado di diventare, il nucleo dirigente di un'intera società. Essa si manifesta come capacità di orientamento e di aggregazione di altri gruppi sociali, che svolgono ruoli non altrettanto decisivi all'interno dei rapporti di produzione, nonché come direzione politica, intellettuale e morale su vasti settori di popolazione che non appartengono al gruppo sociale egemone in senso stretto. Secondo Gramsci:

«... il contenuto dell'egemonia politica del nuovo gruppo sociale che ha fondato il nuovo tipo di Stato deve essere prevalentemente di ordine economico: si tratta di riorganizzare la struttura e i rapporti reali tra gli uomini e il mondo economico o della produzione» (Quaderni del Carcere, p. 1053).

Infatti pur essendo un fenomeno di direzione essenzialmente culturale e morale, una «valorizzazione del fatto culturale», le capacità egemoniche di un gruppo sociale sono un'emanazione organica di necessità economiche. Il problema dell'egemonia è strettamente legato a quello del «blocco storico», cioè al problema della trasformazione del gruppo subordinato in dominante, «perché l'egemonia è anche economica e ha il suo fondamento nella funzione decisiva che il gruppo dirigente esercita nel nucleo decisivo dell'attività economica».

Nel caso di una formazione sociale sviluppata e complessa la funzione egemonica comprende in sé sia il momento della direzione e dell'orientamento politico, culturale e morale, che quello della coercizione, del dominio sui gruppi sociali egemonizzati. Un esempio, in Italia, del caso in cui l'egemonia si è manifestata come contrasto permanente e ha assunto le caratteristiche di un dominio è il rapporto che si è storicamente realizzato tra il gruppo dirigente industriale del Nord e il Sud arretrato (Questione meridionale). Un altro esempio tipico di rapporto egemonico analizzato da Gramsci è quello che si verificò durante il Risorgimento tra il gruppo che ebbe l'effettiva direzione del moto, i moderati guidati da Cavour, e altri gruppi politici tra i quali i mazziniani, che, anche se in gran parte furono gli artefici materiali delle insurrezioni, non riuscirono a imprimere al processo di formazione dello Stato unitario italiano l'orientamento politico da essi proposto.

La funzione egemonica e le condizioni necessarie per il suo verificarsi sono oggetto di analisi e di studio per tutto il movimento comunista, in quanto, secondo il marxismo, è necessario che la classe operaia e le sue organizzazioni sappiano realizzare l'egemonia come direzione politica, culturale e morale già all'interno della società borghese, nel processo rivoluzionario, conquistando alla prospettiva della costruzione del socialismo la maggioranza della popolazione. Inoltre, poiché l'egemonia storicamente si è presentata anche, e in certi casi soprattutto, come dominio e coercizione di classe, per il partito rivoluzionario si presenta il problema della realizzazione di un'egemonia di tipo nuovo, in cui il momento della direzione, del consenso e della partecipazione siano prevalenti e il momento del dominio scompaia progressivamente, cosa che può avvenire completamente solo con l'estinzione dello Stato e la scomparsa delle classi. L'egemonia viene proposta, nell'attuale dibattito politico italiano, come la capacità da parte del Partito Comunista di unificare forze politiche e sociali diverse sulla base di un programma comune che affronti e risolva problemi di interesse generale. A questo proposito è in corso una discussione concernente la corretta interpretazione della stessa formulazione gramsciana dei concetti di egemonia e di blocco storico che, originariamente, si accompagnavano a quello di dittatura del proletariato.

Eguaglianza

 

Principio della parità dei diritti degli uomini, che nella sua forma moderna è stato sviluppato in modo particolare dall'Illuminismo. Con la «Dichiarazione dei Diritti dell'uomo e del cittadino», votata dall' Assemblea Costituente il 26 agosto 1789, il principio dell'«uguaglianza giuridica e politica» entrava a far parte dei principi legislativi dello Stato francese; era certamente la più grande conquista rivoluzionaria dell'umanità, eppure rivelava già i limiti e gli interessi della classe che l'aveva ispirata.

L'Articolo 1, per esempio: «Gli uomini nascono e restano liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull'utilità comune ...», era già un criterio di subordinazione dell'eguaglianza a un principio estraneo, quello dell'utilità, interpretabile in vario modo. A sua volta l'Articolo 6 dichiarava che

«La Legge deve essere la stessa per tutti, sia che protegga, sia che punisca. Tutti i cittadini, essendo uguali di fronte ai suoi occhi sono egualmente ammissibili a ogni dignità, posto e impiego pubblico, secondo le loro capacità, e senz'altra distinzione di quella delle loro virtù e dei loro talenti»

trascurando quindi di considerare che «capacità» , «virtù» , «talento» dipendono in ultima analisi, dalla condizione economica e sociale in cui l'uomo si trova fin dalla nascita. La Dichiarazione sanciva dunque un'eguaglianza formale di fronte alle leggi, ai tributi, agli impieghi, ma, garantendo nel contempo la proprietà privata, introduceva di nuovo una fonte insopprimibile di disuguaglianza.

E' questo il senso della critica marxista al concetto di eguaglianza giuridica e politica entrato a far parte della Costituzione di quasi tutti gli Stati moderni: la promessa dell'uguaglianza per tutti è subito revocata nella difesa giuridica di condizioni di privilegio.

Egualitarismo

 

E' la dottrina tendente a garantire a tutti gli uomini le condizioni necessarie e i mezzi per poter raggiungere un'eguaglianza sociale reale ed effettiva.

Emancipazione

 

Nel significato letterale è la concessione della libertà, la cessazione del rapporto di schiavitù, indipendentemente dalla volontà dello schiavo. Nel marxismo, invece, assume il significato di risultato della lotta per la liberazione del proletariato dalla condizione di dipendenza economica, politica, sociale e culturale in cui è costretto nella società borghese. Questo termine è spesso riferito a un contesto specifico, come per esempio emancipazione dai vincoli giuridici, o emancipazione del lavoro, e in questo si distingue dal significato più complessivo del concetto di liberazione.

A questo proposito sono sorte delle polemiche riguardo all'uso del termine di emancipazione per caratterizzare l'obiettivo di movimenti politici, come ad esempio quello femminile. Infatti, secondo alcuni, indicare nell'«emancipazione della donna» le finalità di questo movimento comporta, in un certo senso, l'implicita ammissione del carattere parziale e limitato alla «conquista della parità di diritti con l'uomo» di questa lotta, che invece deve essere una vera e propria lotta di liberazione nel senso più ampio del termine.

Emancipazione femminile

 

(Questione femminile)

Empiriocriticismo

 

Concezione filosofica sviluppata da E. Mach e R. Avenarius e affrontata criticamente da Lenin in Materialismo ed Empiriocriticismo. Il punto di partenza della riflessione, in particolar modo di Mach, è il tentativo di liberare il positivismo dal dogmatismo e dalla metafisica di cui era intriso verso la fine del sec. XIX, attraverso la critica dei concetti e dei metodi delle scienze e la definizione di una filosofia il più possibile rigorosa e adeguata allo sviluppo scientifico.

Mach parte nella sua analisi dall'«esperienza pura», cioè dalla sensazione come sola realtà certa e fonte prima di ogni vera conoscenza. La tesi fondamentale è che l'esperienza pura precede la distinzione tra l'aspetto fisico e quello psichico della realtà, che perciò non può e non deve essere interpretata né in senso materialistico né in senso idealistico. Non vi è quindi alcuna distinzione tra soggetto e oggetto: ambedue si identificano in un'unica realtà psicofisica. Gli elementi di questa realtà sono le sensazioni, che, in sé neutre, si qualificano conformemente ai rapporti che di volta in volta vengono a stabilirsi tra di esse.

Così ciò che noi chiamiamo «cose» e «pensiero» sono soltanto forme diverse di rapporto degli stessi complessi elementi, nel senso che la loro diversità dipende solo da una diversità di caratteri e di rapporti. Per Mach le cose al di là di questi elementi sono un'illusione metafisica. In questa concezione anche le teorie scientifiche e le leggi di natura non corrispondono a entità oggettive, ma hanno un carattere convenzionale e di economicità, dipendendo da criteri di utilità, comodità e abitudine.

Lenin combatté aspramente la posizione filosofica di Mach e dei suoi seguaci in Russia mettendone in luce, dietro la facciata critica e aperta, la realtà idealistica e reazionaria. Il significato dell'intervento leniniano può essere compreso solo all'interno della situazione politica e culturale creatasi nella socialdemocrazia russa dopo il fallimento della rivoluzione del 1905. Gli interlocutori di Lenin erano quei pensatori che, pur richiamandosi al marxismo, ne abbandonavano la concezione materialistico-dialettica per farsi portatori della sintesi tra marxismo ed empiriocriticismo, ritenuto idoneo a modernizzare il marxismo, alla luce dei più moderni sviluppi delle scienze e della più avanzata cultura europea. Per Lenin, in una situazione di ripensamento della propria strategia da parte del partito, tale operazione, sotto l'apparenza di un raffinato spirito critico, non solo portava a posizioni idealistiche in filosofia, ma, trattando problemi solo apparentemente slegati dall'azione politica e dalla battaglia teorica, giungeva all'agnosticismo anche nel campo delle scienze sociali e alla negazione della lotta rivoluzionaria.

La critica di Lenin non si rivolse solo ai machisti russi, ma anche e soprattutto a quel movimento più vasto che dominava gli ambienti filosofici e scientifici d'Europa e che ambiva a presentarsi come la più valida scuola di interpretazione dei nuovi risultati scientifici. In questo senso il testo leniniano assume il valore di opera teorica di difesa del marxismo e di suo sviluppo in relazione alle nuove condizioni delle scienze all'inizio del sec. XX. All'empiriocriticismo che riteneva il materialismo superato, Lenin oppose la validità delle tesi del materialismo dialettico, come le uniche capaci di sciogliere il nodo della crisi delle scienze dell'Ottocento, la considerazione della quale portava i filosofi a conclusioni di tipo convenzionalistico e idealistico.

La realtà esiste oggettivamente, dice Lenin, e l'uomo la conosce attraverso un attivo processo di rispecchiamento teorico e di trasformazione pratica. Mach, nel suo tentativo di superare sia il materialismo che l'idealismo, non si rende conto dell'assoluta opposizione delle due tendenze. Il partire dalle sensazioni di Mach quindi è equivoco finché non si precisa la natura delle sensazioni. Per Lenin «la sensazione è realmente il legame diretto della coscienza col mondo esterno». E' proprio questo legame che nega Mach, vedendo anzi la sensazione come un muro invalicabile tra la coscienza e il mondo esterno, in definitiva pertanto come l'unica realtà conoscibile. Così o gli elementi sono sensazioni e allora non esistono fuori della coscienza, o non lo sono e allora si dovrebbe in un modo o nell'altro accedere a posizioni materialistiche, in quanto si dovrebbe ammettere l'esistenza di oggetti indipendentemente dalla coscienza. Per Lenin sono le stesse scienze e il loro sviluppo che confermano la validità delle posizioni materialistiche.

Entrismo

 

Tattica consistente nell'introdursi, con una linea politica predeterminata, all'interno di un gruppo politico già organizzato, allo scopo di condizionare la linea politica di quest'ultimo e di provocare frazioni o scissioni. Questa tattica è stata spesso adottata da organizzazioni che si rifacevano al trotskismo.

Estraniazione

 

E' il processo attraverso il quale il produttore si trova nel rapporto col prodotto del suo lavoro come se questo fosse un oggetto esterno. Di conseguenza,

«... quanto più l'operaio lavora, tanto più acquista potenza il mondo estraneo, oggettivo, che gli si crea di fronte, e tanto meno egli possiede. Come nella religione. Più l'uomo mette in Dio e meno serba in se stesso. L'operaio mette nell'oggetto la sua vita, e questa non appartiene più a lui, bensì all'oggetto ...» (Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere III, p. 298).

Si tratta dunque di un fenomeno strettamente legato ai processi di oggettivazione e di alienazione. Di quest'ultima, secondo molti, il termine estraneazione è praticamente sinonimo: Marx cioè userebbe l'uno e l'altro indifferentemente per indicare la condizione di estraneità del lavoratore di fronte ai prodotti del suo lavoro e al lavoro stesso. Secondo altri esisterebbe una certa differenza: estraneazione indicherebbe genericamente il diventare estraneo di un prodotto dell'attività umana, alienazione sarebbe la forma storica dell'estraneazione nella società dominata dal capitalismo.

In ambedue i casi il termine rinvia al fatto che i lavoratori sono esclusi da ogni scelta relativa alla qualità e quantità della produzione, imposta dall'alto secondo criteri tendenti a realizzare il massimo profitto e indifferenti a ogni altra ragione. I lavoratori colgono qui la loro reale collocazione all'interno delle esigenze produttive: essi verificano in concreto il loro ruolo di «strumenti della produzione, che devono rendere quanto è possibile e costare il meno possibile».

Lo stesso imprenditore non sfugge in quanto uomo a un processo dello stesso tipo e diventa lo strumento del suo capitale, che ha

«... potere di comando sul lavoro ed i suoi prodotti. Il capitalista ha questo potere non per le sue personali o umane qualità, bensì in quanto proprietario del capitale. Il suo potere è il potere d'acquisto del suo capitale, cui niente può resistere» (ivi, p. 269).

L'estraneazione è dunque un fenomeno che riguarda l'umanità nel suo insieme in una lunga epoca del suo sviluppo storico; averne coscienza vuol dire acquisire una di quelle forme di consapevolezza che sorpassano i limiti del momento storico dominato dal modo di produzione capitalistico; è «un reale progresso», nota Marx, ma non la fine dell'estraneazione che è uno degli scopi del comunismo.

Estremismo

 

Indica un atteggiamento intransigente, astratto, dogmatico, incapace di cogliere la specificità della situazione; si manifesta spesso nell'adozione di una pratica che, volendo essere rigida applicazione della teoria, è inadeguata a risolvere i problemi posti del processo storico reale. Estremistico, ad esempio, è l'atteggiamento che «si abbandona con facilità a sentimenti rivoluzionari estremi, ma non è capace di dimostrare fermezza, organizzazione, disciplina, tenacia».

Storicamente l'estremismo di sinistra ha rappresentato una delle tendenze costanti dei movimenti rivoluzionari, dai comunardi blanquisti fino ai nostri giorni, e fu sempre avversato dai partiti leninisti che lo valutarono negativamente per le sue risoluzioni velleitarie.

Lenin in particolare intervenne contro il «dottrinarismo di sinistra» espressione teorica del comunismo di sinistra (Linkskommunismus), movimento sviluppatosi in Germania nel primo dopoguerra e le cui direttive pratiche furono fatali per il movimento organizzato. Soprattutto l'invito a non «compromettersi  con altri partiti, a non partecipare ai sindacati reazionari e ai parlamenti borghesi, furono indicati da Lenin come operazioni che, indebolendo la classe operaia, finivano col fare il gioco della borghesia.

Etica

 

Il termine, che ha una lunga storia di significati variabili, indica la scienza costituita dalle attività teoriche dirette alla formulazione di giudizi di valore; l'oggetto di un'etica, in altre parole, è la valutazione di un comportamento secondo i criteri derivati da un certo sistema di riferimento.

Sul rapporto tra etica e morale esistono pareri discordi: non manca né chi tende a considerarle di fatto non distinguibili l'una dall'altra, né chi considera l'etica come la scienza che ha per oggetto la morale intesa come la somma delle prescrizioni e degli obblighi di carattere, appunto, morale.

Nei classici del marxismo si ha a che fare piuttosto con il primo modo di intendere l'etica che non con il secondo; il sistema di riferimento dell'etica marxista è assai ampio e implica un'interpretazione della storia nella quale è definito lo scopo collettivo di una classe, di un popolo, ecc.; una concezione antropologica che individua la natura del soggetto umano e le sue forme di espressione; una teoria politica in cui il senso astratto della libertà umana viene precisato concretamente come libertà politica; una teoria economica nella quale si dimostra come un sistema basato sulla divisione del lavoro crea degli interessi materiali capaci di determinare diversamente la società e l'agire sociale. Il discorso sull'etica deve quindi richiamarsi a una serie di coordinate teoriche che coinvolgono il marxismo nel suo insieme e particolarmente il concetto di ideologia.

Nell'ambito di questa può infatti essere condotta l'analisi di un momento ideologico negativo, l'ideologia della borghesia, e di un momento ideologico antitetico, l'ideologia del proletariato come prodotti teorici dell'antagonismo di classe fra i detentori dei mezzi di produzione e i produttori. Come si può rilevare, per esempio a proposito della guerra e della nazionalità, c'è sempre da parte maoista la consapevolezza che non si può ricorrere a giudizi di valore assoluto, che non esiste un unico sistema di riferimento; questo fatto semmai è verificabile all'interno dell'ideologia di una singola classe qualora esistano interessi omogenei, ma non tra le diverse classi, le cui differenze di interessi hanno dato origine a un pluralismo ideologico. Questo può essere constatato nella sfera della morale positiva, cioè di tutte quelle forme di eticità che si sono andate istituzionalizzando come correlato giuridico-politico di un «costume» confacente alla classe al potere; secondo il marxismo le varie regole morali comparse nel corso della storia si rivelano infatti come obblighi specifici che la collettività impone al singolo per realizzare la coesione e l'ordine sociale. La formazione economico sociale è dunque il presupposto dell'etica tanto a livello delle istituzioni quanto a livello di coscienza individuale; se l'uomo, secondo la definizione di Marx, è l'insieme dei suoi rapporti sociali vuol dire che questi non sono soltanto una realtà esterna ma entrano a far parte della sua vita interiore: istituzionalizzati, essi penetrano nella coscienza e nel linguaggio. La coscienza etica dell'individuo, in breve, è il riflesso del momento etico della sovrastruttura relativa a una data epoca dello sviluppo della società; la morale è allora lo strumento ideologico della classe dominante attraverso il quale si esprime e si rinsalda la legittimità del dominio fino all'interno delle singole coscienze; in questi termini essa entra a far parte integralmente dell'ideologia e, nel caso dell'ideologia borghese che continua a considerare i rapporti umani in modo astratto, introduce specifici concetti mistificatori la cui funzione oggettiva è l'occultamento del proprio interesse di classe. Se infatti un'ideologia non contempla l'idea dello sfruttamento di una classe sull'altra, è evidente che non potrà dar luogo ad alcun giudizio morale sul fatto.

Criticando radicalmente la società dominata dal modo di produzione capitalistico il marxismo tocca dunque la sfera dell'etica sotto tre aspetti tra loro diversi ma complementari. Il primo è quello della critica alla concezione e alle regole della moralità borghese, condotta all'interno dell'analisi scientifica dell'ideologia. Il secondo aspetto riguarda l'etica futura, quella dell'umanità finalmente liberata dal dominio di classe dove l'uomo potrà passare dal «regno della necessità al regno della libertà» (Libertà e necessità); così secondo le parole di Engels finirà la condanna alla «lotta per l'esistenza individuale» e gli uomini potranno realizzare pienamente le proprie facoltà fisiche e spirituali.

Il terzo aspetto si può riassumere in una domanda: qual è il «giusto» comportamento umano secondo i criteri del marxismo nella società ancora divisa in classi? Da Marx in poi buona parte degli scritti marxisti contengono degli imperativi morali: il Manifesto stesso si conclude con un imperativo, la Critica del programma di Gotha richiama a «doveri» che, inadempiuti, significano tradimento o capitolazione di fronte al nemico di classe; le opere di Engels non furono da meno nel delineare l'impegno morale dei militanti; Lenin insisté infinite volte sulla devozione alla causa, la fermezza, l'abnegazione spinte fino all'eroismo dei comunisti. Gramsci a sua volta scriveva: «siamo nel Partito perché persuasi che in esso, e solo in esso sia la moralità che corrisponde alle leggi dell'etica».

Vengono così tracciati gli elementi di un «codice etico» che indica doveri e pone le basi per giudizi di valore; il problema, ancora aperto, è quello di motivare in termini marxisti la validità di questi obblighi morali che costituiscono la premessa per ogni azione. Quando si tentò di farlo introducendo dall'esterno un'etica preesistente, l'operazione - svolta all'insegna del «ritorno a Kant» - diede anche in questo campo pessimi risultati (Revisionismo).

Evoluzionismo

 

Con questo termine bisogna intendere il complesso delle dottrine filosofiche che vedono nell'evoluzione il tratto fondamentale di ogni tipo o forma di realtà e perciò il principio adatto a spiegare la realtà nel suo complesso. In questo senso l'evoluzionismo è stato assunto come schema fondamentale di molte e diverse filosofie, sia in senso materialistico che in senso spiritualistico. Il tratto comune è il richiamo alla «teoria dell'evoluzione», sviluppata tra gli altri da Darwin, la quale afferma la provenienza di tutti gli esseri viventi da uno o più tipi originali attraverso la trasformazione graduale delle specie viventi, come ipotesi fondamentale delle teorie biologiche. Implicita in questa concezione è l'idea di progresso, cioè la convinzione che si vada pacificamente da forme inferiori e semplici a forme superiori e più perfette.

Questo principio andava contro quello della fissità e immutabilità della specie, riflessi in biologia della tradizione metafisica dal pensiero greco in poi, che aveva costituito per molti secoli l'impalcatura generale della ricerca filosofica e scientifica. Soltanto a partire dal sec. XVIII alcuni naturalisti cominciarono a considerare la possibilità della trasformazione delle specie biologiche: fu però Darwin nel 1859 col suo libro L'origine della specie a fondare scientificamente la moderna teoria dell'evoluzione biologica.

Da allora gli studi di genetica hanno avviato la teoria dell'evoluzione su un terreno di ricerche sperimentali, all'interno del quale essa è divenuta il quadro complessivo degli strumenti e delle direzioni possibili, evitando le banalizzazioni e le dogmatizzazioni che erano state le caratteristiche della fase precedente. Così per esempio l'abbandono dell'idea di progresso. Se l'evoluzione non è necessariamente progresso, tanto meno progresso unilineare, necessario e costante, fu invece proprio questo l'aspetto centrale dell'operazione di estensione dei principi evoluzionistici dal campo delle scienze naturali a quello delle scienze umane e sociali, che progressivamente giunsero a improntare di sé la concezione generale del mondo dominante nella cultura positivistica della seconda metà dell'Ottocento e a costituire un elemento - talora integrante, talora dominante - di concezioni opposte.

La figura più importante di questa operazione fu il filosofo inglese Spencer, che accentuò in senso meccanicistico i temi dell'evoluzionismo, postulando un'idea di progresso capace di spiegare la realtà nella sua totalità e mettendo in particolare rilievo i tratti ottimistici e gradualistici, attraverso una concezione dell'evoluzione che, dal mondo naturale a quello umano, considerava la moralità e la socialità come ulteriori gradi di un unico processo naturale di sviluppo della realtà.

Se dapprima, come si è detto, la teoria dell'evoluzione fornì la base scientifica alle teorie positivistiche di tipo meccanicistico, in seguito, nell'ambito della crisi del positivismo, permeò anche le concezioni spiritualistiche e irrazionalistiche a cavallo dei due secoli: segno della vastissima diffusione che essa ebbe in tutte le forme della vita intellettuale.

La credenza che la realtà fosse un processo lento, graduale e necessariamente progressivo influenzò profondamente l'impostazione delle ricerche storiche e sociologiche, fino a contaminare anche il marxismo a un certo punto del suo sviluppo storico. I temi dell'evoluzionismo infatti furono fatti propri dalla Seconda Internazionale e dai suoi capi, i quali negando la dialettica, che si muove per contraddizioni e rotture, accettarono il gradualismo e il meccanicismo positivista, sulla cui critica proprio Marx ed Engels avevano sviluppato la propria concezione.

Tale opera di revisione del marxismo si basava sull'ipotesi che la lotta di classe fosse destinata ad attenuarsi, attraverso il progressivo accoglimento delle necessità delle classi subalterne nel quadro di un pacifico e graduale ampliamento della democrazia borghese verso il socialismo. In questa concezione, che si riassumeva nella frase di E. Bernstein secondo cui il movimento era tutto e il fine nulla, il processo rivoluzionario si riduceva a una linea retta, il cui obiettivo strategico rimaneva un miraggio slegato dalle sue tappe concrete di avvicinamento, mentre l'obiettivo tattico si riduceva a mero tatticismo economicista, slegato dal progetto complessivo. La classe operaia non dovrebbe quindi mirare a impadronirsi del potere con la rivoluzione, ma riformare lo Stato, trasformandolo in senso democratico; dovrebbe limitarsi a battersi per la democrazia e a sostenere l'espansione economica e l'interesse nazionale. Dovrebbe cioè rinunziare al programma massimo del rovesciamento del sistema capitalistico, per un'evoluzione pacifica delle istituzioni borghesi, superando così la divisione e l'antagonismo tra le classi.