a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare di Torino
Dizionario enciclopedico marxista
Premessa A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z
R
Secondo Marx,
«... nella produzione
sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati,
necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che
corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive
materiali» (Marx, Per la critica
dell'economia politica, p. 5).
I rapporti di produzione trovano la loro espressione giuridica nei rapporti di
proprietà; ad esempio ai rapporti capitalistici di produzione corrisponde la
proprietà privata dei mezzi di produzione e delle «condizioni di lavoro».
Tuttavia i rapporti di produzione sono essenzialmente rapporti sociali, cioè da
un lato condizionano tutta la società in cui sono «rapporti dominanti», e
dall'altro sono a loro volta influenzati, in diversa misura, da tutte le altre
manifestazioni della vita sociale, ivi comprese quelle che Marx chiama le
sovrastrutture giuridiche, politiche, morali ecc.
Secondo la concezione materialistica della storia le diverse epoche, o fasi di
sviluppo, dell'umanità devono essere analizzate
studiando il rapporto che intercorre tra il grado di sviluppo delle forze produttive e i rapporti di
produzione corrispondenti. Infatti il solo modo in cui può concretamente
realizzarsi il lavoro, e quindi il «ricambio organico tra l'uomo e la natura»
consiste nel fatto che il lavoro stesso si attua all'interno di determinati
rapporti di produzione e di una divisione sociale (del lavoro). Tuttavia,
secondo Marx, in determinate condizioni storiche «questi rapporti, da forme di
sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene: allora subentra
un'epoca di rivoluzione sociale».
I rapporti di distribuzione esprimono
le modalità e la proporzione in cui il valore complessivo del prodotto viene
ripartito, in un periodo di tempo determinato, tra i possessori dei diversi
fattori della produzione; nella società capitalistica assumono la forma
caratteristica di salario, profitto di imprenditore, interesse e rendita
fondiaria. Secondo Marx:
«I cosiddetti rapporti di distribuzione
corrispondono, quindi, a forme storicamente determinate, specificamente
sociali, del processo di produzione e dei rapporti in cui gli uomini entrano
nel processo di riproduzione della loro vita e derivano da queste forme. Il
carattere storico di questi rapporti di distribuzione è il carattere storico
dei rapporti di produzione, dei quali essi esprimono soltanto un aspetto. La distribuzione
capitalistica è distinta dalle forme di distribuzione che derivano da altri
modi di produzione, ed ogni forma di distribuzione scompare insieme con la
forma di produzione determinata a cui essa corrisponde e da cui deriva» (Il Capitale, libro III, p. 1001).
Espressione largamente usata dagli economisti borghesi, che indicavano con essa
l'insieme dei redditi prodotti in un anno dalla nazione, comprendendovi i
salari e le altre forme di retribuzione da lavoro dipendente, i redditi da
lavoro indipendenti, la rendita fondiaria
e i profitti dell'industria; questa definizione coincide con quella di prodotto nazionale, solitamente suddiviso
in prodotto nazionale netto e lordo a seconda che siano considerati o meno gli
ammortamenti del capitale.
Secondo Marx questa traduzione in una somma generica di salari, rendita
fondiaria e profitto industriale cancella le differenze realmente esistenti tra
le fonti di questi redditi e la loro collocazione all'interno del sistema
sociale;
«Considerando il reddito
di tutta la società, il reddito nazionale si compone del salario più il
profitto, più la rendita, quindi del reddito lordo. Ma anche ciò non è che una
astrazione, nel senso che tutta la società, sulla base della produzione
capitalistica, ha una concezione capitalistica e considera in conseguenza come
reddito netto unicamente il reddito che si risolve in profitto e rendita»
(Marx, Il Capitale, libro III, p.
1936).
E' il processo, strettamente legato ai fenomeni di mercificazione e di
alienazione, per cui tutto viene immaginato come «cosa», donde anche le
espressioni cosalizzazione e cosificazione per tradurre il vocabolo tedesco Verdinglichung impiegato da Marx. La
parola «cosa», come è noto, è usata nel linguaggio comune in modo da poter
sostituire ogni altro termine che indichi un qualsiasi elemento, materiale e
non, di cui a torto o a ragione si suppone l'esistenza; in un linguaggio più
specifico la parola «cosa» è usata per indicare ciò che è diverso da un fatto o
fenomeno: il sole è una cosa, il tramonto un fatto, ciò che si muove è una
cosa, il suo movimento è un fatto.
Partendo dalla considerazione che nel sistema capitalistico il lavoratore è costretto a vendere la propria
forza-lavoro come merce, a «mercificare» dunque una delle risorse essenziali
dell'uomo, Marx sottolinea che in questo modo la forza-lavoro di ciascuno è
trattata al pari di altre cose provviste di una qualche utilità che si possono
vendere o comperare ai prezzi di mercato: viene ridotta a cosa, cioè subisce un
processo di reificazione che ne occulta la vera natura, essendo una merce tra
le molte disponibili. E poiché essa è l'elemento-tipo sul quale il capitalismo
tende a ricondurre tutte le differenze, queste vengono abolite: prodotti del
lavoro e qualità umane, idee e creazioni dell'arte, sentimenti e rapporti tra
gli uomini, finiscono con l'assumere carattere di cose regolate dalla logica
propria del mondo delle merci. Lo stesso capitalismo non appare più nella sua
vera natura di rapporto di produzione sociale sorto in un dato momento storico
ma come una cosa astratta e lontana di cui conviene registrare l'esistenza
senza metterne in discussione l'opportunità e la durata.
Del resto tutti i rapporti tra gli uomini hanno assunto nella società
capitalistica l'aspetto di cose o di rapporto tra cose:
«Il borghese vede nel
proletario non l'uomo, ma la forza per creare ricchezza, una forza che
egli allora può anche confrontare con altre forze produttive, con l'animale, la
macchina, e ogni volta che il confronto gli sia sfavorevole, la forza il cui
portatore sia un uomo deve cedere il posto alla forza il cui portatore sia un
animale o una macchina, dove poi egli gode (possiede) sempre dell'onore di figurare
come "forza produttiva". Quando io designo l'uomo come "valore
di scambio", già l'espressione dimostra che le condizioni sociali lo hanno
trasformato in una "cosa". Quando lo tratto come "forza
produttiva", io metto al posto del soggetto reale un altro soggetto, gli
sostituisco un'altra persona, egli esiste ormai solo come causa di ricchezza.
L'intera società umana diviene soltanto una macchina per creare ricchezza»
(Marx, A proposito del libro di Friedrich
List, in Opere IV, p.
606).
Il concetto di reificazione è stato alla base di tutta una serie di ulteriori
ricerche; la più nota e importante è quella svolta da G. Lukács in Storia e coscienza di classe, dove è
studiata tra l'altro la reificazione alla quale soggiacciono i processi di
coscienza in rapporto alle caratteristiche della presente società. Questo libro
terminato alla fine del 1922, condannato nel 1925 da una dura critica di
Bucharin, allora molto vicino a Stalin, e infine criticato dallo stesso Autore
quando i tempi erano molto cambiati (1967), è una delle opere che ha
maggiormente influenzato il cosiddetto marxismo occidentale (Marxismo).
Per religione si intende l'insieme di dottrine e di riti che l'uomo pone tra se
stesso e tutto ciò che egli reputa sacro, divino, o che comunque è oggetto
della sua devozione.
Secondo il marxismo i fenomeni religiosi sono in relazione con le contraddizioni sociali; in particolare la
religione è nata come una rappresentazione primitiva e distorta nella mente
degli uomini del loro rapporto con la natura. Dal punto di vista storico, le
religioni si sono sviluppate nelle comunità primitive come un processo di
progressiva attribuzione di caratteri sovrumani ai fenomeni naturali. La
tendenza a idealizzare qualità umane, ritenendole provenienti da divinità, e
più ingenerale a credere nell'esistenza di qualità sovrannaturali, si manifestò
nelle società antiche in seguito all'impossibilità di una conoscenza, sia pure
approssimativa, delle leggi naturali.
«In modo del tutto
analogo, attraverso la personificazione delle forze della natura, nacquero i
primi dèi, i quali, nel successivo sviluppo della religione, vennero assumendo
una figura sempre più extraterrena, sino a che, per un processo di astrazione,
e vorrei quasi dire di distillazione, compiutosi nel corso dell'evoluzione
intellettuale, dagli dèi numerosi, più o meno limitati e limitantisi a vicenda,
sorse nella mente degli uomini l'idea del dio unico, esclusivo, delle religioni
monoteiste» (Engels, Ludwig Feuerbach e il
punto di approdo della filosofia classica tedesca, p. 31).
L'analisi marxista della storia ha messo in luce il legame sempre più stretto
stabilitosi tra i fenomeni religiosi e gli interessi delle classi dominanti
nelle varie epoche storiche e la strumentalizzazione del sentimento
«spontaneamente» religioso dovuto alla ristrettezza delle conoscenze umane da
parte dei detentori del potere, che «lo impiegano unicamente come mezzo di
governo, per mantenere sotto il giogo le classi inferiori».
La stessa religione cristiana, nata con forti con notazioni egualitarie e
critica verso le condizioni di sfruttamento del tempo, e che agli inizi venne
duramente repressa dalle classi dominanti della società romana, divenne in
seguito «religione di Stato». Si verificò cioè un adattamento del contenuto
alle condizioni di sfruttamento e la religione venne istituzionalizzata in una
Chiesa che svolse oggettivamente una funzione di coercizione e di
organizzazione del consenso dei «fedeli».
La chiesa cattolica, soprattutto nel Medioevo, ha esercitato anche una funzione
di dominio politico e culturale e il suo legame con lo Stato ha fatto sì che la
scienza e ogni attività intellettuale che si opponessero in qualunque forma ai
dogmi della religione fossero duramente repressi.
Nella società capitalistica, secondo il marxismo, la religione permane come
fenomeno di massa nella sua forma di alienazione,
può essere intesa come una particolare forma dell'alienazione in genere e può
essere criticata comprendendo la reale natura delle contraddizioni che sono
proprie di questa società e che spingono l'uomo a ricercare nella religione la
speranza di una vita migliore.
La critica marxista della religione da un lato si svolge da un punto di vista
teorico, mostrando che una conoscenza sempre più esatta della società e lo
sviluppo delle scienze contraddicono le affermazioni delle dottrine religiose;
dall'altro afferma che la religione è un'ideologia e che la sua funzione
storica è quella di impedire lo sviluppo della coscienza rivoluzionaria delle
classi oppresse.
E' costituita da ciò che i proprietari della terra ricavano da coloro che la
lavorano. Così nel periodo feudale i servi erano tenuti a lavorare una parte
della settimana per i proprietari terrieri cioè per i signori dei feudi; questa
forma di rendita proveniente dal lavoro obbligatorio di persone che non avevano
la condizione giuridica di schiavi ma che di fatto dovevano comportarsi come
tali per una parte del loro tempo, è stata alla base dell'economia per quasi
tutto il medioevo. E' definita una rendita in lavoro per distinguerla da una
forma di rendita sviluppatasi successivamente e caratterizzata dal fatto che il
contadino non ha più l'obbligo legale di fornire a intervalli regolari
prestazioni lavorative al proprietario del fondo, ma quella di cedergli una
parte del prodotto, donde il nome di rendita in prodotto.
Quando comincia a subentrare la possibilità di convertire in denaro il prodotto
della terra grazie allo stabilizzarsi di un mercato dei prodotti agricoli, la
rendita in prodotto diventa rendita monetaria; fatto che storicamente coincide
- e ne è parte integrante - col processo di dissoluzione del modo di produzione
feudale.
Con l'affermarsi del capitalismo anche l'agricoltura è dominata dalle regole
proprie del nuovo modo di produzione; per usare le parole di Marx, l'economia
agricola viene esercitata da capitalisti che possono distinguersi dagli altri
solo per il settore particolare in cui sono investiti i loro capitali e per il
tipo di lavoro salariato che questi capitali attivano. Anche qui, con l'ovvia
eccezione dei piccoli proprietari, il cui numero decresce continuamente, si
manifestano le tre caratteristiche essenziali del capitalismo: la produzione è
destinata al mercato, i mezzi di produzione sono concentrati in poche mani, il
lavoro è salariato. Il proprietario di una certa superficie di terra non la
lavora o ne può lavorare solo una piccola parte, non vende comunque la propria
forza-lavoro e riceve la propria rendita in virtù del riconoscimento giuridico
della proprietà. Il denaro che egli ottiene non può dunque provenire che dal
lavoro non pagato di altri, essere cioè un plusvalore; la rendita fondiaria non
è altro, allora, che una parte del plusvalore creato dalla produzione agricola.
Capitale e profitto, terra e rendita fondiaria, lavoro e salario, costituiscono
la «formula trinitaria» che indica i punti chiave del processo sociale di
produzione; la formula, secondo quanto Marx scrive nelle ultime pagine
dell'incompiuto libro III del Capitale, si
riferisce anche alle tre grandi classi della società moderna: gli operai
salariati, i capitalisti e i proprietari fondiari, spesso indicati col termine
francese di rentiers. Il potere
di questi ultimi è in costante diminuzione nei paesi ad alto sviluppo e la loro
classe assume sempre più il carattere di una sottoclasse di quella
capitalistica propriamente detta.
Nella rendita fondiaria occorre distinguere tra rendita assoluta e rendita
differenziale. La prima, spiega Marx nella 6ª sezione del libro III
del Capitale, proviene dal fatto
che capitali di ugual grandezza impiegati in differenti settori produttivi
portano, in rapporto alla loro composizione media, a quantità diverse di
plusvalore mantenendo invariato il saggio dello stesso o il grado di
sfruttamento del lavoro; nel settore industriale le diverse masse di plusvalore
si uniformano al profitto medio e si distribuiscono in modo omogeneo tra i
singoli capitali del settore. La proprietà terriera impedisce invece un'analoga
tendenza nei capitali investiti nei suoli e si appropria di un'aliquota di
plusvalore sottraendola ai capitalisti industriali. La rendita assoluta è
appunto questa frazione di plusvalore (Plusvalore,
Profitto).
La rendita differenziale è invece quella calcolata in base alla produttività
dei terreni e può derivare sia dalle loro caratteristiche naturali, sia dai
miglioramenti ottenuti con l'uso di appropriati mezzi tecnici cioè con
l'ulteriore investimento di capitali.
Da quanto detto risulta evidente che il concetto di rendita differenziale è
connesso con gli aspetti qualitativi e quantitativi della produzione basata
sull'uso dei suoli, mentre il concetto di rendita assoluta riguarda piuttosto
la sfera della ripartizione del plusvalore tra settori produttivi diversi.
Indica l'attività tendente a ristabilire le condizioni politiche, istituzionali
ed economiche precedenti a un periodo rivoluzionario.
Storicamente le classi detentrici del potere ricorsero alla repressione e alla
restaurazione quando lo sviluppo storico minacciava di privarle di privilegi
acquisiti.
Il termine è entrato in uso quando ripetuti movimenti rivoluzionari condotti in
Europa dalla borghesia dal 1815 al '48 non ebbero la forza sufficiente per
stroncare le resistenze delle vecchie classi al potere legate all'assolutismo.
Un tipico esempio di movimento restauratore di carattere internazionale fu
quello della Santa Alleanza, che coalizzò sulla base del principio
assolutistico tutte le forze conservatrici dell'Europa, con l'intenzione di
cancellare quanto più fosse possibile le novità introdotte dalla Rivoluzione
francese e dall'età napoleonica (Controrivoluzione).
La Santa Alleanza comunque è stato l'unico grande movimento politico
restauratore a carattere internazionale, che mirasse cioè a riportare sul trono
le monarchie assolutistiche settecentesche, poiché ben presto l'unità delle
classi reazionarie dei diversi Stati venne meno, con il progressivo svuotamento
del potere economico nelle mani dell'aristocrazia.
Nella storia recente è difficile rintracciare un vero e proprio movimento
restauratore analogo alla Santa Alleanza, in quanto le stesse tendenze
restauratrici sono confluite in quelli che sono stati chiamati movimenti
conservatori, oppure in tendenze reazionarie (Fascismo)
che tuttavia non costituiscono un vero e proprio ritorno alla fase precedente
della storia, ma un'organizzazione sociale aderente agli interessi delle classi
dominanti.
Opera sistematica di correzione e di presunto ammodernamento dei principi
teorici del marxismo. Consiste essenzialmente nel considerare superata o una
singola tesi di Marx o un intero settore della ricerca da lui svolta; i
revisionisti considerano infatti l'opera di Marx come una dottrina superata dai
fatti e propongono delle varianti parziali in alcuni casi, e in altri
l'abbandono totale dell'analisi storico-economica marxiana. Il revisionismo si
accompagna in generale all'opportunismo e
al riformismo, e testimonia la penetrazione
diretta del pensiero borghese, delle «idee della classe dominante» nel corpo
teorico del marxismo.
Tendenze revisioniste si sono più volte presentate nella storia del movimento
operaio, soprattutto nei momenti più difficili, quando cioè più forte è stato
il tentativo della borghesia di influenzare la lotta del proletariato, agendo
sul piano della teoria. In generale anzi
l'influenza revisionista rappresenta proprio lo strumento nelle mani della
borghesia per la rottura dell'unità della classe operaia. Dalla pericolosità di
queste influenze derivò il drastico giudizio che Lenin diede di ogni tendenza
riformista e revisionista, ritenuta non come l'ala destra del proletariato, ma
proprio come l'ala sinistra della borghesia in seno alla classe operaia.
Il massimo esponente del revisionismo, intendendo con questo il movimento sorto
nella socialdemocrazia tedesca verso la fine del secolo XIX, fu Eduard
Bernstein. Egli sostenne, dietro una presunta operazione di rinnovamento del
marxismo, un ritorno a idee premarxiane, rifacendosi a quelle correnti di
pensiero, dominanti in quel tempo nelle università tedesche, che sostenevano il
«ritorno a Kant», cioè a un pensatore considerato non materialista e non
dia1ettico. Mentre i circoli filosofici neo-kantiani affermavano «essere Kant
l'autentico fondatore del socialismo» ed elencavano le condizioni per la
conciliazione tra il kantismo e il socialismo nella sua forma organizzata
(eliminazione radicale del materialismo quale fondamento del socialismo,
accettazione dell'idea di Dio quale coronamento storico del socialismo e il
rispetto dei concetti di diritto e di Stato come autonomi dai rapporti sociali),
ciò si intrecciava e si alimentava con le tendenze revisioniste nel movimento
operaio che si muovevano nelle medesime direzioni.
Così obiettivo principale della revisione di Bernstein era la confutazione
della dialettica, sulla cui base poter
sviluppare poi la negazione dell’analisi storico-economica di Marx. «Ciò che
Marx ed Engels hanno prodotto di grande, essi l'hanno prodotto non grazie alla
dialettica hegeliana, ma malgrado essa» scriveva nel 1899 Bernstein. Così egli
dimostrava di non aver compreso in quale modo Marx si era appropriato di Hegel
e quindi ciò che risultava dalla sua confutazione non era affatto una critica
al materialismo dialettico e storico, bensì allo sviluppo idealistico del suo
concetto. Nel 1908, esaminando il dibattito sul neokantismo, Lenin così ne
effettuava la sintesi:
«Nel campo della
filosofia il revisionismo si è messo a rimorchio della scienza borghese
professorale. I professori "ritornano a Kant", e il revisionismo si
trascina dietro i neokantiani. I professori ripetono le banalità pretesche,
mille volte rimasticate, contro il materialismo filosofico, e i revisionisti,
sorridendo con condiscendenza, borbottano ... che il materialismo è stato da un
pezzo "confutato". I professori considerano Hegel come un "cane
morto" e predicando essi stessi l'idealismo, ma un idealismo mille volte
più meschino e banale di quello hegeliano, alzano con sprezzo le spalle a
proposito della dialettica, e i revisionisti si cacciano dietro a loro nel
pantano dell'avvilimento filosofico della scienza, sostituendo alla dialettica
"sottile" (e rivoluzionaria) la semplice (e pacifica)
"evoluzione"» (Lenin, Marxismo e
Revisionismo, in Opere scelte, vol.
unico, p. 21).
Così come la filosofia che reclamava questo ritorno a un pensiero premarxiano
esprimeva in veste teorica esigenze concrete della classe dominante o di una
parte di essa, anche il revisionismo di Bernstein aveva una base nella
situazione del movimento operaio organizzato. Come è stato osservato, il
partito legale di grandi dimensioni acquisiva nuove caratteristiche; tutto il
suo apparato burocratico, partitico e sindacale, non viveva «più per, ma del
movimento operaio».
In campo politico la revisione si espresse nel rifiuto incondizionato della
prospettiva rivoluzionaria a vantaggio di un'ipotetica, vittoriosa soluzione
elettorale; vennero negati gli elementi di fondo del materialismo storico e di
conseguenza vennero dati giudizi completamente sbagliati sui vari fenomeni che
si accompagnavano alla trasformazione del capitalismo in senso monopolistico;
la vecchia teoria meccanicistica del crollo spontaneo fu abbandonata e
sostituita semplicemente con la negazione della possibilità di un crollo del
sistema capitalistico, in nome dello sviluppo democratico delle istituzioni e
del graduale, progressivo, allargamento della democrazia borghese fino al
socialismo. Su questa base la socialdemocrazia si trasformava da «partito della
rivoluzione sociale» in «partito di riforme sociali», di cui Lenin elencava i
caratteri:
«Si nega la possibilità di dare un
fondamento scientifico al socialismo e di provare che, dal punto di vista della
concezione materialistica della storia, esso è necessario e inevitabile; si
nega il fatto della miseria crescente, della proletarizzazione,
dell'inasprimento delle contraddizioni capitalistiche; si dichiara
inconsistente il concetto stesso di "scopo
finale" e si respinge categoricamente l'idea della dittatura
del proletariato; si nega l'opposizione di principio tra liberalismo e
socialismo; si nega la teoria della lotta di
classe, che sarebbe inapplicabile in una società rigorosamente
democratica, amministrata secondo la volontà della maggioranza, ecc.» (Lenin, Che Fare? pp. 36-37).
Le vicende storiche dei paesi in cui prevalse il revisionismo dimostrano più
che a sufficienza la sua fragilità teorica e pratica; la giusta preoccupazione
del rinnovamento si era di fatto conclusa col ritorno a una filosofia di cui
Marx aveva denunciato a suo tempo i limiti; l'idea stessa che le classi al
potere avrebbero accettato le regole del gioco democratico non appena queste si
fossero volte seriamente a loro disfavore era, prima ancora che non marxista,
puerile.
Nell'analisi del revisionismo occorre mettere in rilievo questo elemento: l'arricchimento
e lo sviluppo originale del marxismo sono esigenze poste dalla sua stessa
natura antidogmatica e dialettica. L'analisi concreta della situazione
concreta, l'elaborazione della teoria a partire dalle pratiche specifiche nei
diversi campi del sapere e dell'agire umano, rappresentano momenti
indispensabili all'esistenza stessa del marxismo, che non vanno però confuse
con quel «procedimento puramente revisionista» nel quale la ricerca del nuovo
si confonde con la liquidazione dei punti essenziali della teoria e della
pratica rivoluzionaria.
Questo termine viene generalmente usato per indicare la situazione in cui a una
fase di sviluppo favorevole alla classe rivoluzionaria subentra un momento di
stasi o di regresso.
In particolare Gramsci osservò che, qualora venga a mancare la capacità di
determinare un'egemonia da parte della classe rivoluzionaria,
«... la situazione rimane
inoperosa, e possono darsi conclusioni contraddittorie: la vecchia società
resiste e si assicura un periodo di "respiro", sterminando
fisicamente l'élite avversaria e terrorizzando le masse di riserva» (Gramsci, Quaderni del Carcere, p. 1588).
Trasformazioni graduali dell'organizzazione economica e politica di una
determinata società. La loro caratteristica essenziale è che vengono attuate e
dirette dalla classe che detiene il potere economico e politico.
Secondo la concezione materialistica della storia, una serie anche organica di
riforme non può in generale modificare nel suo complesso la natura reale dei
rapporti di produzione. Il passaggio da una formazione economico-sociale a
un'altra ad essa superiore, infatti, è sempre avvenuto principalmente
attraverso un periodo di rivoluzione sociale, e di radicale e relativamente
rapida sostituzione dei vecchi rapporti di produzione con dei nuovi più
adeguati al grado di sviluppo delle forze produttive.
Le riforme, la loro natura e i loro limiti costituiscono uno degli argomenti
centrali affrontati nell'elaborazione tattica e strategica (Strategia e tattica), oltre che
nell'analisi più strettamente teorica, del movimento operaio.
Nelle diverse e alterne fasi di sviluppo della lotta di classe nella società
capitalistica, le riforme hanno costituito talvolta l'obiettivo essenziale
delle rivendicazioni operaie; oppure, in altre situazioni, l'attenzione
esclusiva all'ottenimento di alcune riforme parziali, è stata considerata come
motivo di limitazione della coscienza rivoluzionaria della classe operaia. In generale
ciò dipende, oltre che da considerazioni tattiche contingenti, soprattutto dal
carattere stesso delle riforme, che come tali sono delle «concessioni»
strappate alla classe dominante dalla lotta dei lavoratori (Sindacato).
L'effettivo significato storico di questa o quella riforma deriva dalla
valutazione dei rapporti di forza che si stabiliscono tra le classi in lotta
nel momento della rivendicazione, della definizione e della concreta attuazione
delle riforme stesse. Infatti, secondo la concezione marxista, le riforme sono
in ogni caso obiettivi tattici e dipende precisamente dalla prospettiva
strategica in cui sono inserite il ruolo e la funzione positiva che esse
possono svolgere. Ad esempio nei governi di Fronte
popolare e nei periodi di transizione, come la Democrazia Progressiva, le riforme
svolgono una funzione determinante per il raggiungimento dello stesso obiettivo
strategico della costruzione della società socialista.
Riforme fondamentali come la riforma agraria o la nazionalizzazione delle
grandi industrie e dei settori più importanti del commercio, costituiscono il
presupposto stesso per ogni ulteriore sviluppo rivoluzionario.
E' l'atteggiamento politico consistente nel tendere a limitare la lotta della
classe operaia alla richiesta di riforme.
Il riformismo, accompagnato sul piano teorico dall'affermazione della necessità
di una revisione (Revisionismo) dei
principi del marxismo, si diffuse largamente nei partiti aderenti alla Seconda Internazionale, come espressione politica
della formazione - all'interno della classe operaia - di uno strato
privilegiato (Aristocrazia operaia),
disposto alla collaborazione con le classi dominanti. Secondo Lenin il
riformismo costituisce la rinuncia alla lotta di classe: «Il riformismo
consiste soltanto nelle concessioni della classe dirigente e non nel suo abbattimento, nelle
concessioni della classe dirigente che conserva il potere nelle proprie mani».
Dalla considerazione dell'inadeguatezza del marxismo nei confronti delle nuove
condizioni, caratterizzate da un progressivo sviluppo economico e delle
istituzioni liberali, il riformismo traeva la conclusione dell'impossibilità
dell'abbattimento del capitalismo e quindi della necessità di una sua
progressiva trasformazione interna (Evoluzionismo)
nella quale, attraverso l'ampliamento della democrazia borghese e degli
istituti parlamentari, sarebbero state soddisfatte le esigenze della classe
operaia e superati gli antagonismi di classe. Ne conseguì l'accettazione delle
compatibilità capitalistiche sia in politica interna, sia in campo
internazionale, dove si avallavano l'espansione economica e le aspirazioni
coloniali come rispondenti anche agli interessi del proletariato.
Così le nuove legislazioni sulle fabbriche, la democratizzazione delle
istituzioni, il suffragio universale, ecc. sopprimevano per i riformisti le
basi stesse della lotta di classe, mentre lo Stato, retto da una democrazia
parlamentare, diventava non più uno strumento del dominio di classe, ma una
istituzione plasmabile in senso democratico e capace, attraverso il
raggiungimento dell'eguaglianza politica, di superare le stesse diseguaglianze
economiche. In realtà come indicò Lenin «... la correzione riformista alle basi
dell'imperialismo non è che un inganno, un pio desiderio».
Più che in una politica coerentemente riformatrice, storicamente il riformismo
si risolse, proprio perché espressione e prodotto della penetrazione di
concezioni borghesi e piccolo borghesi nella classe operaia, nell'inserimento
di una sua parte in un sistema politico di forze conservatrici, portando alla
divisione del proletariato, alla sua separazione dagli altri strati sociali
oppressi e in particolar modo dai contadini.
L'analisi della natura di classe del riformismo e soprattutto lo sviluppo di
una linea alternativa fu, per Lenin in particolare, il compito prioritario per
una politica rivoluzionaria adeguata allo sviluppo imperialistico e
monopolistico del capitalismo: se lo sviluppo di una strategia complessiva
anticapitalistica è in ogni caso il compito principale, l'articolazione della
tattica nei confronti del riformismo e del revisionismo è ciò che decide della
sua reale capacità di unire su una linea politica rivoluzionaria la classe
operaia e tutti i suoi alleati.
Secondo Marx:
«Come una società non può
smettere di consumare, così non può smettere di produrre. Quindi ogni processo
sociale di produzione, considerato in un nesso continuo e nel fluire costante
del suo rinnovarsi, è insieme processo di
riproduzione»(Marx, Il Capitale, libro I, p. 621).
La riproduzione può presentarsi in due forme distinte; la prima è la cosiddetta
riproduzione semplice, che si ha
quando la rotazione assicura una riproduzione del capitale senza alcuna
variazione quantitativa. Perciò la sua funzione è limitata a reintegrare il
capitale consumato (in mezzi di produzione, merci, mezzi di sussistenza e la
forza-lavoro stessa) senza che si verifichi accumulazione. Appare dunque chiaro
che il capitale riproduce se stesso in quanto capitale; con questo Marx vuole
intendere che mentre i processi di riproduzione in generale sono necessari in
qualsiasi tipo di società, in quella capitalistica sono costretti a ricreare
costantemente le condizioni della produzione capitalistica.
La riproduzione semplice è un caso limite in quanto, se fosse l'unica forma di
riproduzione, il totale dei prezzi delle merci comprendenti i mezzi di produzione,
materie prime ecc., sarebbe uguale al totale dei prezzi delle merci destinate
alla vendita e al consumo; il capitale costante in questo caso sarebbe uguale
alla somma del capitale variabile e del plusvalore. In realtà si ha a che fare
con la seconda forma di riproduzione, cioè la riproduzione
allargata, nella quale non solo il capitale viene reintegrato ma ad
esso si aggiunge un valore addizionale: si tratta dunque di una riproduzione
con accumulazione. La possibilità di
questo fenomeno è assicurata dall'uso di una certa aliquota del plusvalore
prodotto in un ciclo di rotazione per aumentare sia il capitale
costante che il capitale variabile. Marx fa in proposito questo esempio.
Supponendo che un capitale anticipato di 10 mila sterline abbia generato un
plusvalore di 2 mila sterline, egli afferma:
«E' sempre la vecchia storia: Abramo
generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, e così via. Il capitale originario di 10
mila sterline produce un plusvalore di 2 mila sterline che viene capitalizzato.
Il nuovo capitale di 2 mila sterline produce un plusvalore di 400 sterline;
questo, capitalizzato a sua volta, cioè trasformato in un secondo capitale
addizionale, produce un nuovo plusvalore di 80 sterline e così via» (ivi, p. 637).
E' chiara la differenza tra il processo di accumulazione e quello di
riproduzione allargata: la riproduzione allargata potrebbe compiersi e
concludersi con la destinazione del plusvalore a un uso diverso da quello del
nuovo impiego nel processo di produzione, mentre l'accumulazione può compiersi
solo con la riutilizzazione del plusvalore come nuovo capitale.
E' l'insurrezione che ha per scopo la trasformazione radicale di una società.
Nel marxismo il termine acquista un significato più vasto ed è inteso come un
processo che, muovendosi sulla base di condizioni storiche oggettive, si
articola nel momento insurrezionale e nell'opera di costruzione della nuova
società socialista, che segna la fine della «preistoria dell'uomo».
Perché si verifichi una rivoluzione è anzitutto necessario che siano maturate
certe premesse nello sviluppo economico, vale a dire che sia sorto un conflitto
tra le «forze» e le «forme» di produzione. Cosi il Manifesto individua le cause della rivoluzione borghese:
«... i mezzi di
produzione e di scambio sulla cui base si eresse la borghesia furono generati
in seno alla società feudale. A un certo grado dello sviluppo di questi mezzi
di produzione e di scambio le condizioni nelle quali la società feudale
produceva e scambiava, vale a dire l'organizzazione feudale dell'agricoltura e
della manifattura, in una parola i rapporti feudali di proprietà, non
corrisposero più alle forze produttive già sviluppate. Quelle condizioni,
invece di favorire la produzione, la inceppavano. Esse si trasformavano in
altrettante catene. Dovevano essere spezzate, e furono spezzate» (Manifesto, pp. 31-32).
Nello stesso modo la borghesia, generando all'interno del suo sistema di produzione
il proletariato, ha creato le premesse per la rivoluzione proletaria il cui
scopo è l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, la fine
della divisione in classi e della lotta che ne consegue, la realizzazione di
una società di produttori nella quale sia scomparso lo sfruttamento dell'uomo
sull'uomo, cioè l'affermazione di una forma sociale superiore. Dice Engels:
«Ed è precisamente mediante questa
rivoluzione industriale che la capacità produttiva del lavoro umano ha raggiunto
un livello talmente alto, che - per la prima volta da quando l'uomo esiste - la
divisione razionale del lavoro fra tutti fornisce la possibilità di produrre
non soltanto quanto basta per un consumo più che sufficiente da parte di tutti
i membri della società e per la costituzione di un abbondante fondo di riserva,
ma consente anche di lasciare a ciascun singolo agio sufficiente perché ciò che
c'è di veramente di valore nelle civiltà storicamente tramandateci - scienza,
arte, forme di rapporti personali - possa non soltanto venire conservato, ma
sia trasformato da monopolio della classe dominante in bene comune di tutta la
società, ed ulteriormente sviluppato» (La
questione delle abitazioni, p. 35).
L'esperienza della Comune di Parigi, che fu il primo esempio di rivoluzione
proletaria, e l'analisi della sua sconfitta portarono Marx a concludere che uno
degli obiettivi fondamentali della rivoluzione doveva essere l'abbattimento
dello Stato borghese in quanto strumento del dominio borghese, inutilizzabile quindi
per i nuovi e diversi scopi del proletariato, il quale, anzi, doveva esso
stesso costituirsi in «classe dominante» (Dittatura del proletariato) per
difendere le conquiste fatte e creare le condizioni per il passaggio alla
società comunista (Stato).
Questi principi furono ripresi da Lenin e posti a fondamento della sua teoria
della rivoluzione, anche contro gli atteggiamenti riformistici che si erano
diffusi tra i partiti socialdemocratici della II Internazionale. A questi
partiti, infatti, il problema della rivoluzione si era posto anche nei termini
di un corretto rapporto fra strategia e
tattica, determinando due atteggiamenti contrastanti: uno rivoluzionario in
quanto vedeva nelle riforme possibili all'interno della società borghese un
modo per arrivare alla rivoluzione, l'altro riformista nel senso che le
riforme, con le dovute garanzie di un livello di vita soddisfacente per la
classe operaia, diventavano l'obiettivo ultimo della lotta; ciò veniva
giustificato con l'assunto che mediante la trasformazione lenta e graduale
dello Stato si sarebbe comunque pervenuti a un assetto socialista della
società.
Lenin era consapevole dell'importanza delle riforme sia nel momento specifico
della costruzione dello Stato socialista che per utilizzarle efficacemente
nell'ambito della società borghese; egli si batté contro ogni forma di
«rivoluzionarismo» astratto indicando nella democrazia borghese e nel
parlamento gli strumenti della lotta e della propaganda di classe. Tuttavia
insistette sul concetto di dittatura del proletariato come sbocco naturale
della rivoluzione: «La dottrina della lotta di classe applicata da Marx allo
Stato e alla rivoluzione socialista, porta necessariamente a riconoscere il dominio politico del proletariato, la sua
Dittatura, il potere cioè che esso non divide con nessuno».
Il proletariato quindi, storicamente, non può essere se stesso se non è
rivoluzionario. Concretamente il ruolo storico può essere svolto quando la
classe operaia, almeno nella sua parte più avanzata e cosciente cioè il
partito, saprà risvegliare le grandi masse e condurle a riconoscere e sostenere
la lotta dell'avanguardia. Il partito allora dovrà organizzare e generalizzare
quelle forme di lotta che nascono spontaneamente dallo «slancio rivoluzionario
del popolo», perché forme e modi della lotta rivoluzionaria non possono essere
inventati né imposti, né, d'altra parte, questa può aver luogo se manca
l'appoggio e il consenso delle masse.
«La storia in generale, la storia delle
rivoluzioni in particolare, è sempre più ricca di contenuto, più varia, più
multilaterale, più viva, più astuta di quanto immaginino i migliori partititi,
le più coscienti avanguardie delle classi più avanzate. E ciò si comprende,
giacché le migliori avanguardie rappresentano la coscienza, la volontà, le
passioni, la fantasia di decine di migliaia di uomini; ma la rivoluzione viene
attuata in un momento di slancio eccezionale e di eccezionale tensione di tutte
le facoltà umane, dalla coscienza, dalla volontà, dalle passioni, dalla
fantasia di molte decine di milioni di uomini spronati dalla più aspra lotta di
classe» (Lenin, L'estremismo malattia
infantile del comunismo, pp. 94-95).
In questo contesto si colloca anche il momento della violenza che, in linea di principio può anche
non verificarsi, ma che in pratica dipende dalle resistenze e opposizioni della
classe che ha tutto da perdere dalla rivoluzione.
Da quanto detto risulta chiaro che i marxisti pongono attenzione tanto ai
problemi inerenti la preparazione della rivoluzione quanto a quelli inerenti il
modo e le condizioni del rafforzamento dello Stato socialista. Inoltre è da
ricordare che la piena realizzazione della società comunista si avrà quando
essa sia estesa al mondo intero, pertanto anche la rivoluzione in uno o pochi
paesi non può che riflettere questo aspetto delimitante (Socialismo).
Questa espressione indica il grande sviluppo industriale e commerciale che
segnò il trionfo del capitalismo e della società borghese nella seconda metà
del secolo XVIII e nei primi decenni del XIX, in primo luogo in Inghilterra. La
rivoluzione industriale trovò il proprio presupposto nel processo della
cosiddetta accumulazione originaria
che, liberando l'agricoltura dai vincoli di proprietà feudali e concentrando
nelle città una grande massa di proletari, creò le condizioni materiali per
l'inizio su vasta scala del processo di accumulazione capitalistica (Accumulazione).
Contemporaneamente, lo sviluppo del commercio, specie coloniale, aveva
assicurato la disponibilità di grandi quantità di materie prime per
l'industria, consentendo la creazione di un mercato di sbocco per la
produzione. In seguito a tutti questi fenomeni, si verificò, all'interno del
sistema produttivo, una rapida trasformazione nel senso di un'intensa
meccanizzazione e della creazione di grandi complessi industriali nelle città.
Entrarono così in crisi il sistema manifatturiero e la produzione domestica (Manifattura, Industria domestica); a ciò
corrispose, in seguito al concomitante progresso tecnico e scientifico e in
particolare all'utilizzazione del vapore come forza motrice, un grande sviluppo
del settore dell'industria tessile e successivamente di quella meccanica e
siderurgica. Queste ultime, a partire dai primi decenni dell'Ottocento,
acquistarono una funzione primaria all'interno del ciclo produttivo, fornendo
gli impianti per la meccanizzazione anche degli altri settori.
La rivoluzione industriale nacque ed ebbe la sua forma classica di sviluppo in
Inghilterra, tuttavia si realizzò, in forme e in tempi diversi, anche negli
altri paesi europei, costituendo una tappa necessaria per l'ascesa al potere
della borghesia. Inoltre la formazione di una nuova classe di operai salariati
e la presa di coscienza delle misere condizioni di vita e di lavoro,
connaturate al sistema economico capitalistico, rappresentarono il punto di
partenza per le prime lotte operaie (Luddismo)
e per nuove forme di associazionismo tra i lavoratori (Sindacato).
«E' il periodo che va dal momento dell'anticipo del valore-capitale in una
determinata forma al ritorno nella stessa forma del valore-capitale in
processo».
In altri termini così come un corpo per vivere ha bisogno di un determinato
ricambio, il capitale per vivere, vale a dire per produrre profitto, ha bisogno
di un processo ciclico di ricambio. Sulla durata di tale ciclo Marx scriveva:
«Il ciclo del capitale,
considerato non come fatto isolato ma come processo periodico, si chiama la sua
rotazione. La durata di questa rotazione è data dalla somma del suo tempo di
produzione e del suo tempo di circolazione. Questa somma di tempi costituisce
il tempo di rotazione del capitale. Essa misura perciò l'intervallo tra un
periodo ciclico del capitale complessivo e quello successivo, la periodicità
nel processo di esistenza del capitale, ossia, se si vuole, il tempo di
rinnovo, ripetizione del processo di valorizzazione, rispettivamente di
produzione, dello stesso valore-capitale» (Il
Capitale, libro II, p. 160).
Il tempo di rotazione viene misurato come numero delle rotazioni stesse che si
verificano nel corso dell'anno, che resta l'unità di misura anche nei casi in
cui una sola rotazione abbia una durata maggiore, ciò perché «i più importanti
prodotti agricoli della zona temperata, che è la madrepatria della produzione
capitalistica, sono annuali».
La durata della rotazione, prescindendo dai casi singoli, dipende dal settore
produttivo in cui il capitale è impiegato, nel senso che una composizione
organica più elevata comporta una rotazione più lenta.
Il tempo di rotazione è oggetto di un calcolo comunemente effettuato, in quanto
corrisponde al tempo che occorre al capitalista per realizzare il profitto.
Infatti è evidente che se questa ripetizione del ciclo si compie in termini
eccessivamente lunghi o, si interrompe, il capitale «deperisce».