a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare di Torino
Dizionario
enciclopedico marxista
Premessa A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z
P
Pacifismo, Parlamentarismo, Il Partito, Pauperismo, Personalità, Pianificazione, Piccola borghesia, Pluralismo, Plusvalore, Politica, Populismo, Positivismo, Prassi o pratica, Prefigurazione, Prezzo, Produttivismo, Profitto, Proletariato, Proletarizzazione, Proprietà privata, Protezionismo
E' il rifiuto della guerra come strumento di soluzione delle
controversie internazionali.
Storicamente si è presentato, a partire dai primi anni del '900 in due forme:
una generica di rifiuto totale della guerra indipendentemente dalle motivazioni
storico-politiche che la determinano; l'altra marxista in cui il rifiuto,
dettato dall'analisi storica della guerra, è
rivolto ai conflitti che hanno per base la conservazione e il dominio del
capitalismo.
Attualmente esistono molti movimenti che si richiamano al pacifismo, anzitutto
quelli legati alla contestazione degli studenti americani durante la guerra del
Vietnam. In Italia sono sostenitori del pacifismo in senso assoluto i radicali
e diverse associazioni antimilitariste.
Una delle figure più rilevanti del pacifismo generico nel nostro secolo fu
quella di Gandhi, il quale sosteneva la necessità della non violenza anche
nella lotta per la liberazione nazionale.
Tendenza a entrare a far parte delle istituzioni borghesi,
rinunciando alla mobilitazione delle masse contro l'organizzazione statale
capitalistica. La polemica marxista contro il parlamentarismo, pur avendo avuto
origine nel 1878, anno del clamoroso successo elettorale del Partito
Socialdemocratico Tedesco, ha trovato una formulazione adeguata per tutto il
periodo dell'imperialismo nella concezione di Lenin.
Dovendo far fronte alle elezioni della Duma (organismo rappresentativo del
governo zarista) Lenin non rinunciò «per principio» a un'eventuale
partecipazione del Partito Operaio Socialdemocratico Russo, ma condannò coloro
che, per far parte di questo parlamento, rinunciarono a svolgere l'attività
rivoluzionaria tra le masse.
Precedentemente il V Congresso della Seconda Internazionale (1900) aveva
approvato, sia pure «come un mezzo momentaneo e straordinario nella lotta
contro le circostanze difficili» la partecipazione a governi anche reazionari
di parlamentari socialdemocratici (Millerand: governo Waldeck-Rousseau). A tale
risoluzione fecero riferimento successivamente tutti coloro che teorizzavano
forme di parlamentarismo (Turati).
Antiparlamentarismo
Tendenza a sottovalutare l'importanza della lotta all'interno delle
istituzioni in vista del loro rovesciamento. E' tipica degli anarchici e dei
gruppi estremisti.
Nel senso attuale e generico del termine, indica una
formazione politica che ha come punto di riferimento un programma, si articola
in un'organizzazione e svolge un'attività continuativa. E' l'espressione degli
interessi di una classe, di un ceto, di uno strato sociale.
In Marx e Engels il partito della classe operaia è visto come momento
necessario nel processo rivoluzionario del proletariato, il quale solo
attraverso l'acquisizione di una coscienza politica può condurre
vittoriosamente la lotta per la propria emancipazione e l'avvento di una
società comunista:
«Nella sua lotta contro il potere
unificato delle classi possidenti, il proletariato può agire come classe
solo organizzandosi in partito politico autonomo, che si oppone a tutti gli
altri partiti costituiti dalle classi possidenti. Questa organizzazione del
proletariato in partito politico è necessaria allo scopo di assicurare la
vittoria della rivoluzione sociale e il raggiungimento del suo fine ultimo, la
soppressione delle classi» (Marx, Statuti dell'Associazione Internazionale
degli Operai, in Fetscher, Il marxismo, vol III, p. 114).
Compito primo del proletariato in quel momento storico era la creazione di
un'organizzazione autonoma dai partiti borghesi democratici, entro la quale
fossero dibattuti e portati avanti gli interessi specifici della classe in
vista della sua affermazione come classe dominante e la cui caratteristica
fosse l'internazionalismo. Il Manifesto del Partito Comunista, al di là
delle risonanze e del valore emblematico a cui assurgerà in seguito, espone
analiticamente alcuni principi irrinunciabili del marxismo e di conseguenza i
punti programmatici e gli obiettivi finali di una lotta di classe coerente,
chiarendo anche il peculiare rapporto comunisti-proletari, che Marx e Engels
vedono in questi termini:
«I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solamente per il
fatto che da un lato, nelle varie lotte nazionali dei proletari, essi mettono
in rilievo e fanno valere quegli interessi comuni dell'intero proletariato che
sono indipendenti dalla nazionalità; d'altro lato per il fatto che, nei vari
stadi di sviluppo che la lotta tra proletariato e borghesia va attraversando,
rappresentano sempre l'interesse del movimento complessivo. In pratica, dunque,
i comunisti sono la parte più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi,
quella che spinge sempre avanti; dal punto di vista della teoria, essi hanno un
vantaggio sulla restante massa del proletariato pel fatto che conoscono le
condizioni, l'andamento e i risultati generali del movimento proletario» (p.
42).
Ovviamente il Manifesto non può essere visto come il semplice programma
di un partito: esso fu soprattutto l'appello alla rivoluzione e alla
liberazione dalla subordinazione economica, politica e morale rivolto alla
classe operaia internazionale. La frase finale «Proletari di tutto il mondo
unitevi!» fu deliberatamente voluta e inserita da Marx e Engels al posto del
motto della Lega dei Giusti, l'organizzazione per la quale era stato redatto il
Manifesto, e che suonava: «Tutti gli uomini sono fratelli».
Nella seconda metà dell'800 il dibattito interno ai partiti socialisti sui
principi del marxismo e sui problemi inerenti l'organizzazione delle masse, la
propaganda, la democrazia, ecc. sarà fittissimo e produrrà un numero
considerevole di teorici di grande rilievo: ad essi spetta il merito di aver
diffuso su larga scala la teoria marxista e di avere reso cosciente un numero
sempre maggiore di operai, soprattutto in quei paesi come Francia, Inghilterra
e Germania, dove lo sviluppo dell'industria era più avanzato (Internazionale). Tuttavia non mancarono
discordanze, fino ad arrivare a vere e proprie deviazioni (Revisionismo, Opportunismo, Deviazionismo) che sarebbero state fatali
per il movimento della classe operaia se la Rivoluzione d'Ottobre e, prima, la
sua preparazione e teorizzazione da parte di Lenin non avessero riproposto il
pensiero marxista alla luce delle mutate condizioni storiche (Leninismo, Imperialismo).
Se i teorici della II Internazionale considerarono la rivoluzione come la
conseguenza logica dello sviluppo storico, per Lenin essa si pose come una
necessità immediata da realizzare nella Russia zarista, arretrata e
semifeudale, come rivoluzione proletaria che accoglieva in sé gli elementi
della rivoluzione democratico borghese. Da queste premesse il partito assume,
nella concezione leniniana, un ruolo determinante sia sul piano teorico che su
quello pratico organizzativo per la conquista e la costruzione del nuovo Stato
socialista.
Anzitutto si presentò a Lenin il problema di come mantenere a un partito di
massa la caratteristica di partito di classe, vale a dire di quale rapporto
intercorresse tra spontaneità e coscienza (Coscienza
di classe). Si sa che per Lenin l'esperienza immediata all'interno della
fabbrica del contrasto tra diritto dell'operaio e interesse del padrone non è
di per sé in grado di fondare una reale coscienza di classe; essa deve andare
oltre la specificità economica e penetrare nell'ambito dei rapporti politici e
ideologici (Ideologia): ma per arrivare a
ciò è indispensabile l'apporto della teoria marxista.
Il partito si presenta appunto come il portatore «esterno» della coscienza di
classe, come il mediatore fra teoria e movimento. La sua struttura deve essere
perciò adeguata a questa funzione di «avanguardia della classe operaia», cioè
di soggetto rivoluzionario (Oggettivismo
Soggettivismo): «Non c'è rivoluzione senza teoria rivoluzionaria, non c'è
rivoluzione senza un partito che incarni la teoria nel movimento delle masse,
diriga le masse, le organizzi, elabori una strategia e conduca una tattica».
La coscienza teorica così intesa è quindi il momento più elevato della
coscienza di classe; ogni cedimento allo spontaneismo è anche un indebolimento
della capacità d'azione autonoma del proletariato. Ne deriva la necessità di
una disciplina consapevole che consenta al partito di svolgere il suo ruolo
direttivo e organizzativo e di mantenere il contatto permanente con le masse (Centralismo
democratico).
Ma il problema della rivoluzione è essenzialmente il problema dello Stato, della conquista e dell'organizzazione del
potere:
«Educando il partito operaio, il
marxismo educa un'avanguardia del proletariato, capace di prendere il potere e
di condurre tutto il popolo al socialismo, capace di dirigere e di
organizzare il nuovo regime, d'essere il maestro, il dirigente, il capo di
tutti i lavoratori, di tutti gli sfruttati, nell'organizzazione della loro vita
sociale senza la borghesia e contro la borghesia» (Lenin, Stato e
Rivoluzione, p. 30).
Nelle specifiche condizioni russe la conquista del potere si presenta nel
duplice aspetto di rivoluzione democratico borghese con tutti i problemi a ciò
connessi - cioè la capacità del partito di utilizzare le istituzioni
democratiche, di contrarre alleanze con i partiti democratici, di definire il
rapporto operai-contadini - e di rovesciamento dello stato borghese per il
dominio della classe operaia (Dittatura
del proletariato) fino all'estinzione dello Stato.
«La dottrina della lotta di classe,
applicata da Marx allo Stato e alla rivoluzione socialista, porta
necessariamente a riconoscere il dominio politico del proletariato, la
sua dittatura, il potere cioè ch'esso non divide con nessuno e che si appoggia
direttamente sulla forza armata delle masse» (Lenin, Stato e Rivoluzione, p.
29).
La teoria leniniana del partito influenzerà tutti i partiti comunisti
posteriori. In Italia Gramsci approfondì i principi del leninismo in rapporto
alla specifica situazione storica italiana, e, pur non conoscendo le opere
giovanili di Marx, tra cui l'Ideologia tedesca, giunse a una
formulazione analoga del ruolo dell'ideologia. Egli infatti individuò le
peculiarità del dominio borghese non solo nel campo economico ma anche nella
sovrastruttura, come ricerca del consenso a quei fattori ideologici che sono la
base del potere, presentati come valori assoluti. In questo senso si può dire
che la borghesia tenda a una funzione egemonica totale nella società, alla
quale la classe operaia può opporsi solo raccogliendo intorno a sé quelle forze
che per ragioni sociali, ideali, culturali e storiche mirano a una
trasformazione dello Stato e formando con esse un «blocco storico» di opposizione
rivoluzionaria. Il partito assume in questo contesto la speciale fisionomia di
«intellettuale collettivo»,
cioè di organizzazione capace di trasformare i «propri componenti, elementi di
un gruppo sociale nato e sviluppatosi come economico, fino a farli diventare
intellettuali politici qualificati».
Tendenza al peggioramento delle condizioni di vita di
importanti settori della popolazione. L'analisi marxista del modo di produzione
capitalistico mette in rilievo il collegamento esistente tra il fenomeno del
pauperismo e il processo di sviluppo del capitale.
La stessa accumulazione originaria
oltre a essere contraddistinta dalla formazione di grandi masse di proletari,
ha generato le condizioni per il verificarsi della forma capitalistica del
pauperismo. Infatti la rapidità con cui avveniva l'espropriazione dei contadini
era tale che una parte rilevante della popolazione non poteva essere inserita
nella manifattura o nella nascente industria, che non erano ancora
sufficientemente sviluppate, e restava così senza alcuna fonte di
sostentamento. A questo proposito Marx osservava che la stessa legislazione
inglese dell'epoca aveva dovuto implicitamente riconoscere il dilagare del
pauperismo istituendo la tassa sui poveri e le leggi contro il vagabondaggio.
Il fatto che una parte del proletariato viva costantemente al di sotto del
livello medio di sussistenza della stessa classe operaia rimane comunque una
caratteristica pressoché costante nella società capitalistica, anche nelle fasi
superiori del suo sviluppo. Infatti la stessa accumulazione capitalistica, cioè
la riproduzione su scala sempre più allargata del rapporto capitalistico, dà
luogo a una sproporzione tra domanda e offerta della forza-lavoro. L'esistenza
di sovrappopolazione relativa, e quindi di una parte della popolazione più
povera della stessa classe operaia, oltre ad essere il prodotto
necessario dello sviluppo della ricchezza capitalistica è, secondo Marx,
«... addirittura una delle
condizioni d'esistenza del modo di produzione capitalistico. Essa
costituisce un esercito industriale di riserva disponibile che
appartiene al capitale in maniera così completa comese
quest'ultimo l'avesse allevato a sue proprie spese, e crea per i mutevoli
bisogni di valorizzazione di esso il materiale umano sfruttabile sempre pronto,
indipendentemente dai limiti del reale aumento della popolazione» (Il Capitale,
libro I, p. 692).
Inoltre nei periodi di crisi l'offerta di forza-lavoro supera notevolmente la
domanda e ciò comporta in primo luogo una diminuzione assoluta del prezzo della
forza-lavoro stessa, e quindi del salario. In secondo luogo la distruzione di
grandi forze produttive, che è il meccanismo specifico adottato dalla borghesia
per superare i periodi di crisi, è principalmente espulsione dal processo
produttivo dei lavoratori che erano occupati nel precedente periodo di
espansione. Lo sviluppo che segue alle crisi gravi non permette in generale il
reinserimento di tutti i lavoratori rimasti disoccupati, che vanno così a
ingrossare le fila dell’«esercito industriale di riserva». Il pauperismo, e in
particolar modo la disoccupazione e la formazione del sottoproletariato sono, quindi,
fenomeni endemici e ineliminabili nel modo di produzione capitalistico.
Considerando l'attuale fase di sviluppo del capitalismo risulta evidente che
questo fenomeno ha assunto forme e caratteristiche ben diverse da quelle del
pauperismo ottocentesco. Soprattutto in alcuni paesi industrializzati quello
che viene chiamato il tenore di vita o il livello medio di sussistenza della
popolazione nel suo complesso si è notevolmente elevato e il pauperismo sembra
essere diventato un fenomeno marginale. Tuttavia sia la crescente sproporzione
tra l'accumulazione della ricchezza capitalistica da un lato e il salario reale dei lavoratori dall'altro, sia il
permanere della disoccupazione, sia inoltre la suddivisione del mondo in aree
«ricche» e in aree «povere», confermano l'analisi marxista che considera
ineliminabile il pauperismo nella società capitalistica.
Il problema della personalità si è sviluppato nel corso
della storia fino ad essere posto in due modi diversi, che rispecchiano anche
l'ambito storico in cui sono nati. Il primo riguarda la personalità come
individualità eccezionale, emergente nei confronti dei suoi simili e che
esercita o sembra esercitare una notevole influenza sul processo storico;
l'impostazione soggettivistica di una certa storiografia lega la personalità al
concetto di «genio», di «eroe», e via dicendo. La seconda si connette alla
problematica inerente i rapporti della persona umana, dell'individuo, con la
società e con la storia.
Nel maoismo il concetto di personalità è visto criticamente; anche se il
soggetto svolge, secondo Marx e Engels, una funzione attiva nella prassi
storico-politica, le cause generali del processo storico non sono le azioni di
questa o quella individualità, ma risiedono nello sviluppo delle forze
produttive e nei rapporti che esso determina. Questo problema fu trattato
specificatamente da Plechanov, teorico russo del marxismo della II
Internazionale, sostenendo che le particolari individualità, poiché operano in
un contesto sociale che è una struttura retta da precise leggi
economico-sociali, non possono «agire» su tale contesto che entro margini
ristretti e definiti, ossia «dove, quando e in quanto lo permettono i rapporti
sociali»; non possono, in una parola, «fare la storia».
«L'uomo sociale crea i suoi rapporti,
cioè i rapporti sociali. Ma se egli, in un momento dato, crea appunto tali e
non tali altri rapporti, ciò non accade naturalmente senza ragione: ciò è
determinato dallo stato delle forze produttive. Nessuno grande uomo può imporre
alla società rapporti che non corrispondono più allo stato di queste forze o
che non gli corrispondono ancora. In questo senso egli non può veramente fare
la storia ...» (Plechanov, La funzione della personalità nella storia, p.
88).
Il problema della persona umana, cioè del rapporto tra individuo e
società, individuo e storia - centrale in alcune correnti filosofiche come ad
esempio l'esistenzialismo - è stato affrontato, in misura assai limitata, dal
marxismo nel senso di una definizione dell'ambito di autonomia in cui
l'individuo, inteso come il prodotto dei rapporti di produzione, può
manifestare la propria libertà:
«... il contributo originale del
marxismo non consiste nell'aver svolto una propria concezione della autonomia
della persona umana, ma nell’aver elaborato con mirabile coerenza una
concezione delle leggi obiettive dello sviluppo storico la quale non esclude,
anzi, al contrario, presuppone finalità coscienti nell'azione (...) degli
individui. Questo è il significato profondo della visione materialistica della
storia, esso dà fondamento a tutto il sistema di pensiero del socialismo
scientifico» (Schaff, Il marxismo e la persona umana, p. 149).
Il marxismo è dunque ben lontano dalle ideologie borghesi della personalità,
dalle illusioni sulla libertà dell'individuo e dal falso rispetto del singolo
che le contraddistinguono. L'inconsistenza di queste posizioni, riflesso teorico
delle vecchie forme concorrenziali del capitalismo, è provata nella pratica
quotidiana del capitale monopolistico e della sua scienza economica, sociale e
psicologica, tendente a livellare le personalità intorno a standard di consumo,
di lavoro, di comportamento e di opinione politica elaborati in vista di più
sicuri profitti.
Programma economico che regola l'attività di una singola
azienda o di un settore imprenditoriale, attraverso una progettazione organica
nel campo degli investimenti, della produzione e della distribuzione. In questo
senso sono stati intesi come pianificazioni anche quei programmi economici che,
all'interno del quadro capitalistico, tendevano a un sistema di interventi a
livello politico ed economico attraverso un controllo e una direzione dello
Stato sull'attività produttiva (Capitalismo di Stato).
Per il marxismo la pianificazione è l'organizzazione razionale ed equilibrata
di tutte le fasi del processo economico, basata sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione, all'interno dunque
della trasformazione in senso socialista dei rapporti di produzione e delle forme
statali e istituzionali ad essi corrispondenti. In particolare si riferisce
alla concreta esperienza di trasformazione della struttura economica realizzata
in URSS attraverso i piani quinquennali, confermata nel secondo
dopoguerra dall'esperienza originale cinese e degli altri paesi a democrazia
popolare.
Le ragioni dell'impossibilità di subordinare a un piano l'economia
capitalistica stanno proprio nelle sue leggi e nella sua logica, cui sono
strutturali il fenomeno della crisi,
della sovrapproduzione e della
disoccupazione: sia l'intervento statale, sia una programmazione della
produzione e dei suoi obiettivi, non possono intaccare la base del sistema
capitalistico, che è poi la ragione stessa dei suoi squilibri, cioè la
divisione dei redditi basata sulla ripartizione della proprietà. Così il
capitalismo non può sottomettere il flusso degli investimenti a un piano
complessivo proprio perché il suo andamento è determinato principalmente dalla
prospettiva - anzi dall'esigenza - del profitto che essi possono produrre.
All'interno dell'economia socialista, invece, la pianificazione ha una funzione
logica: determinare qualitativamente e quantitativamente i bisogni sociali, sia
quelli di consumo che quelli di investimento, nel quadro dell'organizzazione
complessiva dello sviluppo economico e sociale in senso socialista. Nell'URSS
dopo il 1929, alla Nuova Politica Economica (Nep)
seguì l'organizzazione dell'economia nei piani quinquennali, col programma di
conseguire una rapida industrializzazione e la trasformazione generale della
struttura sociale delle campagne attraverso la collettivizzazione
dell'agricoltura e l'abolizione delle grandi aziende individuali. Si poneva al
governo socialista il compito di superare l'arretratezza economica e
industriale dell'URSS nei confronti dei paesi capitalistici. In particolare fu
data la priorità allo sviluppo dell'industria rispetto all'agricoltura, e
specialmente all'industria pesante rispetto a quella di beni di consumo. Si
operò una rapida e forzata collettivizzazione agraria, attraverso
l'unificazione delle piccole aziende contadine in grandi aziende collettive e
la liquidazione della classe dei grandi proprietari terrieri.
I risultati del primo piano quinquennale e dei successivi furono
contraddittori. A un effettivo sviluppo dell'industria pesante e alla scomparsa
della disoccupazione, corrisposero una sotto- valutazione della produzione dei
beni di consumo e una cronica arretratezza della produzione agricola, causata
dall'utilizzazione del surplus agricolo
ottenuto con la collettivizzazione della terra a beneficio dello sviluppo
accelerato dell'industria pesante. L'analisi delle contraddizioni del sistema
sovietico di pianificazione rappresenta uno degli aspetti centrali del
dibattito odierno sui problemi connessi alla transizione al socialismo e ai
suoi modelli economici.
Le successive esperienze di costruzione del socialismo e in particolare quella
cinese hanno indicato alcune linee su cui si sono orientati il dibattito e
l'analisi. La difficoltà di una pianificazione razionale delle piccole unità
produttive e decentrate rispetto ai grandi complessi industriali ha portato a
una diversa e più equilibrata considerazione dei bisogni dei mercati locali e
della possibilità di utilizzazione delle forze
produttive. Il fatto che l'organizzazione della produzione attraverso un
centro pianificatore portasse al prevalere dell’attenzione verso i suoi aspetti
quantitativi rispetto a quelli qualitativi, e l'altro fatto che l'assortimento
e la rispondenza del prodotto alle esigenze del mercato venissero sacrificati
alla necessità di realizzare la quantità prefissata di produzione, condusse a
un'articolazione più autonoma degli obiettivi a partire dal basso, cioè dalle
fabbriche stesse, capace di ovviare allo spreco di materie prime e al basso
grado di utilizzazione degli impianti. Lo squilibrio tra i diversi settori
produttivi venne affrontato attraverso un nuovo rapporto tra agricoltura,
industria pesante e industria leggera, ponendo «l'agricoltura come fattore base
e l'industria come fattore guida» dell'economia. Soprattutto fu affrontato il
problema della gestione tecnica e politica delle aziende, attraverso il
progressivo superamento della figura del direttore unico e la stretta
cooperazione tra quadri dirigenti, tecnici e operai.
La soluzione della complessità dei problemi relativi alla pianificazione non
può trovarsi che all'interno della concreta esperienza di costruzione della
società socialista e non sulla base di schemi astratti o di formule di
principio.
Termine che indica genericamente gli strati sociali
intermedi tra le due classi «pure» e contrapposte: il proletariato e la borghesia.
Nel Manifesto, dopo un brevissimo cenno al passato, la questione viene
posta in questo modo:
«Nei paesi dove la civiltà moderna si è
sviluppata, si è formata una nuova piccola borghesia, che oscilla tra il
proletariato e la borghesia e si viene sempre ricostituendo come parte
integrante della società borghese» (p. 56).
Ci si riferisce qui in concreto al socialismo piccolo-borghese (Socialismo) i cui teorici criticavano il
capitalismo dal punto di vista del «piccolo borghese e del piccolo possidente
contadino» e assegnavano un ruolo sociale alla classe operaia dallo stesso
punto di vista. In scritti posteriori al Manifesto, Marx e Engels
trattarono più volte l'argomento definendo la piccola borghesia come «classe
intermedia» in cui «si smussano» gli interessi delle due grandi classi
contrapposte e che perciò si reputa, in generale, superiore alla loro lotta; i
suoi rappresentanti parlano spesso di democrazia e di popolo in modo generico
rivelando in ciò la particolare fisionomia della classe, la cui ossatura fu a
lungo costituita essenzialmente da piccoli commercianti, negozianti al
dettaglio, piccoli proprietari terrieri, lavoratori indipendenti.
Le diverse condizioni locali determinavano varietà e cambiamenti: così nelle Lotte
di Classe in Francia la piccola borghesia nazionale, una delle sette classi
allora identificabili in quel paese, è descritta in termini ben diversi dalla
piccola borghesia tedesca studiata in Rivoluzione e controrivoluzione in
Germania, paese nel quale coesistevano otto classi tra le quali, ancora
economicamente e politicamente importante, la classe dei «proprietari feudali».
Oggi la definizione di piccola borghesia appare più incerta a motivo dei grandi
cambiamenti sopravvenuti che hanno portato alla comparsa di nuovi strati
sociali, ceti, frazioni di classe, ecc., le cui caratteristiche variano a
seconda del grado di sviluppo economico-sociale e della situazione politica dei
vari paesi; questa fluidità è, d'altra parte, un segno degli attuali conflitti
e opposizioni che travagliano il modo di produzione capitalistico. La piccola
borghesia nel senso tradizionale di classe dei piccoli proprietari e lavoratori
indipendenti ha così perduto gran parte del suo peso economico e politico;
eredi delle sue ideologie, in una situazione storica mutata, sembrano essere le
classi medie sorte dalle esigenze, reali o fittizie, degli apparati
industriali, finanziari e burocratici moderni.
Si intende per pluralismo il riconoscimento e l'accettazione
dell'esistenza di componenti diverse della società, il loro diritto alla
direzione della vita associata e il relativo diritto di espressione.
Nel linguaggio politico corrente è spesso usata l'accezione «pluralismo
ideologico» o «pluralismo nel campo delle idee», per intendere il
riconoscimento della validità della visione del mondo o della proposta politica
espresse dai rappresentanti dei diversi interessi di classe. Una definizione
onnicomprensiva del termine risulta tutt'altro che semplice, in quanto il suo
significato viene spesso forzato per motivi polemici, in presunta opposizione
talvolta a «totalitarismo» o a «intransigenza ideologica».
Da un punto di vista propriamente marxista il pluralismo nel significato di
«mettere sullo stesso piano diverse concezioni, anche opposte» è stato sempre
aspramente criticato, anche da Lenin, in quanto comporterebbe la rinuncia alla
lotta ideologica contro le concezioni borghesi.
Oggi il termine è impiegato nel senso di apertura e disponibilità di confronto
verso proposte diverse dalla propria che si propongono di risolvere problemi di
interesse generale.
E' il valore della forza-lavoro non retribuita di cui il
capitalista si appropria nel processo di produzione.
«Il plusvalore consiste proprio …
nell'eccedenza della somma complessiva di lavoro incorporata nella merce
rispetto alla quantità di lavoro pagato che la merce contiene» (Il Capitale,
libro III, p. 68).
La forza-lavoro che il lavoratore vende come merce ha infatti la caratteristica
particolare di produrre valore, ma il valore della forza-lavoro è determinato
essenzialmente dalla quantità di lavoro necessaria per la sua conservazione e
riproduzione, oltre che da altri fattori dipendenti dalle situazioni storiche
concrete; se questo valore viene riprodotto, per esempio, in quattro ore di lavoro
quotidiano, ma l'impiego della forza-lavoro viene prolungato per un totale di
otto ore al giorno, si avranno quattro ore di pluslavoro che si
traducono in una maggior quantità di prodotto (plus-prodotto o sovraprodotto)e quindi in plusvalore.
Il plusvalore è dunque il valore del pluslavoro, cioè del lavoro compiuto in
più dal lavoratore oltre a quello che corrisponde al valore del salario. La
distinzione tra capitale costante e capitale variabile permette di calcolare il
saggio del plusvalore e, di più, permette di comprendere meglio cosa sia la giornata
lavorativa: è infatti intorno alla sua durata e all'intensità del suo
sfruttamento che si esercita concretamente il potere politico del capitalismo
attraverso lo Stato, cioè mediante la legislazione sul lavoro. Qui dunque si
manifesta lo scontro di classe; qui risulta evidente che lo scopo delle
minuziose analisi dei fenomeni economici non è semplicemente la costruzione di
una teoria economica più coerente e precisa, ma il punto di partenza per la lotta
contro le pratiche di sfruttamento nei luoghi di lavoro e la loro
legalizzazione da parte dello Stato.
Si possono individuare due diversi modi di appropriazione di plusvalore. In
primo luogo il capitalista può appropriarsi di plusvalore attraverso un prolungamento
della giornata lavorativa oltre il tempo limite entro il quale la forza-lavoro
produce il suo valore (tempo di lavoro necessario), in modo che si realizzi un
pluslavoro (tempo di pluslavoro). Il plusvalore che il capitalista accumula in
questo modo viene chiamato da Marx plusvalore assoluto, perché è dato
dall'aumento assoluto della durata della giornata lavorativa. Questo è anche il
primo modo storicamente verificatosi.
In secondo luogo il capitalista può appropriarsi di plusvalore attraverso la
diminuzione, all'interno della giornata lavorativa stessa, del tempo di lavoro
necessario e quindi un aumento del tempo di pluslavoro. Ciò avviene in seguito
all'aumento della forza produttiva o, per usare un termine corrente, della
produttività del lavoro. Questo è divenuto il modo prevalente da quando, in
seguito alle lotte della classe operaia, è stata introdotta per legge una
durata massima della giornata lavorativa. Il plusvalore che il capitalista
accumula in questo modo viene chiamato da Marx plusvalore relativo, cioè
dovuto a una diminuzione relativa del tempo entro il quale il lavoratore
riproduce il valore della propria forza-lavoro.
«Chiamo plusvalore assoluto il
plusvalore prodotto mediante prolungamento della giornata lavorativa;
invece, chiamo plusvalore relativo il plusvalore che deriva dall'accorciamento
del tempo di lavoro necessario e dal corrispondente cambiamento nel rapporto
di grandezza delle due parti costitutive della giornata lavorativa» (ivi,
libro I, p. 354).
L'analisi del plusvalore è uno dei punti centrali della ricerca scientifica
svolta da Marx. La scoperta dello stretto rapporto che intercorre tra lavoro e
valore e, rispettivamente, tra pluslavoro e plusvalore è stata definita da
Lenin come «la pietra angolare della teoria economica di Marx».
Ne Il Capitale Marx non solo individua i modi specifici di produzione e
di appropriazione da parte dei capitalisti del plusvalore, ma mostra come la
produzione di plusvalore sia «motivo diretto e scopo determinante della
produzione capitalistica». Infatti la condizione essenziale per il verificarsi
della stessa accumulazione del capitale è la disponibilità di plusvalore nelle
mani dell'imprenditore.
Il saggio del plusvalore, cioè il rapporto tra il plusvalore ottenuto e
il capitale variabile anticipato in salari, esprime il grado di sfruttamento
della forza-lavoro:
«Il grado di sfruttamento determina
l'ammontare del saggio del plusvalore e data la massa complessiva del capitale
variabile, determina l'ammontare del plusvalore e quindi del profitto» (ivi,
libro III, p. 241).
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