a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare di Torino
Dizionario enciclopedico marxista
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V W X Y Z
Valore, Valorizzazione, Violenza, Volontarismo,
Un oggetto costituisce un valore in conseguenza del lavoro in esso contenuto;
la grandezza di tale valore viene infatti determinata per mezzo del tempo di
lavoro socialmente necessario per la produzione dell'oggetto stesso.
Occorre distinguere tra valore d'uso e valore di scambio. Il primo si riferisce
al fatto che i beni, o prodotti, possono essere scambiati soltanto in quanto
utili a qualcuno, in quanto siano in grado di soddisfare una qualsiasi
necessità dell'uomo. Secondo Marx,
«L'utilità di una cosa ne
fa un valore d'uso. Ma questa
utilità non aleggia nell'aria. E' un portato delle qualità del corpo della
merce e non esiste senza di esso. Il corpo
della merce stesso, come il ferro, il grano, il diamante, ecc., è
quindi un valore d'uso, ossia un
bene» (Il Capitale, libro I, p.
68).
Il valore d'uso è determinato
dalle differenze qualitative delle merci, esso è quindi soggettivo e perciò
molto variabile in rapporto alle situazioni storiche concrete. Inoltre, per
diventare merce, un bene dev'essere prodotto come valore d'uso per altri, cioè
come valore d'uso sociale. L'insieme dei valori d'uso forma quindi il contenuto
materiale della ricchezza di una società, qualunque essa sia. La nozione di
valore d'uso non comprende solo gli oggetti che hanno un'utilità materiale, ma
anche tutto ciò che può essere utile nel senso di essere richiesto, desiderato
o che soddisfi necessità non materiali come, per esempio, i prodotti
dell'attività artistica.
Per valore di scambio si intende,
invece, il rapporto quantitativo in base al quale si scambiano valori d'uso di
un certo tipo con quelli di ogni altro tipo. Nella società capitalistica «i
valori d'uso costituiscono insieme i depositati materiali del valore di
scambio».
La distinzione tra valore d'uso e valore di scambio e l'analisi della contraddizione,
che si esprime in quello che Marx chiama «il duplice carattere del lavoro
rappresentato nelle merci», sono il punto di partenza della critica marxista
all'economia politica classica. Infatti anche se quest'ultima aveva
riconosciuto il ruolo del lavoro nella formazione del valore, e distinto
talvolta tra valore d'uso e valore di scambio, confondeva però «gli elementi
generali del processo lavorativo», che sono costanti in ogni società, con la
forma specifica che essi assumono nella società capitalistica.
Marx quando considera la formazione concreta, storica, del valore in rapporto
al lavoro, si riferisce sempre al concetto preciso di forza-lavoro. In ciò la teoria del
valore-lavoro di Marx differisce profondamente dalle concezioni precedenti, di
cui la più famosa fu quella di Ricardo, che consideravano il lavoro come
attività naturale indipendente dalle situazioni storiche concrete. A questo
proposito Engels osserva che la questione del rapporto tra lavoro e misura del
valore è insolubile se viene formulata prescindendo dall'analisi della
forza-lavoro:
«Non è il lavoro ad avere un valore. In
quanto attività creatrice di valore, esso non può avere un valore particolare
così come la gravità non può avere un determinato peso, il calore una
determinata temperatura, l'elettricità una determinata intensità di corrente.
Non è il lavoro ad essere comprato e venduto come merce, ma la forza-lavoro. Non appena essa diviene
merce, il suo valore si adegua al lavoro in essa incorporato, in quanto
prodotto sociale, è pari al lavoro socialmente necessario per la sua produzione
e riproduzione» (Prefazione di
Engels al II libro de Il Capitale, p.
25).
L'espressione valore viene usata anche in senso molto generico per indicare un
giudizio che implica una valutazione positiva o negativa di un determinato
fatto o argomento. I cosiddetti giudizi di valore che si distinguono dai
giudizi di fatto, comportano secondo alcuni la rinuncia al «distacco», che è
invece indispensabile per la costituzione di una scienza in senso stretto. In
particolare lo storicismo tedesco fece di questa distinzione il presupposto di
una separazione tra scienze sociali, che esprimono giudizi di valore, e scienze
della natura, che si limitano a giudizi di fatto (Storicismo).
Il marxismo, invece, anche se naturalmente sottolinea le differenze
metodologiche che esistono fra le varie scienze, ritiene possibile la
realizzazione di una ricerca scientifica in cui siano presenti insieme i
cosiddetti giudizi di fatto, cioè le analisi strettamente tecniche e i giudizi
di valore. Un esempio è costituito dall'opera maggiore di Marx, Il Capitale, in cui a un'analisi
scientifica si accompagnano coerentemente giudizi di valore (Socialismo scientifico).
E' il processo di formazione di valore. Più precisamente è il fenomeno che
avviene nella società capitalistica quando al valore di una merce viene
aggiunto plusvalore.
Marx nell'analizzare il processo di produzione distingue tra il processo
lavorativo e quello di valorizzazione. Il modo di produzione capitalistico è
contraddistinto dal fatto che in esso il processo lavorativo, che è «condizione
generale del ricambio organico tra uomo e natura, condizione naturale eterna
della vita umana», assume la particolare caratteristica di essere «processo di
creazione del valore». In altri termini il lavoro acquista una forma tipica in
cui non è più semplicemente un'attività diretta alla soddisfazione di
determinate necessità, ma diventa lavoro che produce merce.
Nella società capitalistica, infatti, i lavoratori non producono per se stessi,
o meglio per soddisfare le proprie necessità fondamentali, e neppure dirigono e
organizzano direttamente i tempi e le modalità della produzione. Ciò che invece
regola e in ultima analisi determina la produzione è il capitale o se si vuole
la classe capitalistica nel suo insieme. Il processo di valorizzazione riguarda
precisamente il capitale, che infatti viene valorizzato, si «autovalorizza»,
cioè aumenta di valore al termine di un ciclo produttivo:
«L'autovalorizzazione del
capitale - la creazione di plusvalore - è quindi lo scopo animatore, dominante
e ossessivo del capitalista, il pungolo e il contenuto assoluto del suo
operare; ... un contenuto totalmente astratto e meschino che, da un lato, fa
apparire il capitalista come sottomesso alla schiavitù del rapporto
capitalistico, non meno che, dall'altro, al polo opposto, l'operaio» (Marx, Il Capitale, cap. VI inedito, p. 21).
Il problema della violenza si pone nel marxismo in relazione ai seguenti punti:
– la violenza come presenza costante nella storia nel duplice significato di
elemento costitutivo della società classista e in particolare di quella
borghese, e come forza generatrice di nuove società;
– la critica alla violenza nella sua forma di terrorismo di gruppo o
individuale;
– la violenza come componente della rivoluzione nella sua fase insurrezionale e
nella costruzione dello Stato socialista.
«La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classe»: in
queste parole del Manifesto è già
ravvisabile la concezione marx-engelsiana di violenza, che parte dalla
constatazione della sua esistenza nella società e nella storia, e più
precisamente nel rapporto economico. Essa non dipende da una scelta soggettiva
o politica, ma dal fatto che la società divisa in classi e soprattutto la
società borghese è fondata sull'antagonismo tra forze e mezzi di produzione,
tra proprietà privata e produzione sociale. Ogni mutamento dei rapporti di
produzione, in quanto lotta di una classe per la supremazia e il dominio, ha
sempre comportato l'uso della violenza, come nel caso del passaggio dalla
società feudale a quella borghese, e in questo senso può anche essere vista
positivamente perché ha favorito l'affermazione di modi di produzione più
evoluti; essa cioè è la «levatrice» della storia.
Ma l'esercizio del dominio comporta la costituzione di un organismo in grado di
garantirne il mantenimento, cioè lo Stato. Questo sussiste in quanto si avvale
anzitutto di una «forza pubblica» che non è formata solo di uomini armati «ma
anche di appendici reali, prigioni e istituti di pena di ogni genere» e si
mantiene mediante il contributo dei cittadini, cioè le imposte. Lo Stato perciò
non è l'espressione generica del dominio di una classe, ma ne è lo strumento:
vale a dire che la violenza, occulta o palese a seconda delle circostanze,
compare in esso non marginalmente o in seconda istanza, sebbene come
caratteristica prima e determinante del suo modo di essere nella storia (Stato). Solo quando vi sia un periodo di equilibrio
tra le forze sociali lo Stato può attenuare questa violenza di base e
presentarsi come «democratico»; non appena si avvicinano delle crisi gravi che
rompono questo equilibrio esso mostra inequivocabilmente la sua vera natura.
«La civiltà e la
giustizia dell'ordine borghese si mostrano nella loro luce sinistra ogni volta che
gli schiavi e gli sfruttati di quest'ordine insorgono contro i loro padroni.
Allora questa civiltà e questa giustizia si svelano come nuda barbarie e
vendetta ex lege» (Marx, Le guerre civili In Francia, pp. 95-96).
Da qui il rifiuto marx-engelsiano
di quelle concezioni che vedevano la rivoluzione come intervento armato di una
minoranza «eroica» che avrebbe trascinato dietro a sé il popolo o come
terrorismo individuale. Sono note le polemiche di Marx e Engels con Blanqui e
Bakunin, i più autorevoli rappresentanti di queste tendenze, ai quali
addebitavano di non tener conto del fatto che la rivoluzione può verificarsi
solo in una determinata fase storica, quando cioè esplodano le contraddizioni
tra forze e modo di produzione e che ogni fase storica può essere abbreviata,
ma non eliminata. Infatti:
«Una formazione sociale non perisce
finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso;
nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano
maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro
esistenza» (Marx, Per la critica
dell'economia politica, p. 5).
La teoria dell'imperialismo sposta i
termini entro i quali si collocava il problema della violenza e dei suoi
rapporti con la rivoluzione: anzitutto qui la
violenza è vista non più in senso positivo come «levatrice» della storia, ma
solo negativamente come oppressione. Infatti il capitalismo nella sua fase
ultima, cioè l'imperialismo, implica l'uso della forza per la spartizione del
mercato mondiale e le conquiste coloniali: il che dimostra ancora una volta che
la guerra e la violenza sono fatti costitutivi del modo di produzione
capitalistico.
In secondo luogo, dev'essere considerata sia dal punto di vista
dell'abbattimento dello Stato borghese, sia in relazione alla costruzione del
nuovo Stato socialista. In quanto la rivoluzione è un fenomeno di massa guidato
e organizzato dal proletariato, Lenin, almeno in una fase iniziale della rivoluzione
russa, mira piuttosto al consenso che alla coercizione; ma il nuovo Stato
socialista (Dittatura del
proletariato) nasce contro le resistenze della borghesia capitalistica, nei
cui confronti non può che reagire con l'energia necessaria: ogni dominio di
classe reca in sé il segno della violenza. Tuttavia nello Stato socialista
questa è presente in una fase transitoria dettata da condizioni oggettive ed
esterne: non è implicita nei rapporti economico-sociali come lo è nella società
capitalistica. Quindi non solo è destinata a scomparire, ma è già essa stessa
diversa in quanto imposizione della maggioranza sulla minoranza.
«Noi ci assegnamo come scopo finale la
soppressione dello Stato, cioè di ogni violenza organizzata e sistematica, di
ogni violenza esercitata contro gli uomini in generale. Noi non auspichiamo
l'avvento di un ordinamento sociale in cui non venga osservato il principio
della sottomissione della minoranza alla maggioranza. Ma, aspirando al
socialismo, noi abbiamo la convinzione che esso si trasformerà in comunismo, e
che scomparirà quindi ogni necessità di ricorrere in generale alla violenza
contro gli uomini, alla sottomissione di
un uomo all'altro, di una parte della popolazione all'altra, perché gli uomini
si abitueranno a osservare le
condizioni elementari della convivenza sociale, senza violenza e senza
sottomissione»(Lenin,
Stato e Rivoluzione, p. 92).
Indica la concezione, e la pratica politica ad essa corrispondente, che
attribuisce alla volontà singola o di un gruppo il ruolo determinante nello
sviluppo storico, sottovalutando le condizioni oggettive delle situazioni
concrete.
Il volontarismo si distingue dalle altre manifestazioni del soggettivismo
politico, quali per esempio lo spontaneismo, il settarismo e il dogmatismo, in
quanto è legato in modo relativamente organico alle concezioni filosofiche che,
nei primi anni del '900, riflettevano le tendenze irrazionalistiche largamente
presenti nella cultura europea.
Dal punto di vista storico, infatti, la sopravvalutazione del ruolo
dell'intervento soggettivo nell'azione politica ha assunto i caratteri tipici
di un movimento ispirato al volontarismo nella pratica e nella teorizzazione
del sindacalismo rivoluzionario di
Sorel. Questo movimento, che non assunse mai la caratteristica di un vero e
proprio partito ma rimase come tendenza all'interno di altri partiti, fece
appello alla violenza (il libro che rese famoso Sorel è Riflessioni sulla violenza)e ritenne che il principale strumento di
lotta per la rivoluzione fosse lo sciopero generale insurrezionale, in quanto
espressione di un atto di volontà immediata e spontanea. Il volontarismo aveva
cioè una visione semplicistica del processo rivoluzionario e inoltre, nelle sue
forme più esasperate, diffusesi anche in alcuni settori del massimalismo
italiano, contrastava talvolta l'opera di preparazione e organizzazione della
classe operaia, intesa a realizzare la propria egemonia sull'intera società.
Sotto questo profilo è stato criticato, tra gli altri, da Gramsci, il quale ha
messo in luce la matrice sostanzialmente idealistica e individualistica di
questa concezione della storia, e ha rilevato la contraddittorietà della sua
attività pratica, che portava in definitiva agli stessi errori compiuti dai
sostenitori della concezione apparentemente opposta: il determinismo.
Oltre che in Gramsci, anche dall'opera di Lenin, e in generale dalla storia dei
partiti comunisti, risulta evidente che il problema del rapporto tra volontà e
sviluppo della società è posto in maniera errata sia dalla concezione
volontaristica che da quella deterministica. Infatti è la coscienza di classe,
l'organizzazione politica rivoluzionaria - e quindi non il semplice istinto di
ribellione, oppure la sola forza delle leggi economiche - ad essere
indispensabile per il superamento delle contraddizioni esistenti nel
capitalismo.