a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare di Torino
Dizionario
enciclopedico marxista
Premessa A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z
M
Macchinari, Manifattura, Maoismo, Marginalismo, Marxismo, Austromarxismo, Marxismo-Leninismo, Marxismo occidentale, Marxismo ortodosso, Marxismo volgare, Neomarxismo, Massa, Massimalismo, Materialismo, Materialismo dialettico, Materialismo storico, Meccanicismo, Mercantilismo, Mercato, Merce, Mercificazione, Mezzi di produzione, Modo di produzione, Moneta, Monismo, Monopolio, Movimento contadino, Movimento operaio
Secondo la definizione di Marx, data nel capitolo XII del libro I del Capitale,
è la forma classica della cooperazione basata sulla divisione del lavoro; in altre parole è
un processo di produzione capitalistica, diffusissimo in Europa tra il 1550 e
il 1770 circa, che si avvale della concentrazione di più operai in un solo
luogo dove gli strumenti e i mezzi di lavoro, come anche le materie prime,
appartengono a un proprietario che paga un salario ai lavoratori. Con la
manifattura ha quindi fine il sistema dei compensi usati nell'industria
domestica, dove all'artigiano veniva ancora pagato il prodotto finito detratto
del valore per l'affitto degli strumenti di lavoro e delle materie prime. La
manifattura, che precede immediatamente la fabbrica (Industria), è sorta in due modi diversi:
– mediante la riunione di differenti mestieri, a ciascuno dei quali è affidata
un'operazione singola delle molte necessarie a mettere a punto il prodotto
finito; qui l'artigiano perde rapidamente la capacità di eseguire nel suo
insieme il lavoro necessario ma diventa sempre più abile e veloce nel suo
compito specifico; Marx parla di «lavoratori parziali» la cui riunione forma
una figura collettiva, quella del «lavoratore combinato complessivo» che
sostituisce il singolo artigiano che compiva una volta tutte le operazioni
necessarie; è il caso, per esempio, della costruzione di carrozze;
– mediante l'impiego simultaneo di molti artigiani che fanno gli stessi oggetti
od oggetti molto simili: è il caso degli aghi, dei caratteri a stampa, della
carta. Qui l'artigiano continua dapprima a fare il suo lavoro di una volta, ma
ben presto l'esigenza di una maggiore rapidità di esecuzione porta a
suddividere le operazioni. Il risultato è che la merce
da prodotto individuale del singolo artigiano diventa prodotto sociale di una
collettività di artigiani: la manifattura è dunque «un meccanismo di produzione
i cui organi sono uomini». Il lavoro resta artigianale ma il mestiere vero e
proprio è composto di operazioni parziali che vengono compiute successivamente
da operai diversi: ogni gruppo di operai impegnato in una singola tappa del
processo lavorativo fornisce all'altro il materiale per il lavoro. Nota Engels:
«Quindi è condizione fondamentale che
ogni gruppo produca una quantità data nel tempo dato, insomma si generi
una continuità, una regolarità, un'uniformità e intensità di lavoro molto
differenti anche da quelle della corporazione. Qui dunque si perviene già
alla legge tecnica del processo di produzione: che il lavoro è il lavoro
socialmente necessario» (Studi sul Capitale, pp. 68-69).
Il funzionamento della manifattura è legato perciò a un considerevole sforzo
tecnico e organizzativo che presuppone una divisione sociale del lavoro già
avanzata e l'accresce ulteriormente, modificandola, attraverso la creazione di
mansioni di importanza diversa tra quanti lavorano al suo interno; inoltre
mentre la divisione del lavoro nella società produce merci attraverso il lavoro
dell'artigiano, la divisione del lavoro nella manifattura che è «una creazione
specifica del modo di produzione capitalistico», cancella la figura del singolo
produttore di merci: l'operaio parziale, infatti, non produce alcuna merce ed è
soltanto «un accessorio dell'officina del capitalista», incapace di una
produzione indipendente, destinato a un lavoro uniformemente ristretto e a una
vita proporzionalmente angusta; Marx parla di «rachitismo intellettuale»,
oltreché fisico, e sottolinea la nascita della patologia industriale citando
le parole del pioniere di questa scienza, il medico italiano Ramazzini, che nel
1713 scriveva:
«Suddividere un uomo significa condannarlo a morte, quando abbia meritato la
condanna; significa assassinarlo quando non la meriti. La suddivisione del
lavoro è l'assassinio di un popolo».
La manifattura è stata dunque per un aspetto una determinata organizzazione del
lavoro sociale, per un altro un metodo per generare plusvalore relativo; la sua base tecnica,
insufficientemente sviluppata, entrò poi «in contraddizione coi bisogni di
produzione da essa stessa creati»: si apriva così la via alla «grande
industria» (Industria) che trovava già
approntati per la propria crescita alcuni elementi indispensabili; primo fratutti quello dell'acquisto sul mercato della forza-lavoro.
Concezione legata al pensiero e all'azione di Mao Tsetung, primo presidente del
Partito Comunista Cinese e della Repubblica Popolare Cinese. I suoi tratti
caratteristici riassumono l'esperienza rivoluzionaria del popolo cinese e del
partito comunista nella lotta contro il feudalesimo e l'imperialismo, per
l'affermazione e la costruzione del socialismo. La vittoria della rivoluzione,
ottenuta sotto la direzione di Mao, ha costituito dopo la rivoluzione russa il
più grande avvenimento rivoluzionario del secolo, mutando definitivamente i
rapporti di forza a favore dei popoli rivoluzionari di tutto il mondo e
costituendo un esempio per le lotte del popolo indocinese e dei popoli del Terzo mondo.
Attraverso l'analisi delle esperienze positive e negative del movimento
comunista internazionale e attraverso il bilancio dell'edificazione del
socialismo nell'URSS, Mao maturò l'esigenza di legare l'azione di un partito
rivoluzionario moderno alla carica di rivolta contadina tipica della storia
cinese. Sottolineando la centralità del problema contadino, la necessità di
profonde riforme agrarie e di una capillare organizzazione del partito nelle
campagne, Mao elaborò la linea generale della rivoluzione popolare e
democratica in un paese coloniale e semifeudale, attraverso la teoria della
«guerra popolare di lunga durata» e legando le masse contadine attorno alla
funzione dirigente della classe operaia in un Fronte
Unito antimperialista.
Nell'affrontare i problemi della costruzione del socialismo, la posizione di
Mao fu dettata dall'esigenza di unire il popolo attraverso il consenso e la
democrazia di massa. Per questo il maoismo sviluppò la teoria della
continuazione della lotta di classe anche sotto
la dittatura del proletariato affermando
che nella società socialista, anche se i mezzi di produzione sono per
l'essenziale in mano al popolo, continuano a esistere, nei mutati rapporti di
forza, le classi e la lotta di classe. Ciò
deriva da ragioni oggettive, quali la persistenza del diritto borghese, della produzione mercantile,
delle grandi differenze tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra città e
campagna, tra operai e contadini. Per il maoismo dunque la società socialista
non è stabile, ma è una società in cui la lotta di classe è ancora la molla del
progresso.
Su questa base Mao sviluppò la linea del partito sulle due direttrici di un
rinnovamento dell'economia, attraverso uno sviluppo equilibrato tra industria e
agricoltura, «ponendo l'agri- coltura come fattore base e l'industria come
fattore guida» (Pianificazione); e di
una trasformazione dei rapporti tra gli uomini, attraverso la rottura radicale
della vecchia cultura e la costruzione di nuovi valori e nuovi modelli di
comportamento. Così egli indicò come le classi borghesi non si riducessero agli
ex proprietari fondiari e ai vecchi capitalisti, ma che esse avevano gli
elementi più pericolosi negli intellettuali borghesi che non trasformano la
propria concezione del mondo, nei membri del partito che, consapevolmente o inconsapevolmente,
applicano una linea revisionista. Per questo il maoismo indica la necessità di
una «rivoluzione nella sovrastruttura»,
di una ininterrotta «rivoluzione culturale», che deve investire in pieno il
partito comunista e fondarsi su una profonda democrazia di massa. Questa
necessità storica di promuovere la lotta di classe in ogni campo è la ragione
profonda della necessità della mobilitazione costante del proletariato
nell'epoca storica del socialismo.
L'apporto teorico del maoismo al marxismo e al leninismo si sviluppò anche in
campo filosofico e culturale. In particolare l'analisi della teoria
materialistico dialettica della conoscenza
e del legame tra teoria e pratica portò Mao ad accentuare
creativamente e originalmente l'origine della conoscenza dalla pratica e in
particolare dalla pratica sociale. Se il pensiero umano si sviluppa attraverso
la pratica sociale, che per Mao si articola nella lotta per la produzione,
nella lotta di classe e nella sperimentazione scientifica, da ciò deriva la
necessità per il popolo, nella misura in cui partecipa attivamente alla lotta
di classe e alla produzione, di impadronirsi creativamente anche del patrimonio
scientifico e del pensiero teorico.
L'importanza della teoria, come arma rivoluzionaria nelle mani della classe
operaia, significa nel socialismo lottare per il superamento della divisione
storica tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, contro l'influenza dell'ideologia e della tradizione borghese. La
necessità di innalzare la preparazione teorica e scientifica delle masse
popolari, di stimolare nel socialismo il progresso delle scienze e lo sviluppo
artistico, sintetizzato da Mao nella frase «che cento fiori sboccino e cento
scuole gareggino», si basa sulla convinzione della capacità e della funzione
propulsiva del popolo quale produttore - culturale oltre che materiale -
consapevole e intelligente. La possibilità di unire la coscienza politica e la
competenza professionale si salda all'esigenza di attenersi in tutti i campi a
una «linea politica di massa», cioè a una linea che si costruisca sulla
mobilitazione del popolo, nella espressione delle opinioni attraverso il
dibattito di massa.
L'analisi della contraddizione come ciò
che esprime l'essenza sia del mondo naturale che di quello umano portò Mao a
individuare due tipi fondamentali di contraddizioni sociali: le contraddizioni
«in seno al popolo» e quelle «antagonistiche». La loro natura completamente
diversa implica anche metodi diversi per la loro risoluzione. «Imparare dagli
errori passati per evitarne in futuro e curare la malattia per salvare
il malato» attraverso la discussione e la lotta contro le idee sbagliate, sono
le linee direttrici di una concezione della rivoluzione socialista come
costruzione di una società che, all'interno del processo di trasformazione
dell'economia in senso socialista, sappia tenere sempre al primo posto le
esigenze dell'uomo e sconfiggere ogni tendenza burocratica.
Inquesto senso il pensiero di Mao è la realizzazione di ciò che Marx
intendeva quando affermava: «... la teoria si trasforma in potenza materiale
non appena se ne impadroniscono le masse».
Teoria economica sviluppatasi negli ultimi decenni del sec. XIX sulla base di
una critica radicale delle ricerche sul valore
operate dall'economia classica (Economia
politica) e in particolare della teoria del valore-lavoro di Ricardo. Il
punto di partenza del pensiero marginalista era la negazione del rapporto tra
valore e costo di produzione di una merce, a cui
veniva sostituito il concetto di utilità. Sebbene i classici non
avessero ignorato l'analisi dell'utilità (Smith specialmente ne aveva trattato
diffusamente), tuttavia essa non era stata mai considerata come la base della
spiegazione del valore di scambio delle merci,
che veniva invece fondato sul processo sociale complessivo dell'attività
economica, trascurando i fattori individuali soggettivi.
Alternativamente alla teoria classica, invece, i marginalisti fondavano una
teoria del valore che si basava sull'individuo e sull'analisi dei suoi bisogni,
facendo dipendere interamente il valore di una merce dal suo grado di utilità,
cioè dalla sua capacità di soddisfare i bisogni soggettivi. Così i fenomeni
economici della società non erano intesi come l'espressione oggettiva di
determinate forze sociali, ma risultavano dal comportamento soggettivo degli
individui. I marginalisti sostenevano di aver sviluppato una teoria del valore
indipendente da ogni particolare struttura sociale o considerazione storica, e
quindi valida universalmente. L'introduzione evidente dell'elemento psicologico
nell'analisi economica portava a trasformare radicalmente il concetto di lavoro che, invece di attività socialmente
necessaria e misurabile quantitativamente sulla base dell'unità di tempo,
diveniva espressione del «sacrificio soggettivo» sostenuto dai singoli in una
società intesa come agglomerato di individui.
Se la scuola classica aveva posto l'accento sulla produzione e sull'offerta, il
marginalismo si occupa principalmente del consumo e della domanda. Il concetto
di utilità marginale fu introdotto appunto per spiegare questo
spostamento di oggetto nell'indagine. Al di là di pur non secondarie
differenziazioni tra i suoi esponenti - i maggiori sono l'inglese S. Jevons,
l'austriaco K. Menger e il francese L. Walras - tale concetto si può così riassumere:
per spiegare la non concordanza del valore di scambio di una merce con la sua
capacità di soddisfare bisogni, cioè con il suo valore
d'uso, si afferma che di un complesso di merci non bisogna considerare la sua
utilità complessivamente, bensì quella variabile di ciascuna unità dell'insieme
delle merci. Più il numero di queste unità è grande, minore è l'intensità dei
bisogni che si può soddisfare con esse, poiché ogni bisogno vede decrescere la
propria intensità nella misura in cui è soddisfatto. Così l'aumentare del
complesso delle merci produce il decrescere dell'utilità di ciascuna unità.
Quindi il valore di una merce dipende, per i marginalisti, dalla combinazione
della sua utilità e della sua rarità; è determinato dall'utilità «marginale»,
cioè dall'utilità di quella merce che è, tra tutte, la meno utile; di quella
che, essendo la meno rara, segna il confine nello scambio con le merci non
vendute e, nella produzione, con quelle non prodotte.
Il marginalismo ebbe una grande influenza su tutti gli sviluppi della teoria
economica, di cui divenne la base indiscussa e conquistò rapidamente un primato
che non mancò di avere conseguenze nel pensiero economico del '900, fino ai
nostri giorni. Per questa ragione si è parlato anche di una seconda generazione
della scuola marginalista che, sia pure con differenziazioni anche notevoli,
attraverso i nomi di A. Marshall, E. Böhm-Bawerk e V. Pareto, segna gran parte
del percorso della teoria economica dei primi decenni del '900, si può dire
fino alla grande crisi del '29 e al pensiero di Keynes che ne conduce, sia pure
all'interno dell'economia borghese, la critica più radicale. Con la crisi del liberalismo e dell'economia classica, di
fronte alle profonde modificazioni in senso monopolistico che il capitalismo
assumeva, il marginalismo rappresentava nel campo economico quelle risposte di
tipo soggettivista e spiritualista verso cui il pensiero borghese e gli
orientamenti culturali nel loro complesso si andavano volgendo.
Il termine
marxismo indica l'insieme delle concezioni che si richiamano espressamente
all'opera di Marx. Si deve quindi intendere per marxismo sia la concezione di
Marx, che gli sviluppi che ad essa sono stati apportati.
Si può poi distinguere per precisione tra marxiano, ciò che è stato affermato
da Marx stesso, e marxista, ciò che è stato affermato da coloro che hanno
interpretato e sviluppato il suo pensiero.
Il contenuto del marxismo non è, neppure approssimativamente, riassumibile in
una definizione. E' possibile tuttavia accennare brevemente ai problemi che
esso affronta così come sono stati esposti da Lenin in Tre fonti e tre parti
integranti del marxismo:
il problema dell'interpretazione materialistica e dialettica della storia,
della società e della natura, fondata sulla critica e sul superamento
dialettico della filosofia classica tedesca (Materialismo storico, Materialismo dialettico);
il problema dell'analisi del modo di produzione capitalistico (Capitalismo),
dello studio delle leggi generali che ne determinano lo sviluppo, e quello
della comprensione scientifica delle condizioni del suo superamento (Socialismo, Comunismo),
unitamente alla critica dell'economia politica classica inglese;
il problema della comprensione della funzione della lotta di classe come forza
motrice dello sviluppo storico che rende possibile e necessaria la dittatura del proletariato e
l'estinzione delle classi stesse;e conseguentemente la fondazione del
socialismo scientifico e la critica al socialismo utopistico francese.
Questi problemi sono strettamente connessi tra loro nell'opera di Marx, che
viene considerata da Lenin come il superamento critico delle concezioni dei più
grandi rappresentanti della filosofia, dell'economia politica e del socialismo
del secolo XIX. Il marxismo si presenta dunque come una teoria che si impegna
nella comprensione e nella critica della società capitalistica e delle sue più
alte espressioni teoriche, giungendo, secondo Lenin, a dare agli uomini «una
concezione integrale del mondo che non può conciliarsi con nessuna
superstizione, con nessuna reazione e con nessuna difesa dell'oppressione
borghese».
La funzione storica della classe operaia e lo sviluppo della coscienza
rivoluzionaria all'interno del movimento operaio costituiscono un costante
punto di riferimento di questa concezione, di cui Marx ed Engels delinearono i
tratti fondamentali. Lo stesso sorgere del marxismo può essere considerato,
nella storia del pensiero, come il risultato dello sforzo di comprensione
razionale delle motivazioni storiche che assegnano alla classe operaia il ruolo
di classe rivoluzionaria. Gli sviluppi ulteriori del marxismo sono anch'essi in
stretto rapporto con la crescita politica e organizzativa del movimento
operaio, e anzi trovano nel collegamento con la lotta per il superamento del
capitalismo uno dei motivi fondamentali di continuità e coerenza con la
concezione che fu propria di Marx ed Engels.
L'appartenenza al marxismo non può infatti venire definita come semplice
ripetizione di ciò che già i suoifondatori avevano detto, come è
dimostrato dalla vastità e dall'ampiezza degli studi di impostazione marxista
che affrontano i grandi problemi della società contemporanea, ma assume il
significato di un'adesione teorica e pratica al contenuto rivoluzionario di
questa concezione. La lotta contro il revisionismo
e il riformismo non è quindi da intendersi
come semplice ristabilimento di una «lettura» corretta dei testi che vengono
definiti «classici del marxismo», anche se ciò è stato storicamente reso
necessario dalle frequenti deformazioni operate dai revisionisti nei confronti
di questi testi.
L'aggiunta di prefissi o di aggettivi alla parola marxismo è pratica molto
diffusa che indica concisamente il carattere specifico di una corrente del
marxismo stesso. Qui di seguito sono riportate alcune delle voci di uso più
corrente.
Alcuni dei
più noti esponenti della socialdemocrazia
austriaca, tra cui O. Bauer, R. Hilferding e M. Adler, elaborarono una
particolare interpretazione del marxismo che condusse anche a una parziale
separazione organizzativa dalla II Internazionale (Internazionale), sancita da un congresso
tenutosi a Vienna. Questa corrente che pure era in parziale dissenso con alcune
tesi revisioniste della II Internazionale, si inquadra anch'essa, sia pure
attraverso diverse contraddizioni, nel più generale processo di revisione del
marxismo, condotto sulla base di interpretazioni neokantiane (Revisionismo).
Lenin, pur riconoscendo ad alcune opere di Hilferding una funzione e un
significato positivi, fu estremamente critico nei confronti
dell'austromarxismo. Egli individuò in un'errata concezione dei rapporti tra
socialdemocrazia e Stati imperialisti uno dei punti di contatto, oltre a quello
già citato della revisione del marxismo, tra questa corrente e l'opportunismo
che contraddistinse la II Internazionale. Inoltre l'atteggiamento nei confronti
dei governi imperialisti sul problema della prima guerra mondiale fu pressoché
analogo nell'austromarxismo come nella socialdemocrazia tedesca e portò Lenin a
sostenere la necessità di una definitiva autonomia del bolscevismo dalla socialdemocrazia.
L'importanza
del contributo teorico e pratico dato da Lenin (Leninismo)
allo sviluppo rivoluzionario del marxismo ha fatto sì che sia invalso l'uso del
termine marxismo-leninismo, nella storia del movimento operaio, per
sottolineare la continuità e la coerenza della sua opera con quella di Marx. In
particolare la III Internazionale (Internazionale)
fece proprio l'uso di questo termine. In seguito, interpretazioni del marxismo
che differivano da quella data da Lenin o che negavano che Lenin potesse essere
considerato, soprattutto dal punto di vista teorico, il continuatore diretto
dell'opera di Marx, hanno preferito riferirsi semplicemente al termine
marxismo.
Per marxismo
occidentale si intende l'insieme delle interpretazioni di orientamento marxista
che accentuano le analogie tra la concezione di Marx e quella di Hegel. Per
questo il marxismo occidentale viene anche definito hegelomarxismo o
marxismo hegeliano. L'opera che viene considerata il punto di partenza di
questa interpretazione è Storia e coscienza di classe di Lukács, e ad
essa fanno riferimento più o meno immediato tutti gli autori che appartengono
al marxismo occidentale.
Uno dei tratti più caratteristici di questa interpretazione del marxismo è la
distinzione tra la concezione che fu propria di Marx e il contributo specifico
dato da Engels alla fondazione del marxismo, distinzione che assume talvolta il
carattere di vera e propria separazione, giungendo fino a una contrapposizione
che tende a considerare l'opera di Engels come in più punti contrastante con
quella di Marx. Secondo Lukács l'interpretazione engelsiana del metodo
dialettico non coglie il problema essenziale che ne fa un metodo
rivoluzionario; afferma infatti Lukács che in Engels
«l'interpretazione più essenziale, il rapporto
dialettico tra soggetto ed oggetto nel processo storico non viene neppure
menzionato, e tanto meno quindi posto - come si dovrebbe - al centro della considerazione
metodica. Eppure, senza questa determinazione, il metodo dialettico -
nonostante il mantenimento, in ultima analisi puramente apparente, della
"fluidità" dei concetti - cessa di essere un metodo rivoluzionario»
(Lukács, Storia e coscienza di classe, pp. 4, 5).
Nel senso più generale al marxismo occidentale appartengono anche alcuni degli
autori che parteciparono alla fondazione dell'Istituto per le ricerche sociali
di Francoforte, noto anche come
Scuola di Francoforte, i cui più noti esponenti sono T. Adorno, M. Horkheimer e
H. Marcuse.
Nel corso
della storia del marxismo diverse correnti interpretative di questa concezione
ritennero di doversi distinguere da altre o richiamandosi genericamente a
un'ortodossia, cioè a un'interpretazione letterale dell'opera di Marx, o
affermando di se stesse di essere ortodosse, cioè di rispettare fedelmente ciò
che Marx voleva dire. La corrente della II Internazionale (Internazionale) che si richiamava a K.
Kautsky si definì «ortodossa» in contrapposizione a quella di Bernstein.
Soprattutto dopo il sorgere del revisionismo,
si è effettivamente posto ai continuatori dell'opera di Marx il problema di
tracciare delle discriminanti teoriche nei confronti dei tentativi di
conciliazione del marxismo con teorie e ideologie tipicamente borghesi. In
questo senso marxismo ortodosso può essere definito l'insieme di
interpretazioni della dottrina di Marx, che è aderente alle esigenze
rivoluzionarie della classe operaia e che effettivamente costituisce uno sforzo
di comprensione teorica e di modificazione pratica della realtà attuale. Lukacs
affermò che «per ciò che concerne il marxismo l'ortodossia si riferisce
esclusivamente al metodo», in quanto il metodo dialettico (Dialettica) può essere «potenziato, sviluppato
e approfondito soltanto nella direzione indicata dai suoi fondatori».
Il tentativo
di conciliare il marxismo con il clima culturale e con le concezioni più
diffuse in Europa alla fine del secolo scorso ha dato luogo a deformazioni e a
banalizzazioni del suo contenuto originario. I maggiori esponenti del movimento
operaio criticarono i tentativi fatti in tale senso, distinguendoli dal revisionismo che ha invece il carattere di
correzione sistematica, ufficiale, dei principi del marxismo fatta non in nome
della sua divulgazione, ma come «contributo» al suo miglioramento. La
volgarizzazione del marxismo invece è consistita essenzialmente
nell'interpretazione schematica di alcune affermazioni approssimativamente
dedotte da questa concezione, inserite nel quadro di teorie borghesi.
Il preteso carattere divulgativo di questi riassunti del marxismo ha ostacolato
la comprensione e lo sviluppo rivoluzionario del socialismo
scientifico. Soprattutto alcuni esponenti della II Internazionale (Internazionale) sono stati criticati per
aver operato questa semplificazione del marxismo, introducendovi
arbitrariamente concezioni positivistiche, meccanicistiche, fatalistiche e
deterministiche. Richiamandosi all'opera di seria divulgazione del marxismo
condotta da A. Labriola, Gramsci criticò a fondo questo «marxismo della
vulgata» sostenendo il carattere di concezione autonoma e rivoluzionaria di
quella che egli chiamava filosofia della prassi.
Questa
espressione, che viene usata in accezioni molto diverse e talvolta
contrastanti, indica la ripresa o la riformulazione di alcune delle analisi di
Marx. Talvolta per neomarxismo si intende ogni contributo o arricchimento
apportato alla concezione originaria di Marx includendovi tutte le opere di
orientamento marxista posteriori a Lenin. Tuttavia viene anche usato in un
significato più specifico come affermazione della necessità di un neomarxismo
che si adatti alle condizioni attuali: in questo senso alcuni tentativi di
elaborazione di un neomarxismo si collocano al di fuori dell'impostazione e dei
contenuti rivoluzionari del marxismo.
Il termine
usato tanto al singolare quanto al plurale non ha una fisionomia precisa nei
classici del marxismo, dove indica molto genericamente e discorsivamente una
collettività in qualche modo opposta al capitalismo nelle diverse
manifestazioni del suo potere («la grande massa dei contadini», «le masse degli
sfruttati», «le masse popolari», e via dicendo).
In espressioni del tipo «lotta di massa», «cultura di massa», usate attualmente
con una certa frequenza, serve in sostanza a sottolineare fenomeni di larga
partecipazione. Come ogni concetto non precisato può essere applicato a
situazioni tra loro molto diverse, assumendo un significato specifico in
relazione all'uso fattone all'interno di un dato contesto.
Tendenza
politica manifestatasi all'interno del Partito Socialista Italiano nei primi
anni del '900 e per tutto il primo dopoguerra. Costituitasi in corrente, trae
il proprio nome dal programma «massimo» che propugnava il rovesciamento
dell'ordinamento capitalistico attraverso la rivoluzione per instaurare il
«socialismo integrale».
Contrapponendosi alla corrente maggioritaria dei «riformisti», il massimalismo
rifiutava ogni possibilità di mediazione o di compromesso con altre forze
politiche. Teorizzava inoltre un programma politico nel quale l'obiettivo
strategico del socialismo e della rivoluzione non era sostenuto da adeguati
programmi tattici e parziali di riforme e di miglioramenti graduali delle
condizioni di vita e di lavoro del proletariato. Se il riformismo aveva il
limite di acconsentire a una politica di compromesso al punto di rinunciare
alla lotta per il socialismo, il massimalismo dal canto suo proclamava solo
teoricamente i principi del socialismo, senza individuarne però concretamente
le forme di realizzazione.
Gramsci, criticando gli opposti errori, seppe analizzare le condizioni concrete
del capitalismo in Italia e delineare i modi del suo superamento, proprio nel
periodo in cui (1919-1922) la corrente massimalista, sotto la guida di G. M.
Serrati, prevalse all'interno del partito.
Il massimalismo infine non seppe adeguatamente individuare la reale natura e la
pericolosità del fascismo: contro di esso non seppe sviluppare, come del resto
anche il riformismo, un'opposizione ferma e coerente e nemmeno, di conseguenza,
un'adeguata organizzazione della classe operaia.
I teorici del
marxismo usano questo termine per indicare un atteggiamento molto generale
sviluppato intorno alle tesi della priorità della materia sul pensiero.
Contrariamente all'idealismo, che privilegia
il soggetto conoscente sull'oggetto conosciuto o, come anche si suol dire, il
pensiero sull'essere, o la coscienza sul reale, presuppone che la realtà
materiale venga prima di ogni conoscenza e sia, in sostanza, indipendente da
questa.
La scelta di questa posizione, compiuta da Marx fin dal tempo delle sue prime
opere, non ha un significato puramente filosofico: essa costituisce la premessa
indispensabile per un'indagine sulla realtà che solo a questo patto può
ricollegare le idee degli uomini con le loro attività pratiche; solo un
atteggiamento materialistico poteva infatti permettere il passaggio da una
critica ancora «filosofica» dalla filosofia idealistica di Hegel a una critica
dell'ideologia in generale, in quanto
mistificazione di fatti reali, cioè di fatti socio-economici relativi alla
produzione materiale (Struttura).
L'adesione di Marx e di Engels a questo modo generale di concepire il rapporto
tra pensiero ed essere non vuol dire adesione a questa o a quella forma di
materialismo puramente filosofico; filosofi materialisti non erano mancati
nella storia, ma non si trattava di riprendere le loro particolari riflessioni,
bensì di dare al pensiero un termine di confronto nella realtà e di
considerarlo come un fatto che accade nel mondo, non sopra di esso. Le idee, in
altre parole, dovevano essere spiegate a partire dalla «prassi materiale» e non
questa da quelle. Del resto proprio un fatto molto pratico com'era quello della
separazione del lavoro materiale da quello intellettuale aveva permesso che le
idee acquistassero la loro autonomia dal terreno reale nel quale erano
cresciute.
Il materialismo appare perciò a Marx come l'unica prospettiva nella quale sia
possibile comprendere che la soluzione delle «opposizioni teoretiche» - cioè le
contraddizioni - passate dalla realtà nel pensiero, non è soltanto «un compito
della conoscenza» ma un «compito reale della vita» che la filosofia non
poteva risolvere nonostante i grandiosi sforzi compiuti. Esattamente a questo
si riferiva Engels quando, non senza orgoglio, dichiarava che il proletariato
era l'erede della filosofia classica tedesca, colui che avrebbe risolto i
problemi nei quali essa si era dibattuta mutando la realtà che li aveva
prodotti.
Il materialismo filosofico, di cui Marx traccia una breve storia ne La Sacra
famiglia, è stato per lungo tempo un indirizzo di pensiero molto spesso
progressista sia per il suo legame con le scienze della natura (Scienza) che ne facevano un duro critico delle
varie forme di irrazionalismo, sia per la considerazione della vita materiale
degli individui che altre correnti filosofiche escludevano dai propri
interessi. Ciò non vuol dire che sia stato sempre e in ogni caso
all'avanguardia contro un idealismo sempre e comunque conservatore; anche in
questa grande corrente di pensiero non sono certo mancati i filosofi che hanno
svolto un efficace ruolo progressivo, specialmente nel sostenere il diritto
della ragione contro chi tendeva a limitarlo.
E' ben nota, a questo proposito, la critica di Marx e di Engels al materialismo
volgare e meccanicistico (Meccanicismo)
che è in sostanza una critica al modo unilaterale e puramente filosofico, né
storico, né dialettico, di giudicare le cose sia pure da un punto di vista
materialistico. Così Feuerbach, per esempio, non collegò mai il momento storico
con quello teorico: fino a che egli è materialista «per lui la storia non
appare, e fin che prende in considerazione la storia, non è un materialista»;
di conseguenza per lui materialismo e storia «sono del tutto divergenti».
Così, per Engels, «i volgarizzatori ambulanti che smerciavano il materialismo
in Germania tra il '50 e il '60» non riuscirono mai ad andare più in là dei
materialisti del secolo precedente, incapaci cioè di «concepire il mondo come
un processo, come una sostanza soggetta a un'evoluzione storica»; con la
differenza che quello che era stato avanzato e progressivo un secolo prima
diventava antiquato e conservatore nel secolo seguente.
L'opposizione di Marx e di Engels a questo materialismo aveva la sua ragion
d'essere nel fatto che, proprio per non essere né storico né dialettico, si
riproponeva non come il corretto punto di partenza per l'analisi della realtà
ma di nuovo come una filosofia, vale a dire come un'attività puramente teorica.
Al contrario «per il materialista pratico, cioè per il comunista, si
tratta di rivoluzionare il mondo esistente, di mettere mano allo stato di cose
incontrato e di trasformarlo».
La concezione materialistica della realtà, che comprende ovviamente anche la
natura, non può essere ridotta a una specie di privilegio concesso agli oggetti
materiali, alle «cose» nel senso stretto del termine, trascurando le loro relazioni
e le loro attività, cioè i «fatti».
E' la
concezione materialistica della realtà propria del marxismo. L'aggettivo
dialettico vuole infatti indicare le differenze con il materialismo
meccanicistico (Meccanicismo) e il materialismo
metafisico che tende a descrivere la mobilità del reale usando schemi
rigidi e perciò astratti.
Alla base del materialismo dialettico sta il problema dei rapporti tra pensiero
e realtà, ossia la tradizionale domanda sui modi e sui limiti della conoscenza
umana:
«Quale relazione passa tra le nostre
idee sul mondo che ci circonda e questo mondo stesso? è in grado il nostro
pensiero di conoscere il mondo reale; possiamo noi nelle nostre rappresentazioni
e nei nostri concetti del mondo reale avere un'immagine fedele della realtà?» (Engels, Ludwig
Feuerbach, p. 26).
La risposta dell'idealismo a questa
domanda è che il pensiero può cogliere gli elementi ideali presenti nelle cose;
la risposta del materialismo è che il
pensiero si trova di fronte a un universo di cose preesistenti ed estranee con
le quali deve commisurarsi. Lo stesso problema si pone quando si considera
quella parte della realtà che è la natura, nel senso più ampio del termine, e
il pensiero che procede a conoscerla nella forma propria delle scienze
naturali; nota Engels in proposito che se si guarda al pensiero come a un
elemento rigidamente e da sempre contrapposto alla natura, come faceva il
vecchio materialismo metafisico, deve apparire sommamente strano che «coscienza
e natura, pensiero ed essere, leggi del pensiero e leggi della natura» riescano
a coincidere in non pochi punti; se però ci si chiede
«che cosa siano allora pensiero ed
essere, e da dove essi traggano origine, si trova che essi sono prodotti del
cervello umano e che l'uomo stesso è un prodotto della natura che si è
sviluppato col e nel suo ambiente; da ciò si intende allora senz'altro che i
prodotti del cervello umano, i quali in ultima analisi sono anch'essi prodotti
naturali, non contraddicono il restante nesso della natura, ma invece vi
corrispondono» (Antidiihring, p. 45).
Engels riprende qui in una prospettiva particolare quello che Marx diceva, tra
l'altro, nella seconda Tesi su Feuerbach e cioè che la verità, il potere
del pensiero di appropriarsi correttamente del reale, andavano verificati
nell'attività pratica; le scienze naturali sono infatti uno dei luoghi in cui
il pensiero, la produzione teorica ordinata in conoscenza scientifica, si
confronta costantemente con la realtà della natura. «L'esperimento e
l'industria» sono, secondo Engels, i momenti pratici in cui le scienze trovano
conferma o smentita alle loro ipotesi.
E' delineato così uno dei punti e degli scopi essenziali del materialismo
dialettico: dare una risposta al problema della conoscenza in modo tale che
l'intero edificio teorico del marxismo non possa essere rifiutato semplicemente
negando la possibilità o la dimostrabilità di una conoscenza corrispondente
alla realtà. Tuttavia lo sviluppo stesso delle scienze dimostra che la
conoscenza dei fenomeni studiati è in ogni momento della storia imperfetta,
lacunosa e alle volte persino assai vaga; di questo fatto, notava Engels, non
abbiamo alcun motivo di spaventarci; anche se il livello di conoscenza al quale
si è arrivati è tanto poco definitivo quanto i precedenti, esso è già
sufficientemente avanzato per far capire che si è di fronte a un processo di
approssimazione, non sempre lineare e continuo, e che parlare in questo caso di
verità eterne e immutabili non è scienza ma metafisica. Perciò Engels,
contrariamente ai vecchi materialisti, si rifiutava di dare qualsiasi
definizione di materia lasciando che essa fosse «quella di cui parlano gli
scienziati», soggetta dunque al procedere della conoscenza scientifica; di più,
a ogni risultato di questa che facesse «epoca», il materialismo avrebbe dovuto
rivedere la propria configurazione, fedele alla regola che
«i principi non sono il punto di
partenza dell'indagine, ma invece il suo risultato finale; non vengono
applicati alla natura e alla storia dell'uomo, ma invece vengono astratti da
esse; non già la natura e il regno dell'uomo si conformano ai principi, ma i
principi, in tanto sono giusti, in quanto si accordano con la natura e con la
storia» (ivi, p. 44).
Emerge così un altro punto essenziale del materialismo dialettico: esso è «una
semplice concezione del mondo che non ha da trovare la sua riprova e la sua
conferma in una scienza delle scienze per se stante, ma nelle scienze reali».
Appare in tal modo evidente che questo orientamento materialistico che
riconosce la dialetticità del pensiero e del reale pone a suo presupposto il
carattere approssimativo e storicamente condizionato della conoscenza; essa non
è una pura costruzione del pensiero la cui corrispondenza alla realtà non è
dimostrabile, come vorrebbe il relativismo, né un itinerario tra verità
assolute e definitive, come vorrebbe il dogmatismo;
la conoscenza è invece un difficile processo di avvicinamento al reale, un
seguito di tentativi, cambiamenti e contraddizioni, che procedono dai livelli
teorici più semplici a quelli più complessi confrontando nella prassi la loro validità.
E'
l'interpretazione della storia fondata sull'analisi del modo di produzione
dominante in una determinata società. La concezione materialistica della storia
ritiene infatti che elementi caratteristici di ogni periodo storico siano il
livello di sviluppo delle forze produttive
e i rapporti di produzione entro
cui gli uomini si trovano nello svolgere la loro attività lavorativa. Il
termine «materialismo» indica, appunto, che si considerano essenziali le
componenti materiali della società. Il materialismo storico mette al centro
dell'analisi storica l'uomo e la sua attività lavorativa, inserito nel quadro
dei rapporti sociali, politici e intellettuali in cui vive.
Secondo il materialismo storico, in relazione al posto che occupano nei
rapporti di produzione, gli uomini si dividono in due grandi classi: coloro che
detengono il possesso dei mezzi di produzione e coloro che ne sono privi e che
posseggono esclusivamente la loro forza-lavoro. Lo sviluppo della storia è
determinato dall'antagonismo, dalla lotta, tra queste grandi classi. Infatti il
carattere sociale della produzione, cioè il fatto che il prodotto del lavoro
sia opera di molti uomini e sia destinato a molti uomini, è in contraddizione
con la proprietà privata dei mezzi di produzione, cioè con il fatto che pochi
detentori di macchine e capitale siano coloro che maggiormente beneficiano
dell'attività produttiva. Quindi una classe lotta per il mantenimento della
proprietà dei mezzi di produzione e l'altra per l'abolizione della proprietà
privata dei mezzi di produzione.
Fondamentale è, secondo il materialismo storico, il carattere transitorio di
ogni forma di società corrispondente a un determinato modo di produzione.
Infatti lo sviluppo delle forze produttive, in determinate condizioni, entra in
contraddizione con i rapporti di produzione; viene cioè impedito dall'insieme
dei rapporti sociali, politici e istituzionali (ad es. giuridici) ogni
ulteriore sviluppo delle forze materiali che costituiscono il fondamento su cui
si regge l'intera formazione sociale. Lo sviluppo delle forze produttive può
dunque avvenire soltanto a condizione che i vecchi e ormai inadeguati rapporti
di produzione e l'intera società che su di essi si fonda vengano sostituiti da
nuovi che lo consentano. Così, per esempio, i rapporti di produzione feudale e
l'intera società che ad essi corrispondeva furono sostituiti dai rapporti di
produzione capitalistici e della nuova società borghese quando le enormi forze
produttive sprigionatesi dall'inizio della rivoluzione industriale,
dall'invenzione delle macchine, dalla formazione delle prime industrie moderne,
furono impedite nel loro sviluppo dalla società feudale nel suo complesso.
Secondo il materialismo storico la società capitalistica è contraddistinta dal
fatto che il proletariato industriale moderno, che insieme alla borghesia è la
classe principale di questa società, è portatore dell'esigenza di una società
senza classi, in cui la proprietà dei mezzi di produzione sia comune.
segue M