a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare di Torino
Dizionario
enciclopedico marxista
Premessa A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z
F
Falsa coscienza, Famiglia, Fascismo, Feticismo delle merci, Feudalesimo, Filosofia, Filosofia della prassi, Fisiocrazia, Formazione economico sociale, Forza-lavoro, Forze produttive, Frazione, Frazionismo, Fronte, Fronte nazionale, Fronte popolare, Fronte unico, Fronte unito, Frontismo,
E' una forma
di coscienza inconsapevole dei propri limiti storici e della complessità dei
propri rapporti con altri fattori che influenzano i suoi modi di essere. Non è
dunque né critica né dialettica laddove sarebbe necessario esserlo; è una
coscienza frammentaria e unilaterale che non sapendo della sua frammentarietà e
della sua unilateralità si considera corretta; in breve è una comprensione
distorta della realtà e si riallaccia in questo modo al concetto
marx-engelsiano di ideologia.
Scriveva Engels in una lettera del 1893 a Franz Mehring:
«L'ideologia è un processo che il
cosiddetto pensatore compie senza dubbio con coscienza, ma con una coscienza
falsa. Le vere forze motrici che lo spingono gli restano sconosciute,
altrimenti non si tratterebbe più di un processo ideologico. Così egli si
immagina delle forze motrici apparenti o false. Trattandosi di un processo
intellettuale, egli ne deduce il contenuto, come la forma, dal puro pensiero,
sia dal suo proprio pensiero che da quello dei suoi predecessori. Egli lavora
con la sola documentazione intellettuale che egli prende, senza guardarla da
vicino, come emanante dal pensiero, e senza studiarla in un processo più
lontano, indipendente dal pensiero; e tutto ciò è per lui identico all'evidenza
stessa, perché ogni azione, in quanto trasmessa dal pensiero, gli appare così
in ultima istanza fondata sul pensiero» (in Marx, Engels, Scritti
sull'arte, p. 73).
Il rapporto tra falsa coscienza e ideologia, che Marx e Engels
considerarono sempre strettissimo fino a usare talvolta i due termini come
sinonimi, è stato inteso anche come rapporto tra un generico atteggiamento
mentale (falsa coscienza) e la sistematizzazione teorica dei suoi contenuti
(ideologia); in questo senso la falsa coscienza sarebbe il momento precedente
l'ideologia propriamente detta che darebbe un'apparenza razionale a quanto era
già confusamente presentito.
Secondo la
concezione materialistica della storia (Materialismo
storico), i rapporti capitalistici di produzione condizionano profondamente
le istituzioni e in modo particolare la famiglia. La critica condotta dal
marxismo al modo di produzione capitalistico coinvolge direttamente la
famiglia, così come essa si presenta nella società borghese:
«La moderna famiglia singola è fondata
sulla schiavitù domestica della donna, aperta o mascherata, e la società
moderna è una massa composta nella sua struttura molecolare da un complesso di
famiglie singole. Al giorno d'oggi l'uomo, nella grande maggioranza dei casi,
deve essere colui che guadagna, che alimenta la famiglia, per lo meno nelle
classi abbienti; il che gli dà una posizione di comando che non ha bisogno di
alcun privilegio giuridico straordinario. Nella famiglia egli è il borghese, la
donna rappresenta il proletario» (Engels, L'origine della famiglia della
proprietà privata e dello Stato, p. 101).
Tuttavia se la critica della famiglia borghese è l'aspetto più
conosciuto dell'analisi marxista della famiglia, esso non può essere compreso
se non viene inserito nel quadro più generale dello studio, condotto dai
fondatori del materialismo storico, e in particolare da Engels, sui rapporti
che intercorrono, all'interno delle diverse epoche storiche, tra modo di
produzione e istituzioni sociali. In particolare la famiglia deve essere
considerata, nel suo sviluppo storico, da un lato come il risultato di una
delle prime e più semplici divisioni naturali del lavoro
tra uomo e donna all'interno delle società primitive, e dall'altro come uno
stimolo a un ulteriore sviluppo della produttività del lavoro.
Lo sviluppo della proprietà privata e dello scambio hanno fatto sì che la
famiglia, da semplice rapporto di riproduzione dell'umanità, divenisse sempre
più un rapporto sociale, in cui uomo e donna intervengono solo in quanto
partecipano, in diversa misura, alla produzione di mezzi di sussistenza. La
famiglia è sorta, dunque, in stretto rapporto con il processo di divisione in classi della società e ha risentito, nel corso
della storia, dell'approfondirsi e dell'estendersi della divisione del lavoro.
Il modo di produzione capitalistico ha portato alle estreme conseguenze la
frattura tra ciò che è «naturale», cioè il rapporto tra uomo e donna, e ciò che
sono uomo e donna in quanto inseriti nei rapporti di produzione capitalistici,
innescando quello che Marx chiama il processo di dissoluzione della famiglia
borghese.
La crisi della famiglia borghese, nei suoi diversi aspetti, da quello morale (Etica) a quelli più strettamente connessi con le
contraddizioni sociali e con le condizioni di vita dei lavoratori, si inserisce
secondo il marxismo nel più generale processo di disgregazione dei rapporti
umani (Alienazione), che è caratteristico
della società borghese. Nell' analizzare i fenomeni collegati con la nascita
della grande industria, che comportò l'inserimento, spesso coatto, delle donne
e dei bambini nel processo produttivo, Marx afferma:
«... per quanto terribile e repellente
appaia la dissoluzione della vecchia famiglia entro il sistema capitalistico,
cionondimeno la grande industria crea il nuovo fondamento economico per una
forma superiore della famiglia e del rapporto fra i due sessi, con la parte
decisiva che essa assegna alle donne, agli adolescenti e ai bambini d'ambo i
sessi nei processi di produzione socialmente organizzati al di là della sfera
domestica... E' altrettanto evidente che la composizione del personale operaio
combinato con individui d'ambo i sessi e delle età più differenti, benché nella
sua forma spontanea e brutale cioè capitalistica, dove l'operaio esiste in
funzione del processo di produzione e non il processo di produzione per l'operaio,
che è pestifera fonte di corruzione e schiavitù, non potrà viceversa non
rovesciarsi, in circostanze corrispondenti, in fonte di sviluppo di qualità
umane» (Il Capitale, libro I, pp. 536-537).
Infatti la critica delle istituzioni sociali borghesi, e in particolare
della famiglia, nel marxismo non è fine a se stessa, ma si pone nella
prospettiva di un superamento delle condizioni materiali che fanno della
famiglia borghese un'istituzione oppressiva, in cui si riproducono, in forma
mistificata, i rapporti capitalistici di produzione. La nuova funzione sociale
svolta dalla donna nel capitalismo ha inoltre posto le premesse per il sorgere
di un movimento di liberazione (Questione
femminile), che affronta non soltanto i problemi generati dalla posizione
occupata dalla donna nell'organizzazione capitalistica della produzione, ma
anche i problemi creati dalla famiglia e in generale dal rapporto uomo-donna.
Le origini e
la natura del fascismo, inteso come movimento politico e forma di
organizzazione dello Stato, sono state oggetto di svariate e opposte analisi.
le sue diverse interpretazioni, da quella liberale classica fino a quelle di
tipo socialdemocratico, operano di esso una generalizzazione di alcuni elementi
politico-sociali o di dati momenti storici, perdendo però il quadro complessivo
del fenomeno e soprattutto i suoi presupposti reali di classe e strutturali (Struttura e sovrastruttura).
Così di volta in volta il fascismo viene visto come fenomeno di paesi
economicamente e socialmente arretrati, come fenomeno «totalitario», come
espressione politica del ceto medio o dei settori parassitari e arretrati della
borghesia. Di esso si attribuisce la responsabilità alla piccola borghesia in
crisi o, peggio, agli strati sociali sbandati dalla guerra, vedendolo cioè più
come un prodotto dell'esasperazione soggettiva dei ceti colpiti dalla crisi che
come una tendenza storica del capitalismo a un determinato stadio del suo
sviluppo.
L'interpretazione marxista supera queste tesi riduttive e unilaterali e
individua le radici del fascismo nella crisi dello Stato liberale e della democrazia borghese nella situazione
posteriore alla prima guerra mondiale, individuando cioè il legame storico del
fascismo con le lacerazioni del quadro capitalistico e imperialistico. Esso
testimonia l'impossibilità da parte della grande borghesia monopolistica di
mantenere il proprio dominio economico e politico se non attraverso una
profonda modificazione delle forme statali del dominio di classe, attraverso
cioè la soppressione stessa della democrazia borghese e delle forme politico-istituzionali
ad essa collegate (parlamento, partiti, sindacati, fino alle strutture
associative e culturali proprie dello Stato liberale e all'abolizione totale
delle libertà democratiche e di ogni forma di organizzazione autonoma delle
masse).
L'analisi dell'intreccio di questi processi, da parte dei comunisti, portò
Dimitrov, nel suo rapporto al VII Congresso dell'Internazionale Comunista (Internazionale) nel 1935, ad affermare:
«Il fascismo non è una forma di potere
statale che sia "al di sopra di tutte e due le classi, del proletariato e
della borghesia", ... il fascismo è il potere dello stesso capitale
finanziario... non è l'ordinaria sostituzione di un governo borghese con
un altro, ma è il cambiamento di una forma statale del dominio di classe
della borghesia la democrazia borghese con un'altra sua forma, con la dittatura
terroristica aperta» (Dimitrov, Rapporto al VII Congresso, in AA.VV., L'Internazionale
e il fascismo, pp. 49-50).
Egli sintetizzò le caratteristiche fondamentali del fascismo nella
celebre definizione di «dittatura terroristica aperta degli elementi più
reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario». Il
fascismo è quindi una forma specifica, particolare, della reazione
capitalistica alle lotte proletarie e la spiegazione che ne dà il marxismo
sottolinea la convergenza nazionalistica e antisocialista della piccola
borghesia con l'orientamento del grande capitale nella crisi imperialistica
post-bellica.
Per la definizione del fascismo quindi due sono gli elementi essenziali: il
fatto che esso si realizza come dittatura della borghesia monopolistica da una
parte e come movimento degli strati piccolo borghesi dall'altra. La loro unità
e la loro compresenza nel processo storico reale possono essere comprese solo
se si indica nel primo la fondamentale natura di classe, su cui fondare
l'analisi del secondo come strumento di reclutamento.
Così la mobilitazione della piccola borghesia cittadina e rurale diventava
proprio lo strumento attraverso il quale la borghesia poteva governare con
metodi diversi da quelli democratici. In particolare in Italia, dove la
borghesia non aveva mai avuto una forte organizzazione politica unificata, il
partito fascista acquista le caratteristiche di organizzazione di tipo nuovo,
adatta al tempo stesso a esercitare la dittatura sulle classi lavoratrici e a
crearsi una forte base di manovra tra i ceti medi impoveriti dalla crisi, e in certi
casi, come avvenne per esempio in Germania, anche in alcuni strati più
arretrati della classe operaia. Così il fascismo, espressione dei gruppi
dirigenti della borghesia e degli agrari e proprietari fondiari, socialmente
seppe apparire, all'inizio, come il rappresentante della lotta politica di
parte della piccola e media borghesia contro le antiche classi dirigenti
liberali. A questo proposito scriveva Togliatti:
«All'origine, la base sociale del
fascismo era in certi strati della piccola borghesia rurale e contadina. In
termini più precisi era costituita nelle campagne al massimo da contadini medi,
da fattori e da mezzadri ... Anche nelle città il fascismo si appoggiò dapprima
sui piccoli borghesi: erano in parte lavoratori (artigiani), specialisti e
commercianti in parte anche elementi spostati per colpa della guerra... Se si
considera da qual lato si portassero le aspirazioni di questi ambienti sociali
si vedrà che alcuni erano trascinati dai loro interessi alla lotta antioperaia;
esisteva invece in altri una base obiettiva e anche l'inizio di una tendenza
anticapitalistica. E' già stato constatato altrove che storicamente i gruppi
sociali intermedi possono talora allearsi alla borghesia, talora, e in presenza
di circostanze ben precise, coalizzarsi con il proletariato» (A proposito
del fascismo, in Opere II, p. 21).
In seguito, col trasformarsi del fascismo da movimento politico in
regime, esso tese a perdere il carattere di movimento autonomo di certi strati
sociali intermedi e si saldò strettamente, con la sua stessa organizzazione,
alla struttura economica e politica delle classi dirigenti, come strumento di
reazione e repressione, ma anche come centro di unità politica delle classi al
potere: capitale finanziario,
grande industria, agrari. Se politicamente ciò significò una trasformazione
reazionaria di tutta la vita del paese e l'oppressione feroce della classe
operaia e dei lavoratori in generale, nel campo economico il fascismo diventò
strumento di accentramento e di controllo di tutte le ricchezze nelle mani del
capitalismo. Così Togliatti ne coglie le caratteristiche essenziali:
«penetrazione del capitale finanziario
in tutta la vita economica del paese per tentar di ridurre le contraddizioni
interne che facevano ostacolo ad una rapida stabilizzazione; diminuzione feroce
dei salari; sfruttamento odioso dei consumatori; tassazione inaudita dei
produttori piccolo-borghesi» (ivi, p. 18).
Non potendo qui per brevità riassumere tutte le caratteristiche del
fascismo come fenomeno non solo italiano, ma europeo e mondiale, e soprattutto
indicarne le complessità dei rapporti politici e fra le classi e sul piano
culturale, tuttavia è imprescindibile mostrarne almeno i riflessi in politica
estera.
La definizione del fascismo come «dittatura terroristica» portò immediatamente
i comunisti a denunciare la minaccia che esso rappresentava per la pace. Così
l'abolizione del parlamentarismo e della democrazia borghese, se in politica
interna erano il prodotto della lotta contro la classe operaia, in politica
estera significavano un «indiscriminato sciovinismo» e la guerra come soluzione
inevitabile della corsa alla spartizione imperialistica del mondo.
Coronamento di tutta la propaganda
ideologica, dell'azione politica ed economica del fascismo è la tendenza di
esso all'"imperialismo". Questa tendenza è l'espressione del bisogno
sentito dalle classi dirigenti industriali-agrarie italiane di trovare fuori
del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società
italiana. Sono in essa i germi di una guerra che verrà combattuta, in
apparenza, per l'espansione italiana, ma nella quale in realtà l'Italia
fascista sarà uno strumento nelle mani di uno dei gruppi imperialisti che si
contendono il dominio del mondo» (Gramsci, Tesi di Lione, p. 30).
Queste osservazioni a proposito dell'Italia possono senz'altro essere
estese alle diverse forme del fascismo europeo. Si poneva quindi alla
Internazionale Comunista e ai partiti comunisti europei l'esigenza di
comprendere che, se il fascismo nasceva e si sviluppava dal seno stesso della
democrazia borghese, pure la difesa di essa contro la dittatura, si presentava
come imprescindibile e anzi come lo strumento necessario per legare al
proletariato il ceto medio e contadino, dapprima illuso dal fascismo, ma presto
gettato dal capitalismo in condizioni simili a quelle della classe operaia.
In particolare nel VII Congresso dell'Internazionale Comunista, nel 1935, venne
individuato il carattere instabile del fascismo e il fatto che esso portasse
con sé forti elementi di decomposizione e dissoluzione politica. La parola
d'ordine del «Fronte popolare
antifascista contro la dittatura e la guerra», indicò nella politica di unità
della classe operaia con tutti gli strati sociali avversi al fascismo e
all'imperialismo, le basi di quell'azione unitaria che nei fronti nazionali avrebbe portato alla
vittoria sul nazifascismo.
(Merce)
Sistema
politico-sociale-economico tipico del Medioevo, fondato su rapporti
interpersonali tra il proprietario terriero e la classe lavoratrice in una
forma di economia chiusa, basata sull'autoconsumo. Storicamente decaduto con la
nascita degli stati nazionali, lasciò tuttavia alcuni ordinamenti tipici che
restarono in uso fino alla rivoluzione francese e addirittura all'Ottocento.
Il feudalesimo è contraddistinto dalla presenza di un piccolo numero di grandi
proprietari possessori delle terre, dei mezzi di produzione e, parzialmente,
degli uomini addetti alla produzione.
Il livello di sviluppo delle forze produttive era caratterizzato essenzialmente
dalla capacità di fondere e lavorare il ferro e dallo sviluppo dell'agricoltura
e dell'orticoltura.
L'organizzazione statale, la cui forma caratteristica fu il Sacro Romano
Impero, era caratterizzata dal dominio congiunto della Chiesa e dei grandi
proprietari feudali e si ramificava attraverso l'apparato burocratico
gerarchico del vassallaggio.
La dissoluzione del feudalesimo è avvenuta con lo sfasciarsi del Sacro Romano
Impero e soprattutto col processo di sviluppo dell'artigianato, del commercio e
della navigazione. Ma il fattore determinante è stato l'inizio dell'accumulazione originaria.
L'ulteriore sviluppo della produzione artigianale da un lato e dall'altro, il
processo di accumulazione di tipo usuraio del danaro, nonché l'accentramento
dei profitti del commercio, determinarono le condizioni per la nascita di una
nuova classe sociale, la borghesia, che deteneva il possesso di gran parte del
capitale commerciale, del danaro circolante.
L'esigenza di accumulare questo danaro ulteriormente spinse la nuova classe a
contrastare i rapporti di produzione feudali e a dare inizio allo sfruttamento
del lavoro salariato. Il danaro e la proprietà terriera infatti, per poter
essere trasformati in capitale, necessitano della presenza di una massa di
lavoratori liberi da rapporti di produzione feudali (Plusvalore).
La formazione di questa massa di «proletari» fu una conseguenza del processo di
dissoluzione complessivo della società feudale, in quanto i piccoli e i
piccolissimi proprietari terrieri si trovarono impossibilitati a provvedere
alla propria sussistenza a causa delle leggi sulle recinzioni e delle
espropriazioni dei grandi feudi.
La privazione dei diritti di possesso comune delle terre e del legname spingeva
la massa lavoratrice verso la città, dove era costretta a vendere la propria
forza-lavoro.
Infine si ricorda che, mentre il passaggio dal feudalesimo al capitalismo fu di
tipo economico-espansivo, quello dal capitalismo al socialismo è di tipo
politico.
Il termine
indica, al di là delle infinite variazioni possibili, l'insieme delle
riflessioni di tipo razionale svolte nel corso della storia su una serie di
problemi, presunti o reali, posti nelle più diverse circostanze.
Nell'ambito della filosofia è stata così trattata una lunga serie di problemi:
tra essi, quello della conoscenza (gnoseologia), cioè l'indagine sui limiti e
sulla qualità dei modi con cui l'uomo conosce il mondo e lo interpreta; il
problema etico-politico, che ricerca la distinzione tra ciò che è bene e ciò
che è male nell'agire personale e nei rapporti interpersonali, includendo in
questi ultimi anche il problema dello Stato (autorità, struttura, leggi); il
problema metafisico, che include in sé quello ontologico, riguardante la natura
degli aspetti immateriali delle cose e delle relazioni tra esse.
Il punto di vista del marxismo sulla filosofia e sui suoi problemi è connesso
strettamente al complesso delle questioni generali del materialismo storico e del materialismo dialettico, giacché è
proprio partendo da un terreno filosofico, cioè il superamento critico della
filosofia classica tedesca e in particolare dell'idealismo hegeliano, che Marx
ed Engels giunsero a delineare la propria concezione.
Affrontare quindi il problema della filosofia nel marxismo significa proprio
rimandare ai suoi fondamenti, sia da un punto di vista storico, sia ai fini di
una comprensione unitaria dei suoi diversi aspetti. Per il marxismo, se una
concezione filosofica si forma e si sviluppa sui risultati di tutto il pensiero
filosofico anteriore e subisce inoltre l'influenza della situazione culturale e
scientifica in cui si situa, essa al con tempo non può essere compresa se non
come espressione razionale di una determinata epoca e classe, di cui anzi
rappresenta, rispetto ad altri settori della cultura, il lato più consapevole e
critico. L'indagine filosofica non è quindi una esercitazione arbitraria di
principi staccati dal mondo, ma al contrario costituisce l'espressione più
raffinata attraverso cui l'ideologia
maschera le contraddizioni sociali reali.
Su questa base il marxismo indica nella filosofia la presenza di una istanza
sociale e morale, che in ultima analisi testimonia la politicità (la
«partiticità» come dice Lenin) del confronto e dello scontro tra le diverse
dottrine filosofiche, sia nel loro rapporto con la società in generale, sia
nella loro dialettica interna, dove in
particolare l'alternativa tra le concezioni materialistiche e quelle
idealistiche ne appare come l'antagonismo direttivo. Alla luce di queste
considerazioni possiamo comprendere il significato dell'affermazione di Engels
secondo cui «il movimento operaio tedesco è l'erede della filosofia classica
tedesca».
Con ciò si intende che il proletariato è l'unica forza capace di risolvere
praticamente quelle contraddizioni che in filosofia, apparendo in forma teorica
mistificata, non potevano essere superate. In altre parole viene tradotto nella
realtà sociale e anzi nella prefigurazione
di una nuova società, quella comunista, ciò che nella filosofia si presentava
in una veste ideologica. La filosofia viene dunque negata, ma nel senso che il
suo superamento è proprio la sua realizzazione (Dialettica),
cioè la realizzazione del rovesciamento pratico di ciò che teoricamente nella
filosofia appariva mistificato: la società divisa in classi. La frase di Marx
«i filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di
trasformarlo» significa proprio questo: unità tra l'interpretazione e la
conoscenza del mondo e la sua trasformazione, unità tra teoria e pratica (Prassi o pratica). E ciò nel duplice senso
che da una parte si giunge al movimento rivoluzionario, come ciò che determina
il cammino del mondo e dall'altra alla liberazione dalle gabbie della
metafisica di ciò che permette ad esso di procedere: una concezione scientifica
sia del mondo umano che di quello naturale.
Ciò del resto rappresenta proprio il percorso teorico di Marx ed Engels:
dall'esame critico dell'idealismo hegeliano e del materialismo ingenuo di
Feuerbach al loro superamento nella critica dell'economia politica e nella fondazione di
una teoria delle classi e della rivoluzione.
Comprendere il valore filosofico del marxismo allora significa vedere nella
filosofia non più una metafisica coincidente con tutto l'ambito del sapere, una
scienza delle scienze. Storicamente dalla filosofia si sono venute staccando,
rendendosi autonome, per metodo e per oggetto di indagine, le varie discipline
scientifiche. Il campo della filosofia si è così ristretto a vantaggio delle
scienze positive. E' quello che intende Engels quando afferma:
«Da ogni parte ormai non si tratta più
di escogitare dei nessi nel pensiero, ma di scoprirli nei fatti. Alla
filosofia, cacciata dalla natura e dalla storia, rimane soltanto il regno del
pensiero puro, nella misura in cui esso continua a sussistere: la dottrina
delle leggi del processo del pensiero: la logica e la dialettica» (Engels, Ludwig
Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, pp.
76-77).
La filosofia cioè non viene intesa come una costruzione che pretende di
dare un quadro completo e definitivo della natura e del mondo; non è un sistema
arbitrario di leggi.
«Insomma non è più una filosofia, ma
una semplice concezione del mondo che non ha da trovare la sua riprova e la sua
conferma in una scienza della scienza per sé stante, ma nelle scienze reali. La
filosofia dunque è qui "superata", cioè "insieme sorpassata e
mantenuta", sorpassata quanto alla sua forma, mantenuta quanto al suo
contenuto reale» (Engels, Antidühring, p. 147).
E' questo il significato della «fine della filosofia» affermata da Marx
ed Engels. Fine di una forma storica della filosofia e rifondazione di essa
come concezione unitaria del mondo naturale e umano, a partire dalla
definizione materialistica del rapporto uomo-natura e dalla concezione
dialettica dei processi di conoscenza della natura e delle forme di intervento
su di essa. Di qui la nozione di materialismo
dialettico, come istanza critica che si radica nelle scienze, di cui coglie
il carattere unitario, dando una dimensione storica al loro sviluppo, ponendole
in collegamento con le altre manifestazioni teoriche e soprattutto liberando le
loro metodologie da ogni contaminazione idealistica, che nega le condizioni e i
presupposti necessari alla loro stessa esistenza. Una concezione del mondo
veramente unitaria (Monismo), cioè che sappia
allora risolvere, almeno tendenzialmente, la frattura tra «scienze umane» e
«scienze della natura» e che, in prospettiva, si ponga come nucleo dinamico di
una cultura in cui il sapere scientifico si medi con la conoscenza e il
linguaggio comuni. Definendo i caratteri di quella «filosofia spontanea» del
senso comune, per cui «tutti gli uomini sono filosofi», Gramsci poneva così la
questione:
«Avendo dimostrato che tutti sono
filosofi, sia pure a modo loro, inconsapevolmente, perché anche solo nella
minima manifestazione di una qualsiasi attività intellettuale, il
"linguaggio", è contenuta una determinata concezione del mondo... è preferibile
"pensare" senza averne consapevolezza critica... cioè
"partecipare" a una concezione del mondo "imposta"
meccanicamente dall'ambiente esterno, e cioè da uno dei tanti gruppi sociali
nei quali ognuno è automaticamente coinvolto fin dalla sua entrata nel mondo
cosciente... o è preferibile elaborare la propria concezione del mondo
consapevolmente e criticamente... scegliere la propria sfera di attività,
partecipare attivamente alla produzione della storia del mondo» (Quaderni
del Carcere, pp. 1375-1376).
Il marxismo pone le premesse per una concezione del mondo che assicuri
da un lato lo sviluppo della scienza in stretto rapporto con il linguaggio e il
senso comune, ma che dall'altro assicuri che questo si costruisca su di una
base razionale e scientifica, contro le tentazioni dell'arbitrio, delle
credenze e dell'idealismo. In ciò soprattutto sta la necessità di una «filosofia della prassi» come espressione
critica e rivoluzionaria, come strumento per la liberazione degli uomini.
Riferirsi a una concezione del mondo unitaria non vuol dire tuttavia concepire
il marxismo come in sé compiuto, ma anzi necessariamente occorre coglierne il
carattere dinamico, aperto, sia nel senso di un costante riferimento creativo
alla pratica concreta, sia come concezione che accoglie al suo interno i nuovi
risultati delle scienze, ponendoli tra di loro in collegamento. E ciò anche
evidentemente per quanto riguarda la comprensione critica dello sviluppo delle
diverse correnti filosofiche dopo Marx, nell'Ottocento e nel Novecento, a
partire dallo stesso positivismo, sino
agli indirizzi neopositivistici, esistenzialistici e del pragmatismo.
Di essi, senza farne oggetto di un indiscriminato giudizio negativo, occorre
cogliere le rilevanti influenze non solo nella cultura ma nella società in
generale e soprattutto individuare gli orientamenti ideali di un pensiero
borghese che, nelle sue diverse forme, trova nel confronto col marxismo le
ragioni del proprio sviluppo. Non si tratta di operare mediazioni tra
concezioni peraltro inconciliabili, quanto piuttosto di compiere un esame
critico, ai fini di eventuali nuove acquisizioni, specialmente per quanto
riguarda determinati ambiti della ricerca teorica moderna.
E' il termine
con cui Gramsci indicava la dottrina di Marx. Probabilmente Gramsci non usava
il termine «marxismo» per non incorrere nella censura; tuttavia la stessa
scelta di questa parola e l'impostazione che Gramsci diede al suo sforzo per
«liberare» il marxismo dalle interpretazioni errate, che ne impedivano lo
sviluppo, conferiscono un interesse particolare a questo concetto.
Infatti, secondo Gramsci, una delle caratteristiche essenziali della «filosofia
della prassi» è lo sforzo di «unificare il movimento pratico e il pensiero
teorico» in quello che egli definiva uno «storicismo assoluto», cioè in una
concezione che assegnasse alle ideologie un significato determinato in
relazione alla struttura economica; una delle novità più importanti del
marxismo nei confronti delle precedenti filosofie consiste, dunque, secondo
Gramsci, nell'aver instaurato una concezione unitaria in cui «Tutto è politica,
anche la filosofia o le filosofie e la sola "filosofia" è storia in
atto, cioè la vita stessa»
Inoltre «il carattere della filosofia della prassi è specialmente quello di
essere una concezione di massa, una cultura di massa che opera unitariamente
…». Si tratta cioè di un fenomeno nuovo, che fa sì che il marxismo debba
considerarsi come autonomo nei confronti delle filosofie precedenti.
E' la prima
teoria che analizza la produzione capitalistica considerando le leggi proprie
della produzione come date dalle condizioni in cui il capitale viene prodotto e
produce. Il principale esponente della fisiocrazia fu F. Quesnay, che viene
anche considerato il fondatore della scuola chiamata dei «fisiocrati» (o
fisiocratici) che si diffuse particolarmente in Francia nella seconda metà del
'700, La sua opera principale fu il Tableau économique (Quadro
economico).
I fisiocratici attribuivano l'esistenza di valore
e di plusvalore unicamente alla produzione
agricola. L'indagine economica svolta dagli esponenti di questa teoria inizia
dal sistema economico produttivo, immaginandolo autonomo e indipendente dalla circolazione e dallo scambio. Fu una concezione che si contrappose al
sistema monetario e mercantilista, riconoscendo lo scambio non tra uomo e uomo,
ma unicamente tra uomo e natura. L'industria, secondo i fisiocratici, è
considerata unicamente come una parte improduttiva del sistema economico, come
una semplice appendice dell'agricoltura. La condizione originale dello sviluppo
del capitale è la contrapposizione della terra - come condizione originaria ed
autonoma del lavoro, nelle mani di una classe particolare - al lavoro libero.
Anche i fisiocratici più aperti, che rivolsero la loro attenzione alla
circolazione del prodotto divenuto merce (ma solo in quanto espressione di
lavoro in generale), ritennero che il valore assunto fosse importante non per
la sua forma, ma per la sua dimensione, e che il profitto derivante dalla
circolazione dei beni non fosse che un profitto relativo. Secondo Marx i
fisiocratici
«hanno innanzitutto il grande merito di
risalire dal capitale commerciale, che esercita la sua funzione esclusivamente
nella sfera della circolazione, al capitale produttivo, in contrapposizione al
sistema mercantilistico, che col suo grossolano realismo costituisce la vera e
propria economia volgare di quel tempo» (Il Capitale, libro III, p.
895).
Tuttavia essi, individuando nella rendita fondiaria l'unica, o almeno
l'essenziale, fonte del plusvalore e nella produzione agricola non solo il
fondamento dell'economia, ma l'unica attività umana veramente produttiva, non
riuscirono ad analizzare le leggi che, proprio nel periodo di maggiore
diffusione delle loro teorie, iniziavano a caratterizzare lo sviluppo del modo
di produzione capitalistico (Accumulazione
originaria). La sottovalutazione dell'importanza della produzione
industriale moderna e l'incomprensione della natura del capitale industriale
possono, in un certo senso, essere considerati come i limiti fondamentali della
fisiocrazia.
Se i fisiocratici furono, secondo l'espressione di Marx, «di fatto i primi
portavoce sistematici del capitale», la scuola classica dell'economia politica, attribuendo maggiore
importanza alla funzione dell'industria e svolgendo l'analisi del lavoro in
modo più coerente con lo sviluppo effettivo del capitalismo, ne fu la
comprensione, e spesso la giustificazione, teorica.
E' il
complesso dei modi e dei rapporti di produzione, delle corrispondenti forme
giuridiche e politiche, delle ideologie e degli aspetti culturali in genere che
contraddistinguono una società nel suo insieme e nel suo movimento. La nozione
di formazione economico-sociale è tra le più generali - nel senso di
comprendere al proprio interno un gran numero di elementi costitutivi - di
quelle utilizzate da Marx (Totalità). Non è
dunque sinonimo di struttura, di base economica, come venne spesso interpretata
dai teorici della II Internazionale, ma vuole indicare l'intera sfera dei
fenomeni che «marcano» un'epoca storica; con la formazione economico-sociale
contrassegnata dal modo di produzione capitalistico si chiude, secondo Marx,
«la preistoria della società umana».
Il riferimento alla formazione economico-sociale avrebbe dovuto evitare le
superficiali interpretazioni del marxismo in termini di privilegio assoluto per
la base economica. In diverse lettere scritte nei primi anni del 1890, Engels
denunciava che la trascuratezza nei confronti di questa categoria, non solo
economica (Categorie economiche), aveva
portato a sovrasemplificazioni inaccettabili, ad appiattimenti e distorsioni
positivistiche dei reali rapporti esistenti tra i diversi fattori che
costituivano una formazione economico-sociale; Antonio Labriola, nel 1896,
criticava quanti credevano che sarebbe bastato «mettere in evidenza il solo
momento economico» per liberarsi del resto «come inutile fardello, di cui gli
uomini si fossero caricati a capriccio»; Lenin utilizzò in concreto il concetto
di formazione economico-sociale sia nella polemica contro il sociologismo
populistico di Mikhailovskij, sia contro le tendenze di Kautsky a «... eludere
la realtà dell'imperialismo e a evadere nel sogno di un ultraimperialismo che
non si sa se sia realizzabile o no». Nel caso specifico l'errore consisteva nel
privilegiare fuori misura il ruolo delle forze
produttive nel processo rivoluzionario; denunciandolo Lenin ribadiva la
necessità di un riferimento concreto alla totalità espressa dalla formazione
economico-sociale.
E' la merce
il cui valore d'uso ha la proprietà di costituire la fonte di valore di
scambio; ossia è la merce che, una volta
acquistata da chi possiede il denaro necessario per farlo, produce una quantità
di denaro superiore a quella spesa per il suo acquisto. Nella circolazione del denaro, espressa dalla formula D-M-D, si verifica
il fatto che D' è maggiore di D: è quindi aperto il problema sull'origine di
questa differenza, di questo plusvalore,
che non può essere spiegata all'interno del processo di circolazione. Per usare
le parole di Engels:
«il cambiamento del valore del denaro
... non può avvenire nello stesso denaro poiché nell'acquisto esso non fa che
realizzare il prezzo della merce, e d'altra parte, finché esso rimane denaro,
non muta la sua grandezza di valore, e nella vendita ugualmente fa ritornare la
merce soltanto dalla sua forma naturale alla sua forma di denaro. Dunque il
cambiamento deve avvenire nella merce del D-M-D; ma non nel valore di
scambio di essa, perché vengono scambiati ... equivalenti, bensì esso può
derivare soltanto dal valore d'uso della merce come tale, cioè dal
suo consumo» (Studi sul Capitale, p. 44).
Questa merce è appunto la forza-lavoro; per acquistarla bisogna che essa
sia reperibile sul mercato, vale a dire che ci siano persone disposte a
venderla. «Poiché ambedue, il compratore e il venditore, come contraenti sono
persone giuridicamente uguali bisogna che la forza lavoro sia venduta
soltanto temporaneamente»; in caso contrario il venditore stesso sarebbe
trasformato in merce.
Per aggiungere al denaro un plusvalore, cioè per trasformarlo in capitale, è perciò
necessaria la disponibilità di lavoratori «liberi», nel senso che possano
vendere la propria forza-lavoro. Da notare che il rapporto tra venditori e
compratori di questa merce non è un rapporto comune a tutte le epoche, ma un
rapporto «prodotto di molti rivolgimenti economici». Come tutte le merci la
forza-lavoro ha un valore di scambio che si
basa sul valore dei mezzi di sussistenza necessari per la conservazione di una
normale capacità lavorativa, sulle spese per la famiglia in quanto strumento
per la riproduzione dei venditori di merce, sulle spese di istruzione
necessarie per la forza-lavoro più qualificata. I calcoli sono in funzione
delle condizioni specifiche di ogni paese in un dato momento storico; in ogni
caso trovano un limite minimo nel valore dei «mezzi di sussistenza
fisiologicamente indispensabili», al quale già risulta compromessa la normale
capacità lavorativa.
La forza-lavoro non va confusa con il lavoro
che è l'applicazione concreta delle capacità e delle energie umane in uno
specifico processo. La forza-lavoro è il patrimonio di attitudini fisiche e
intellettuali di cui il lavoratore dispone: egli vende queste a un prezzo
variabile - il salario - e non il lavoro.
L'uso della forza-lavoro «è allo stesso tempo il processo di produzione di
merce e di plusvalore», perciò nella logica del capitalismo essa non può essere
considerata che astrattamente divisa dall'uomo che la possiede; questo,
commentava il giovane Marx in tempi ancora lontani dall'indagine scientifica
del Capitale, è un oggetto che viene lasciato «alla giustizia criminale,
ai medici, alla religione, alle tabelle statistiche, alla politica e agli
abissi dell' accattonaggio».
Sono
costituite da tutti gli elementi necessari al processo di produzione: i mezzi di produzione, la ricerca
scientifica e l'avanzamento tecnologico che ne migliorano la qualità e l'uso,
l'organizzazione del lavoro in fabbrica e nei singoli settori produttivi, e
naturalmente dalla forza-lavoro senza la
quale non si avrebbe alcuna produzione.
Tra le forze di produzione e rapporti
di produzione esistono reciproche interferenze di grande complessità e di
importanza decisiva; infatti nel corso del loro sviluppo le prime determinano
nuove situazioni all'esterno del loro campo specifico che possono riguardare in
larga misura i rapporti di produzione fino al punto di disporsi in modo
antagonistico nei confronti di questi.
L'importanza delle forze di produzione è già sottolineata nell'Ideologia
tedesca, scritta nel 1845-46: il loro livello di sviluppo, dice Marx,
«condiziona la situazione sociale» per cui uno studio scientifico, non
ideologico della storia deve essere costantemente «in relazione con la storia
dell'industria e dello scambio» dove si può osservare l'insorgere delle contraddizioni
tra le forze produttive e i rapporti sociali nei vari periodi storici. Ancora,
nel Manifesto, scritto dieci anni dopo, il passaggio dal modo di
produzione feudale a quello capitalistico è descritto nei termini di
contraddizione tra le forze e i rapporti di produzione come un evento
verificatosi quando
«L'organizzazione feudale
dell'agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali di
proprietà, non corrisposero più alle forze produttive già sviluppate. Quelle
condizioni, invece di favorire la produzione, la inceppavano. Esse si
trasformavano in altrettante catene. Dovevano essere spezzate, e furono
spezzate» (p. 32).
In modo analogo le forze produttive del nostro tempo «non giovano più a
favorire lo sviluppo dei rapporti della proprietà borghese, esse sono diventate
troppo potenti per tali rapporti sicché ne vengono inceppate».
Successivamente le conseguenze e le modalità dello sviluppo delle forze
produttive furono ampiamente studiate in molteplici occasioni sia da Marx
stesso che da altri. La loro importanza nei confronti del modo di essere della
società è facilmente intuibile anche se si pensa soltanto a ciò che hanno
comportato certe scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche: esse hanno
eliminato o radicalmente mutato interi settori dell'industria sostituendo i
vecchi macchinari con altri infinitamente più potenti e redditizi, cambiato le
fonti e le forme dell'energia utilizzata, annullato l'uso di certe materie
prime e adottato l'uso di altre, introdotto l'automazione, ecc. Questi
cambiamenti hanno sconvolto l'organizzazione del lavoro, creato nuovi mercati,
alterato gli equilibri tra un settore e l'altro dell'economia, imposto la
necessità di nuove leggi, prodotto nuovi strati sociali, determinato la
politica estera degli Stati, stimolato la nascita di nuove ideologie.
Tutto ciò ha portato taluni a ritenere lo sviluppo di queste due forze
produttive sufficiente di per se stesso a capovolgere i rapporti di produzione;
questa tesi appare però alquanto schematica se si tien conto dei nessi tra le
varie forze produttive nel loro insieme e, in particolare, del ruolo della
forza-lavoro intesa qui nella sua concreta presenza di movimento organizzato
dei lavoratori.
Gruppo
organizzato su principi teorici e spesso con una disciplina autonoma, interno a
un preesistente partito o movimento politico, con la prospettiva di formare un
partito autonomo.
Nel linguaggio politico attuale è usato in un duplice senso: positivo per
indicare il periodo di formazione del partito comunista, negativo perché a loro
volta i partiti comunisti hanno combattuto, espellendoli, i frazionisti.
Infatti il partito bolscevico si formò da una frazione (detta appunto
bolscevica, cioè di maggioranza) del POSDR (Partito Operaio Socialdemocratico
Russo) organizzata sui principi politici forniti da Lenin nel Che fare?;
lo stesso PCI si costituì a Livorno nel 1921 da una frazione del PSI.
Le frazioni sono distinte dalle correnti e sono state combattute nella storia
del movimento operaio poiché, secondo gli stessi principi indicati da Lenin,
all'interno di un partito comunista eventuali minoranze non possono coagularsi
su linee politiche alternative.
E' l'attività
tendente a organizzare gruppi autonomi all'interno di un partito.
I partiti comunisti dell'Europa Occidentale, in particolare quello italiano e
francese, sono sorti, anche in seguito a un'indicazione fornita dalla Terza
Internazionale, come frazioni di stretta osservanza marxista all'interno dei
vecchi partiti socialisti riformisti.
I gruppi trotskisti si propongono di svolgere attività frazioniste all'interno
dei più grandi partiti comunisti con la denominazione particolare di entrismo.
L'applicazione del metodo del centralismo democratico
impedisce il frazionismo.
Schieramento
politico unitario realizzato da più partiti, movimenti politici o forze sociali
sulla base di un programma e di obiettivi comuni, per far fronte e sconfiggere
il nemico principale in una determinata situazione storica e politica.
Storicamente il fronte è lo strumento attraverso il quale il partito comunista
costruisce un vasto sistema di alleanze nella lotta contro il nemico di classe.
Alla base quindi della politica di fronte stanno i problemi storici dell'egemonia e della direzione della classe operaia
sugli altri strati sociali, del ruolo primario dell'alleanza coi contadini,
della capacità cioè da parte di un partito rivoluzionario di saper determinare,
in ogni momento e col mutare delle situazioni concrete, le forme e i contenuti
tattici attraverso cui la strategia rivoluzionaria può avanzare. Ciò significa
rispondere all'esigenza fondamentale di tracciare una linea precisa tra amici e
nemici in ogni fase storica ed elaborare metodi corretti per unire tutte le
forze che possono essere unite, per isolare e combattere l'avversario di
classe.
Con questo
termine si indicarono quelle coalizioni che in molti paesi europei, sia
occidentali che orientali, si formarono durante la seconda guerra mondiale,
radunando i partiti politici democratici e le forze sociali impegnate nella
lotta antifascista e antinazista. Tale politica, che prese anche altre denominazioni
come «fronti della patria», rappresentava la continuazione e l'estensione della
politica di «fronte popolare» in
funzione antifascista, lanciata dall'Internazionale
Comunista in una situazione in cui, rivelatasi la reale funzione reazionaria e
antinazionale della borghesia monopolistica, il fronte degli avversari non solo
del fascismo, ma della stessa grande borghesia e dell'imperialismo, poteva
abbracciare anche forze intermedie, di piccola e media borghesia urbana, di
contadini piccoli e medi proprietari e delle proprie rappresentanze politiche.
La realizzazione di questi vasti schieramenti fu alla base della lotta di
liberazione nazionale e del successo della Resistenza in Europa e in
particolare in Italia, dove la lotta contro il fascismo fu diretta da un
Comitato di Liberazione Nazionale, che raccoglieva tutte le forze comuniste,
socialiste, cattoliche e democratiche. Nei Fronti nazionali il programma comune
assunto dalle forze partecipanti si fondava essenzialmente sull'obiettivo della
ricostruzione nazionale e del ripristino delle libertà democratiche e della
pace. Pure, attraverso la lotta per questi obiettivi, maturavano già le
condizioni per una fase successiva della lotta contro le basi stesse del potere
della borghesia monopolistica, come concretamente avvenne poi in alcuni paesi
dell'Europa orientale.
Parola
d'ordine lanciata dal VII Congresso dell'Internazionale Comunista (Internazionale) nel 1935, sulla base di
alcune esperienze, già verificatesi precedentemente in Europa e in particolare
in Francia, di unità e di alleanza con tutte le forze antifasciste. Essa
rappresentava l'applicazione in forme nuove della tattica di fronte, i cui caratteri vengono ridefiniti in
funzione della possibilità di coalizzare, attorno al proletariato, vasti strati
di piccola e media borghesia urbana e rurale e i partiti che ne rappresentano
gli interessi, che sempre più venivano a trovarsi in aperto conflitto con la
grande borghesia monopolistica. Per mezzo di questa tattica e dei suoi due
contenuti fondamentali - lotta contro il fascismo e contro la guerra - si poneva
ai comunisti non il compito immediato della conquista del potere, ma quello
dell'abbattimento del fascismo, quale condizione per l'avanzamento verso la
rivoluzione proletaria. La lotta per la democrazia e per la creazione di un
governo che «pur non essendo ancora il governo della dittatura del proletariato
si incarichi di applicare delle misure decise contro il fascismo e contro la
reazione» si presentava dunque come l'indispensabile compito storico, come
tappa cioè non di semplice restaurazione della democrazia borghese, ma di
creazione di un terreno più favorevole, di una democrazia progressiva, che
rompesse i legami con il monopolismo e l'imperialismo e che preparasse la
rivoluzione. Così Dimitrov nel suo rapporto al VII Congresso
dell'Internazionale Comunista descrive le caratteristiche principali del fronte
popolare:
«Per la mobilitazione delle masse
lavoratrici contro il fascismo è in particolar modo importante la creazione di
un largo fronte popolare antifascista sulla base del fronte unico proletario.
Il buon successo di tutta la lotta del proletariato è strettamente connesso
all'alleanza di combattimento del proletariato con i contadini lavoratori e con
le masse fondamentali della piccola borghesia urbana, che costituiscono la
maggioranza della popolazione anche nei paesi industrialmente più sviluppati» (Rapporto
al VII Congresso, in AA.VV., L'Internazionale e il fascismo, p. 69).
Si poneva quindi ai comunisti la necessità di comprendere la natura
delle forze e degli strati sociali che di volta in volta potevano far parte del
fronte, le contraddizioni che al suo interno continuavano a sussistere e a
operare. Al di fuori di ciò, il fronte popolare rischiava di rimanere un
principio astratto o la realizzazione di un blocco senza principi. L'egemonia e
la direzione del fronte da parte della classe operaia (che si sintetizza nella
frase «costruire il fronte popolare sulla base del fronte unico proletario»)
era allora la condizione che garantiva il legame tra la conquista del potere e
gli obiettivi parziali per il suo avvicinamento: isolamento del fascismo e
della grande borghesia, realizzazione di misure che ne intaccavano la forza,
difesa e miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle masse, unità
e rafforzamento della classe operaia. Non si trattava quindi di assumere da
parte del proletariato un programma piccolo borghese, ma al contrario di
inserire nel programma rivoluzionario le rivendicazioni popolari.
«Ciò che è fondamentale, che ha
importanza decisiva per la costituzione del fronte popolare antifascista, è
l'azione risoluta del proletariato rivoluzionario in difesa delle
rivendicazioni di questi strati e in modo particolare dei contadini lavoratori,
rivendicazioni che hanno attinenza con gli interessi fondamentali del
proletariato e che devono essere coordinate, nel corso della lotta, con le
rivendicazioni della classe operaia. E' di grande importanza nella creazione
del fronte popolare antifascista avere un giusto atteggiamento verso le
organizzazioni e i partiti ai quali appartengono in numero considerevole i
contadini e le masse fondamentali della piccola borghesia urbana» (ivi,
p. 70).
Politicamente il fronte popolare si espresse attraverso la ricerca
dell'unità in particolare con la socialdemocrazia, le cui responsabilità
nell'avvento del fascismo in Europa non escludevano però la possibilità di
un'azione e di un programma comuni. Ciò rappresentava per l'Internazionale
Comunista un'evidente autocritica rispetto al giudizio settario precedentemente
espresso dai comunisti sui partiti socialdemocratici.
Le più significative esperienze storiche del fronte popolare da quelle spagnola
e francese del 1936 e poi dei Fronti nazionali contro il nazifascismo, fino a
quella italiana (dal patto di unità d'azione con il PSI del 1934, fino alla
politica unitaria nel Comitato di Liberazione Nazionale e all'esperienza del
Fronte Democratico Popolare, nell'Italia post-bellica delle elezioni del 1948)
dimostrano proprio come il rapporto con i partiti socialdemocratici e
riformisti sia l'asse su cui misurare la capacità di una coerente linea di
fronte di evitare gli opposti errori che la riducono o a un patto
interclassistico senza principi, o all'opposto a un'affermazione di principio
incapace di una concreta presa sulla realtà storica e politica e sui rapporti
tra le classi.
Linea
politica che individua nell'unità della classe operaia e nelle sue
organizzazioni, sindacali e politiche, lo strumento essenziale nella lotta
contro la borghesia e il sistema capitalistico. La necessità di realizzare un
fronte unico proletario fu sostenuta dalla III Internazionale (Internazionale) fin dai suoi primi
congressi. In particolare nell'«appello per il fronte unico» lanciato
dall'esecutivo della III Internazionale (o Internazionale Comunista) il l°
gennaio 1922, viene individuata come centrale la battaglia dei partiti
comunisti per estendere la loro influenza fino a conquistare la maggioranza
della classe operaia. Il IV congresso (novembre-dicembre 1922) ratificò questa
politica, indicandone la validità generale. Il fronte unico, determinando come
principale la necessità di unire la classe operaia sul terreno concreto della
lotta per il miglioramento delle proprie condizioni, veniva visto come il mezzo
per sottrarre il proletariato all'influenza socialdemocratica, cattolica e di
altri partiti borghesi e sconfiggere ogni tendenza revisionistica (Revisionismo). Con esse occorreva misurarsi
sul terreno concreto dell'influenza e dell'azione tra le masse, per mostrare la
rispondenza del programma comunista agli interessi della classe operaia e al
tempo stesso il cedimento e l'attendismo del riformismo
verso la borghesia. L'unità in un fronte unico del proletariato si presentava
come la condizione per poi unire attorno ad esso, attraverso la funzione
dirigente del partito comunista, gli altri strati sociali oppressi e costruire
una salda egemonia sui contadini e sulla piccola borghesia.
In seno all'Internazionale Comunista la discussione si sviluppò sui compiti del
fronte unico nel campo sindacale e sulla possibilità che esso potesse, in
determinate condizioni concrete, svilupparsi prevalentemente dal basso, cioè
tra gli operai e gli altri lavoratori e come in ogni caso non dovesse ridursi
all'unità dei vertici, dall'alto dei partiti politici, ma fondarsi su una reale
unità nei luoghi di lavoro, nelle fabbriche, nelle strutture territoriali di
base. L'avvento al potere del fascismo in Europa impegnò i comunisti in uno
sforzo di analisi e di comprensione delle radici di classe del fenomeno e del
problema complesso delle forze sociali che di esso erano al contempo espressione
e matrice. La linea del fronte unico ricevette uno sviluppo nuovo e anzi venne
posta come la base necessaria per una più vasta politica di unità attraverso il
Fronte popolare antifascista.
«Il fronte unico del proletariato e il
fronte popolare antifascista sono connessi dalla viva dialettica della lotta,
si intrecciano, passano l'uno nell'altro nel corso della lotta pratica contro
il fascismo e non sono per nulla separati da una muraglia cinese. Infatti non
si può pensare seriamente che la realizzazione del fronte popolare antifascista
sia possibile senza l'unità di azione della classe operaia, che è la forza
motrice di questo fronte popolare. D'altra parte, l'ulteriore sviluppo del
fronte unico proletario dipende in grande misura dalla sua trasformazione in
fronte popolare contro il fascismo» (Dimitrov, Rapporto al VII Congresso,
in AA.VV., L'Internazionale e il fascismo, p. 68).
Dei compiti dei comunisti e del fronte unico così Dimitrov diede una
sintesi:
«La difesa degli interessi immediati
economici e politici della classe operaia, la difesa della classe operaia
contro il fascismo: ecco quale deve essere il punto di partenza, ecco che cosa
deve costituire il contenuto fondamentale del fronte unico in tutti i paesi
capitalistici... La creazione di organi di classe non di partito, è la forma
migliore per attuare, estendere e rafforzare il fronte unico tra gli strati più
profondi delle grandi masse. Questi organi saranno anche la barriera più
efficace contro tutti i tentativi degli avversari del fronte unico di spezzare
l'unità di azione della classe operaia» (ivi, pp. 67, 69).
Con tale
termine si intende genericamente il contenuto della politica di fronte indicata dall'Internazionale Comunista fin dai suoi
primi congressi; storicamente esso indica l'originale specificazione di tale
linea operata dal Partito Comunista Cinese nella realtà semifeudale e
semicoloniale della Cina. Mao (Maoismo)
delineò una serie di formulazioni teoriche sul fronte unito che costituiscono
l'arma decisiva con cui il popolo cinese sconfisse l'imperialismo e le forze
reazionarie, in particolare durante l'aggressione giapponese.
Oltre a fornire anche valide indicazioni sui problemi delle alleanze e dell'egemonia per i paesi a capitalismo avanzato,
queste formulazioni rappresentano uno strumento generale per le lotte di
liberazione nazionale nei paesi coloniali e semifeudali (Feudalesimo).
Il problema fondamentale che si poneva in Cina era su quali forze realizzare
l'egemonia del proletariato, su quale piano essa doveva avvenire. Mao indicò
come - in seno al fronte unito - senza l'alleanza fondamentale tra operai e
contadini, senza l'egemonia della classe operaia su quella contadina, fosse
impossibile costruire l'alleanza con gli altri strati sociali antimperialisti e
progressisti. Il problema era quello di tracciare una linea precisa tra gli
amici e i nemici, e di elaborare metodi corretti per unire tutte le forze che
potevano essere unite, per isolare il nemico. Nella fase della rivoluzione
democratica i nemici della rivoluzione cinese erano l'imperialismo, il feudalesimo
e il capitalismo burocratico asservito allo straniero. Solo sulla base della
vittoria di questa rivoluzione il popolo cinese poteva passare alla rivoluzione
socialista. In questa fase gli strati e le classi che potevano prendere parte
al fronte unito erano vasti: vi erano inclusi non solo la classe operaia e i
contadini, ma anche la piccola borghesia e in certi periodi e in certa misura
anche la borghesia nazionale e tutte le forze patriottiche.
Il motivo per cui era necessario conquistare la borghesia nazionale consisteva
nel fatto che in questa fase essa manteneva un'influenza politica e svolgeva
una funzione - sia economica sia culturale - progressiva e antifeudale. Essa
era in contraddizione con l'imperialismo e la burocrazia capitalistica, ma se
non conquistata al fronte unito sarebbe passata alla causa del nemico; era una
forza vacillante e timorosa, ciò che rendeva necessaria la sua direzione da
parte dei comunisti e della classe operaia. Misura che si espresse
politicamente nell'alleanza con il Kuomintang, cioè il partito nazionalista che
rappresentava gli interessi della borghesia cinese in contrasto con
l'imperialismo. Di qui anche la necessità che il Partito Comunista Cinese
mantenesse nel fronte unito l'indipendenza politica, ideologica e
organizzativa.
Contro le linee di destra che si riassumevano nella parola d'ordine «Tutto per
il fronte unito, tutto attraverso il fronte unito», Mao affermò il principio
dell'«unità nella lotta» e della direzione della classe operaia, sulla base
dell'alleanza fondamentale coi contadini. Nel fronte unito il partito deve
combinare l'alleanza e la lotta, l'unità e l'egemonia. Così o il Partito
Comunista Cinese sarebbe riuscito a conquistare le forze di centro della
borghesia nazionale, isolando la destra reazionaria e asservita
all'imperialismo, o la borghesia nazionale sarebbe passata alla destra
capitolando all'imperialismo e rendendo più difficile la lotta antigiapponese.
Tattica di un
partito, movimento o in generale forza organizzata di una classe sociale che
lega a sé, sulla base di un programma politico, partiti o strati sociali ad
essa omogenei, costituendo così un fronte
comune contro l'avversario principale.
Nell'uso comune e di certa pubblicistica col termine di frontismo si suole
indicare l'esperienza storica concreta di unità d'azione dei partiti comunisti
con le altre forze della sinistra in Italia e in altri paesi europei,
generalmente allo scopo di indicarne gli errori e i limiti, individuati - a
seconda della provenienza delle critiche - o in uno sterile esercizio
diplomatico e interclassistico che dimentichi l'obiettivo rivoluzionario della
dittatura del proletariato, o all'opposto in un'operazione strumentale e
tatticistica che dietro l'affermata esigenza unitaria porti avanti fini e
disegni propri solo dei comunisti; oppure ancora nell'incapacità di estendere
tale sistema di alleanze dalle sole forze di sinistra e popolari a
organizzazioni che, estranee alle tradizioni e alle esperienze delle battaglie
politiche e ideali per la democrazia e il socialismo, pure vengono ritenute
atte a dare un contributo positivo verso questi obiettivi.
Più rigorosamente e proprio per precisare l'importanza di una puntuale analisi
storica dei limiti e degli errori teorici e pratici delle diverse attuazioni
della politica di fronte e di tutti i problemi ad essa connessi, occorre
individuare nell' esperienza storica dei fronti, dalla nascita
dell'Internazionale Comunista fino alla situazione politica odierna, l'esigenza
della ricerca delle forme più adatte per passare o avvicinarsi alla rivoluzione
socialista, dei problemi cioè della transizione al socialismo in Occidente.
Solo così, attraverso il leninismo e il pensiero
di Gramsci, la questione delle alleanze, il problema della funzione egemonica (Egemonia) e unitaria al tempo stesso dei partiti
comunisti all'interno dei fronti, del legame tra tattica frontista e strategia
per il socialismo, possono essere compresi nel loro significato storico e
critico.