a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare di Torino
Dizionario
enciclopedico marxista
Premessa A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z
S
Saggio del profitto, Salario, Scambio, Schiavismo, Scienza, Sciopero, Serrata, Servizi, Settarismo, Sfruttamento, Sindacalismo, Sindacato, Sinistra, Sinistra hegeliana, Sistema, Socialdemocrazia, Socialismo, Socialismo in un solo paese, Società, Società per azioni, Sociologia, Sociologismo, Soggettivismo, Sottoproletariato, Soviet, Sovrapproduzione, Sovrastruttura, Spartachismo, Spontaneismo, Stakhanovismo, Stalinismo, Stato, Storia, Storicismo, Strategia e tattica, Struttura e sovrastruttura, Subalternità, Subimperialismo, Surplus
E’ il
rapporto tra il plusvalore e la somma del capitale costante e del capitale
variabile; viene normalmente indicato in termini percentuali. Si differenzia
dal saggio del plusvalore in quanto quest’ultimo esprime il rapporto tra
plusvalore e capitale variabile; ne deriva che il saggio del profitto è sempre
minore del saggio del plusvalore, come appare evidente dalla maggior grandezza
del denominatore.
Questa definizione è valida per il modo di produzione capitalistico in
generale. Nelle singole imprese dipende da una serie di fattori tra i quali: lo
stesso saggio del plusvalore e quindi il grado di sfruttamento della
forza-lavoro, la velocità di rotazione del capitale e la sua composizione
organica. Nella società capitalistica, considerata per un periodo di tempo
abbastanza lungo e in una fase tecnicamente avanzata, la concorrenza tra i
capitalisti fa sì che il profitto ottenibile, e quindi il suo saggio,
impiegando capitali di uguale grandezza in settori produttivi diversi, tenda a
oscillare intorno a una media. Questo fenomeno, che è noto come tendenza
all'uguaglianza del saggio del profitto, permette di determinare il
cosiddetto saggio medio del profitto o saggio del profitto medio. Si
tratta di un calcolo estremamente concreto, in quanto permette ai capitalisti
di valutare con sufficiente precisione le possibilità di guadagnare in un
periodo relativamente lungo.
Su tali calcoli gravano evidentemente fattori derivanti, come si è detto, dal
modo di produzione nel suo insieme; in altri termini il saggio medio del
profitto viene fissato all'interno di rapporti validi per il sistema nel suo
complesso e quindi in gran parte indipendenti dalla volontà dei singoli
imprenditori. Tra i fattori sopra citati è da tener presente quello connesso ai
rapporti di forza tra la classe capitalistica e quella lavoratrice, che trova
la sua effettiva manifestazione nella determinazione della grandezza del
salario medio. L'analisi del processo complessivo della produzione
capitalistica ha permesso a Marx di individuare e studiare le cause profonde
delle crisi economiche, che erano fino allora inspiegabili in modo organico
secondo i criteri dell'economia politica classica.
La caduta tendenziale del saggio medio del profitto, considerata da Marx
come una legge economica fondamentale della produzione capitalistica, è una
delle cause principali che, in tempi relativamente lunghi, determinano le
crisi. Infatti il miglioramento delle tecniche produttive, inteso sia in senso
stretto che nel senso più generale di messa a punto di nuovi impianti, comporta
un relativo aumento del rapporto tra capitale costante e capitale variabile.
Così per esempio se la somma del capitale costante (50 milioni) e del capitale
variabile (50 milioni) è di 100 milioni e il saggio del plusvalore è del 100%,
pari cioè a 50 milioni, il saggio del profitto sarà del 50% (50 milioni); se
ora la concorrenza costringe il capitalista a rinnovare i suoi impianti e ad
aumentare la produttività del lavoro, fermo restando il grado di utilizzazione
della forza-lavoro, si avrà una diminuzione relativa del capitale variabile che
scenderà per esempio a 20 milioni, mentre il capitale costante salirà a 80
milioni. La somma sarà quindi ancora di 100 milioni, il saggio del plusvalore
sarà ancora del 100 %, calcolato però su un capitale variabile di 20 milioni,
per cui il profitto sarà espresso dal saggio di 20/ (80+20) = 20%,
evidentemente minore del saggio del 50 % prima indicato sullo stesso capitale.
Se un capitalista vorrà ottenere, come è costretto a fare dalle condizioni
oggettive determinate dalla società capitalistica, un profitto ancora di 50
milioni, oppure superiore, dovrà impiegare un capitale complessivo maggiore,
cioè dovrà aumentare in qualche modo la produzione: questa è la causa delle
crisi di sovrapproduzione e, nel contempo, una delle contraddizioni
fondamentali del modo di produzione capitalistico. Ciò perché da ogni crisi il
capitale «esce completamente rinnovato»; in concreto l'innovazione consiste,
accanto ai molteplici effetti collaterali, in un aumento del capitale costante
a spese del capitale variabile (Crisi
economica, Salario). Sulla questione della
caduta tendenziale del saggio medio del profitto, i cui riflessi, nell'ambito
della lotta politica tra il movimento operaio organizzato e i capitalisti nel
loro insieme, sono evidenti, sono sorte fin dalla prima enunciazione della sua
«legge», numerose discussioni controverse alle quali Engels rispose nella prefazione
al III libro de Il Capitale, pubblicato dopo la morte di Marx. Tali
controversie sono ancora in atto, sia pure nelle mutate circostanze della
presente epoca, alimentate in modo particolare sia da erronee interpretazioni
del significato generale della legge della caduta tendenziale del saggio medio
del profitto che dalle obiezioni degli economisti borghesi.
E' il prezzo
della forza-lavoro, ovvero la quantità di denaro fornita dal capitalista per
l'uso della forza-lavoro per un tempo determinato.
Nella società capitalistica il salario è la forma di retribuzione prevalente;
talvolta viene chiamato in altri modi, come per esempio stipendio. La sua
grandezza è determinata, in generale, dal valore dei mezzi di sussistenza
necessari per la vita e la riproduzione della forza-lavoro. Ovviamente tale
necessità varia con le condizioni e i costumi di vita di ciascun paese, e
comprende non solo il minimo indispensabile per il normale funzionamento della
forza-lavoro stessa, ma deve tener conto di altri fattori, tra i quali le spese
relative all'istruzione professionale.
Marx mette in rilievo come il salario non possa mai scendere al di sotto di
certi limiti, pena la riduzione dell'efficienza lavorativa e conseguentemente
la diminuzione della produttività.
La somma dei salari permette di valutare in termini monetari la quota del
capitale complessivo impiegato nella produzione, che viene chiamato capitale
variabile. E' questo un elemento di estrema importanza che differenzia la
concezione marxista dell'economia da quella delle scuole borghesi, che
prevalentemente distinguono solo tra capitale fisso e circolante, comprendendo
in quest'ultimo tutte le merci inclusa la forza-lavoro. Semplificazione che è
alla base di una serie di incomprensioni, tra cui l'idea che il salario sia
determinato esclusivamente dalle leggi della domanda e dell'offerta come tutte
le altre merci; la situazione è perfettamente rappresentata dall'uso del
termine «mercato del lavoro», che si affianca agli altri numerosi mercati, del cotone,
dei cereali, del ferro ecc. Invece per Marx la forza-lavoro non soltanto non è
una merce come tutte le altre, ma diventa tale solo nel sistema capitalistico.
Di più, per l'economia borghese resta incomprensibile la natura stessa del
salario che viene considerato come il «prezzo del lavoro». L'analisi marxista
considera invece il salario come il prezzo della forza-lavoro.
«In realtà, sul mercato delle merci si
presenta al possessore di denaro non il lavoro, ma il lavoratore. Ciò
che vende quest'ultimo è la propria forza-lavoro. Appena il suo lavoro
comincia realmente, esso ha già cessato di appartenergli, e quindi non può più
essere venduto da lui» (Marx, Il Capitale, libro I, p. 587).
Occorre distinguere tra salario reale e salario nominale. Il
primo è misurato dalla quantità reale di merci che si possono acquistare con il
salario stesso. Un esempio molto diffuso del modo di valutare il salario reale
è offerto dai calcoli con i quali si determinano in ore di lavoro i prezzi di
alcune merci di uso corrente nei vari paesi. Il secondo è invece la quantità di
denaro che costituisce l'espressione monetaria del salario, ed è indipendente
dal suo potere d'acquisto.
Di regola la soluzione delle crisi che travagliano il modo di produzione
capitalistico è affidata alla riduzione del salario reale, mediante la quale si
provoca una limitazione dei consumi e un conseguente abbassamento delle
condizioni generali d'esistenza dei salariati.
E' l'attività
per mezzo della quale un prodotto passa da un proprietario all'altro.
Nelle varie epoche lo scambio è stato praticato in forme diverse, la più antica
delle quali è il baratto, sempre però
presupponendo un minimo di varietà nei prodotti del lavoro, in quanto se in una
comunità tutti producessero la stessa cosa non avrebbero niente da scambiare
tra loro.
Nell'attuale momento storico lo scambio di capitale variabile con forza-lavoro,
cioè la compravendita di questa merce particolare, è la condizione stessa
dell'esistenza del capitalismo; in assenza di tale scambio, infatti, i mezzi di
produzione e i mezzi di sussistenza non potrebbero trasformarsi in capitale.
La nascita del capitalismo moderno ha come presupposto la diffusione generale
dello scambio di merci, cioè del commercio, mentre la merce come «forma
sociale universalmente necessaria del prodotto» è il risultato esclusivo del
modo di produzione capitalistico (Forza-lavoro,
Merce, Salario).
Il termine
indica la formazione economico-sociale in cui la base dei rapporti di
produzione è costituita dalla proprietà privata sia dei mezzi di produzione sia
del produttore stesso, che, in questo caso, appartiene di diritto al padrone.
In questo modo di produzione il
lavoratore è del tutto identico agli strumenti di produzione, in quanto le sue
caratteristiche di essere umano sono totalmente negate dai rapporti sociali in
cui è costretto a vivere. Come ha osservato Marx, il lavoratore è distinto dai
mezzi di produzione e dagli animali soltanto come strumento fornito di parola.
Lo schiavismo è caratterizzato dall'estorsione di plusvalore non retribuito al
produttore immediato:
«Il capitale non ha inventato il pluslavoro.
Ovunque una parte della società possegga il monopolio dei mezzi di
produzione, il lavoratore, libero o schiavo, deve aggiungere al tempo di lavoro
necessario al suo sostentamento tempo di lavoro eccedente per produrre i mezzi
di sostentamento per il possessore dei mezzi di produzione ... Nel lavoro
degli schiavi persino la parte della giornata lavorativa, in cui lo schiavo
non fa che reintegrare il valore dei propri mezzi di sussistenza, in cui dunque
egli lavora in realtà per se stesso, appare come lavoro per il suo padrone.
Tutto il suo lavoro appare come lavoro non retribuito» (Il Capitale, libro
I, pp. 269 e 590).
Il sistema della schiavitù rivelò a un certo momento, coincidente con
una maggior richiesta di prodotti per il commercio, i propri limiti; di
conseguenza cominciarono ad affermarsi altri modi di produzione. Per esempio
per aumentare la produttività dei terreni agricoli i proprietari ricorsero al
frazionamento e all'affitto dei fondi: si diffuse così la forma del colonato
che può essere considerata come immediato precedente del modo di produzione
capitalistico.
La figura sociale della schiavitù si è conservata molto a lungo in vari paesi
anche nell'epoca del capitalismo, come nella società americana del sec. XIX. La
sua estinzione, come osserva Marx, fu anche in questo caso dovuta
all'insufficiente produttività.
In generale
indica un insieme organico di conoscenze ottenute con criteri adatti a garantirne
l'oggettività, vale a dire la corrispondenza con i fatti reali.
In questo senso si parla di scienza, anche nell'uso comune, per sottolineare le
differenze tra questo tipo di conoscenza e altri tipi possibili ma non basati
sugli stessi criteri; l'uso della parola al singolare ha pertanto questo
significato generico, non è sinonimo di scienze naturali, ma comprende le
conoscenze più diverse per contenuto e per metodo.
Nelle opere di Marx e di Engels scienza e il corrispondente aggettivo scientifico
sono usati innanzitutto per indicare conoscenze diverse da quelle proprie dell'ideologia, cioè dalla rappresentazione distorta
e unilaterale della realtà che maschera gli interessi di classe. Se si
considera ad esempio la conoscenza ideologica della storia, si può osservare
che essa ha «puramente e semplicemente ignorato» la base reale della storia
stessa, si è inoltrata «sul terreno speculativo», ha deformato la realtà fino
«al punto di fare della storia successiva lo scopo della storia precedente». Di
conseguenza la storia è stata descritta e interpretata secondo criteri che le
erano estranei lasciando fuori «la produzione reale della vita» sbrigativamente
giudicata come un fatto precedente e non riguardante la storia stessa e
attribuendo a tutto quello che era storico un carattere immateriale, «separato
dalla vita comune». In questo modo «il rapporto dell'uomo con la natura è
quindi escluso dalla storia, e con ciò è creato l'antagonismo tra natura e
storia». La conoscenza scientifica della storia, se vuole essere davvero
«scienza», non può invece escludere il rapporto uomo/natura, non può ignorare
che la storia è indissolubilmente legata con «la produzione della vita
materiale stessa», i cui modi e gradi di sviluppo procedono insieme ai rapporti
tra gli uomini nella società costituendo così gli elementi stessi della storia
(Materialismo storico).
Ciò vuol dire, in primo luogo, rifiutare la tradizionale separazione tra mondo
dell'uomo e mondo della natura e quindi tra le rispettive scienze; proprio
questa scissione, frutto della divisione del lavoro nella società, ha permesso
di isolare le idee dalla realtà e di assegnare loro una sfera apparentemente
autonoma ma, di fatto, condizionata dalla concreta attività materiale degli
uomini. Di conseguenza le asserzioni sull'uomo, la natura, ecc., vanno
ricondotte alla loro base reale e verificate nella prassi; solo allora «cessa la speculazione»
e ha inizio «la scienza reale e positiva, la rappresentazione dell'attività
pratica», l'effettiva analisi del processo di produzione intorno a cui si
muovono le vicende della storia; solo allora «cadono le frasi sulla coscienza
ed al loro posto deve subentrare il sapere reale».
In secondo luogo le scienze naturali, delle cui ipotesi esiste costantemente
una doppia verifica, provano in concreto che il pensiero è in grado di produrre
conoscenze valide, conformi alla realtà. Ciò viene dimostrato appunto in due
modi: le asserzioni di queste scienze subiscono un controllo sperimentale prima
di essere accettate e vengono tradotte in elementi tecnici della produzione
materiale mediante l'applicazione su vasta scala. Sono, in altri termini,
verificate «nell'esperimento e nell'industria». Riconoscere questa capacità del
pensiero organizzato nelle scienze naturali non significa assolutamente
immaginare che i loro procedimenti specifici siano validi al di fuori del loro
campo, ma semplicemente rilevare che esistono settori della realtà nei quali il
pensiero è in grado di elaborare conoscenze oggettive; con tale riconoscimento
vengono eliminate le controversie sulla conoscibilità del reale e le soluzioni
negative che vi sono connesse: perciò Marx dirà che le scienze della natura
«formano la base di ogni conoscenza» (Materialismo dialettico).
A questo punto si può comprendere cosa intendono Marx e Engels quando parlano
di scienza in contrapposizione a ideologia. «Scienza della storia», per
esempio, vuol dire
«... spiegare il processo reale della
produzione, e precisamente muovendo dalla produzione materiale della vita
immediata, assumere come fondamento di tutta la storia la forma di relazioni
che è connessa con quel modo di produzione e che da esso è generata, dunque la
società civile nei suoi diversi stadi, e sia rappresentarla nella sua azione
come Stato, sia spiegare partendo da essa tutte le varie creazioni teoriche e
le forme della coscienza, religione, filosofia, morale, ecc. ecc. e seguire
sulla base di queste il processo della sua origine, ciò che consente
naturalmente anche di rappresentare la cosa nella sua totalità (e quindi anche
la reciproca influenza di questi lati diversi l'uno sull'altro). Essa non deve
cercare in ogni periodo una categoria, come la concezione idealistica della
storia, ma resta salda costantemente sul terreno storico reale, non
spiega la prassi partendo dall'idea, ma spiega la formazione di idee partendo
dalla prassi materiale, e giunge di conseguenza al risultato che tutte le forme
e prodotti della coscienza possono essere eliminati non mediante la critica
intellettuale, risolvendoli nell'autocoscienza o trasformandoli in spiriti,
fantasmi, spettri, ecc. ma solo mediante il rovesciamento pratico dei rapporti
sociali esistenti ...» (Marx, Ideologia tedesca in Opere, V, p.
39).
Analogamente si comprende cosa significhi l'aggettivo «scientifico» che si
accompagna al sostantivo socialismo; esso vuole sottolineare che le sue
asserzioni poggiano sulla conoscenza scientifica della storia, che da questa ha
potuto trarre le leggi generali dello sviluppo della società e quindi le linee
di tendenza della storia futura (Socialismo).
Nelle opere di Marx e di Engels la parola scienza viene anche usata per
indicare le scienze naturali; i temi che affiorano in questo caso sono a loro
volta di grandissima importanza: infatti «con la produzione capitalistica si ha
la separazione della scienza dal lavoro. Contemporaneamente si ha l'impiego
della scienza in quanto tale nella produzione materiale». Con queste parole
Marx mette a punto una serie di problemi particolarmente sentiti nel presente
momento storico. «La scienza come prodotto intellettuale generale
dell'evoluzione sociale» si presenta come «direttamente incorporata al
capitale», ben distinta nei processi di produzione «dal sapere e dalle capacità
del singolo operaio»: frutto di un'avanzatissima divisione del lavoro essa gli
appare come uno strumento nelle mani del capitale, ostile e incomprensibile. Di
più, non solo il modo di produzione capitalistico ha creato per la prima volta
i mezzi materiali di indagine, osservazione, sperimentazione «sui quali si
fondano le scienze» ma queste hanno assunto il ruolo di «strumenti di
arricchimento» sia per coloro che possiedono i mezzi di produzione sia per gli
stessi scienziati che «entrano in concorrenza tra loro nell'intento di trovare
un'applicazione pratica» alle varie scoperte scientifiche; così «l'invenzione
diviene un mestiere particolare».
Ne sono derivati diffidenza o rifiuto della scienza
e della tecnica e superficiali condanne
dell'una o dell'altra, bollate come elementi costitutivi e inscindibili del
capitale; ma questo per Marx è l'atteggiamento proprio delle forme di
socialismo che ritenevano la piccola proprietà contadina e l'artigianato i
modelli ai quali la società avrebbe dovuto tendere, e che coincidevano perciò
con le nostalgie dei movimenti più reazionari.
Le scienze della natura si sviluppano prodigiosamente con l'affermarsi del modo
di produzione capitalistico, ne ricevono un impulso senza precedenti, ma sono
per così dire gestite in proprio dal capitalismo stesso, crescono nelle sue
istituzioni e perseguono i suoi interessi per la parte che è di loro
competenza. Eppure secondo Marx e Engels le scienze sono la base di ogni
conoscenza, sono la prova che il pensiero riesce a rappresentare in modo
corretto la realtà. Questa apparente contraddizione che ricompare oggi nelle
discussioni sulla «neutralità della scienza» ha la sua ragion d'essere nel modo
semplicistico di porre questo tema: se la scienza è asservita al capitale non
può essere neutrale, è uno degli strumenti del suo dominio, va rifiutata. I
termini della questione sono però ben altri e possono così essere sintetizzati:
la scienza non è neutrale non a livello delle sue affermazioni su un certo
fenomeno - «non conosco logaritmi gialli», diceva Marx - ma nella scelta dei
problemi da risolvere; questi infatti non provengono, se non in misura
marginale, dalle esigenze di sviluppo organico di una data disciplina
scientifica, ma sono imposti dall'esterno in funzione delle necessità più o meno
direttamente connesse con la produzione materiale, il cui fine nell'epoca del
capitalismo è il profitto.
Questa dipendenza non si attua soltanto nelle forme dirette di finanziamento
delle ricerche e dell'inclusione di istituti di ricerca nelle grandi imprese,
ma anche in forme indirette quali il controllo degli orientamenti di studio, la
creazione di una scala di importanza e di attualità nella quale classificare i
vari problemi, ecc.
Tuttavia le scienze della natura restano «la base di ogni conoscenza», «il
banco di prova della dialettica»; piegate agli interessi del capitale per
quanto riguarda la selezione dei temi di ricerca e le applicazioni concrete,
esse sviluppano forme di conoscenza che contrastano le ideologie del
capitalismo e in quanto forza di produzione specifica entrano in contraddizione
con i rapporti di produzione esistenti (Dialettica
della natura, Materialismo
dialettico).
Consiste
essenzialmente nell'astensione collettiva dal lavoro ed è la principale forma
di lotta che la classe operaia ha adottato per ottenere migliori condizioni sia
per quanto riguarda il salario che per quanto riguarda la normativa generale
del lavoro. E' contemporaneamente la prima e più importante forma di
organizzazione che, dal momento della comparsa generalizzata del lavoro salariato, ha consentito agli
operai di intervenire direttamente nell'organizzazione del lavoro.
Infatti i primi scioperi avvenuti in Inghilterra nei primi anni dell'Ottocento,
pur essendo una forma spesso spontanea di ribellione a condizioni di lavoro
estremamente oppressive, costituivano un notevole passo avanti nei confronti
del luddismo e della ribellione individuale,
in quanto presupponevano la coscienza da parte dei lavoratori del loro ruolo
sociale e l'affermazione che il loro lavoro era essenziale per la produzione.
Inoltre, come tra gli altri ha osservato Engels, la stessa organizzazione
industriale del lavoro, «irregimentando» grandi masse di uomini e
sottoponendoli a una disciplina - qual è la vita di fabbrica - suscita negli
operai la coscienza di appartenere a una classe e la disposizione a
organizzarsi.
Ben presto lo sciopero richiese una certa preparazione e una definizione
anticipata di tempi e modalità anche perché i capitalisti adottarono, fin dai
primi anni dell'Ottocento, misure repressive e preventive. Ciò contribuì
notevolmente al sorgere di una coscienza di classe e insegnò agli operai come
costruire una struttura organizzativa capace di coordinare la loro lotta.
In seguito, soprattutto verso i primi anni del '900, quando ormai in tutta
l'Europa la produzione si effettuava principalmente in grandi complessi
industriali e i lavoratori iniziavano a partecipare agli scioperi in numero
crescente, si poterono effettuare degli scioperi «generali» che coinvolgevano i
lavoratori di tutti i settori più importanti della produzione.
Questo tipo di sciopero divenne uno strumento molto efficace; in qualche caso,
il blocco totale della produzione fu considerato come un'arma rivoluzionaria.
Sorel, per esempio, aveva teorizzato lo sciopero generale come strumento
rivoluzionario teso appunto al rovesciamento dello Stato tramite la paralisi
economica.
Tuttavia il solo sciopero, cioè il blocco della produzione, si dimostrò ben
presto insufficiente, senza un programma che proponesse una profonda
trasformazione dei rapporti di produzione. Gli scioperi generali, quindi, in
seguito alla critica condotta soprattutto da Lenin e Gramsci al cosiddetto
sindacalismo rivoluzionario, restano uno dei più importanti e decisivi momenti
di lotta della classe operaia, inseriti però in un programma politico che ne
includa l'attuazione in una prospettiva complessiva.
L'evoluzione e la storia dell'utilizzazione dello sciopero da parte della
classe operaia dimostra come esso non sia un fenomeno di «disaffezione al
lavoro», ma al contrario venga talvolta utilizzato per mantenere e sviluppare
l'occupazione e le capacità produttive dei lavoratori.
La chiusura
temporanea di una fabbrica attuata per decisione unilaterale dal proprietario.
I motivi che spingono alla serrata possono essere di carattere economico
(vantaggi dovuti alla minore immissione di merci sul mercato) o, più spesso, di
carattere politico.
Storicamente la serrata è nata come forma di ritorsione attuata per mettere in
difficoltà gli operai, sia dal punto di vista delle loro condizioni di lavoro,
sia per contrastare la loro organizzazione (Sindacato)
all'interno della fabbrica.
Le caratteristiche di manovra tipicamente speculativa hanno spinto il movimento
operaio a contrastare il più possibile la serrata; inoltre le serrate
costituiscono un danno per tutta la società, perché tendono alla distruzione
delle forze produttive. Ciò è stato riconosciuto in Italia anche dal punto di
vista legale: il codice penale (art. 502, 505) considera la serrata un reato
contro l'economia pubblica.
Questo tipo di provvedimento inoltre incide sull'efficienza e sulla
funzionalità delle forze produttive e tende a mutare i termini dei patti
stabiliti con i lavoratori.
Secondo Marx
«non sono che un altro modo di esprimere il particolare valore d'uso del lavoro
in quanto utile non come cosa ma come attività».
Nell'acquisto di servizi resi da una singola persona non compare affatto lo
specifico rapporto fra capitale e lavoro: perciò fu a suo tempo un fenomeno
considerato con particolare entusiasmo dagli economisti borghesi ed elevato a
modello di prestazione lavorativa. La falsità di simili considerazioni è
piuttosto ovvia: anche il salariato acquista servizi con il proprio denaro e
con ciò lo spende, non lo trasforma in capitale. «Nessuno acquista prestazioni
mediche o legali come mezzo alla trasformazione del denaro così speso in
capitale»; qui il lavoro è scambiato contro «denaro come denaro», è un lavoro
improduttivo, fatto ben diverso dallo scambio di lavoro contro «denaro come
capitale» che è proprio del lavoro produttivo (Lavoro).
Con lo sviluppo della produzione capitalistica i servizi tendono a trasformarsi
in lavoro salariato. Attualmente i servizi, vale a dire i valori d'uso
costituiti da attività e non da oggetti materiali, hanno raggiunto dimensioni e
complessità enormemente maggiori che ai tempi di Marx e buon parte di essi è
alle dipendenze del capitale privato, mentre un'altra parte è gestita direttamente
o indirettamente dallo Stato.
Una classificazione assai diffusa delle attività economiche include i servizi
nel cosiddetto settore terziario, indicando come primario l'agricoltura
e come secondario l'industria.
Atteggiamento
caratteristico di un partito o di un'organizzazione che fondino il proprio
programma e la propria azione non sulla sua capacità di unire attorno alla
classe operaia gli altri strati sociali potenzialmente suoi alleati, bensì
proprio sulla negazione della validità o della stessa possibilità di stabilire
un rapporto unitario con quelle forze sociali e politiche che, in una concreta
situazione storica, si trovino a convergere su determinati punti col programma
anticapitalistico dei comunisti. Nelle sue manifestazioni pratiche il
settarismo finisce col far prevalere gli interessi politici del partito o del
gruppo su quelli più generali del movimento, cogliendo della teoria e della
linea rivoluzionaria non l'insieme, ma uno o più aspetti ai quali si rimane
rigidamente ancorati, senza preoccuparsi delle connessioni interne, del legame
tra la teoria e la pratica (Dogmatismo).
Il risultato non è soltanto l'isolamento del partito dalla realtà sociale, ma
anche il vanificare l'azione e l'agitazione rivoluzionaria all'interno della
stessa classe operaia, di cui non si individua la funzione d'avanguardia nei
confronti delle masse popolari. Il rifiuto di una politica di azione unitaria
con tutte le forze politiche che possono essere unite su obiettivi concreti, è
dovuta quindi al settarismo verso le masse, all'incapacità cioè di comprendere
attraverso quali strumenti e obiettivi l'azione tattica può fare avanzare il
disegno strategico. Dice Gramsci:
«... pensiero settario è quello per cui
non si riesce a vedere come il partito politico non sia solo l'organizzazione
tecnica del partito stesso, ma tutto il blocco sociale attivo di cui il partito
è la guida perché l'espressione necessaria» (Gramsci, Quaderni del Carcere, p.
1818).
Estorsione di
pluslavoro (Plusvalore) agli operai
salariati da parte dei capitalisti. Nella concezione marxista, lo sfruttamento
è inteso non soltanto in senso economico, ma serve a indicare le condizioni
generali di vita e l'impoverimento culturale e morale in cui si trova la classe
operaia nella società capitalistica.
Ne Il Capitale Marx sviluppò un'approfondita analisi delle cause dello
sfruttamento, che dimostrò essere condizione essenziale per la stessa
esistenza del modo di produzione capitalistico.
E' l'attività
tendente a sviluppare una politica di associazionismo sindacale tra i
lavoratori (Sindacato).
Nella storia del movimento operaio questo termine assunse un significato
particolare, in quanto si manifestarono soprattutto nei primi anni del '900
tendenze all'accentuazione del ruolo del sindacato che giunserofino al
punto di negare la necessità e la funzione del partito politico rivoluzionario.
Queste tendenze, che spesso si accompagnavano a quelle solo apparentemente
opposte che limitavano il ruolo dell'azione sindacale alla semplice lotta
economica (Economicismo), ebbero in Sorel uno dei più
importanti sostenitori e presero il nome di «sindacalismo rivoluzionario», che
ebbe un notevole sviluppo negli anni immediatamente precedenti la prima guerra
mondiale.
Questa concezione, che riteneva di potersi opporre alla guerra e di creare le
premesse della rivoluzione attraverso la proclamazione dello «sciopero generale
insurrezionale» con carattere internazionale, fu criticata dagli esponenti
marxisti del movimento operaio in quanto privava la classe operaia del suo
ruolo politico e della sua più esperta forma di organizzazione, il partito.
L'organizzazione
dei lavoratori che ne tutela gli interessi economici e normativi.
Sorto storicamente come movimento associativo per la difesa degli operai contro
le forme più brutali dello sfruttamento nel periodo della nascita del
capitalismo industriale moderno, il movimento sindacale ebbe una rapida
diffusione nei paesi maggiormente industrializzati. In particolare in
Inghilterra già nei primi anni del 1800, accanto a forme di lotta quali il luddismo, si costituirono associazioni che
assunsero il nome di «Trade unions», e avevano come scopo quello di tutelare le
condizioni di lavoro e di vita degli operai.
In Francia si formarono quasi contemporaneamente le Società di Mutuo Soccorso,
che si proponevano di aiutare economicamente i lavoratori più danneggiati dallo
sfruttamento o quelli che rimanevano senza lavoro a causa delle crisi economiche. Tali forme associative,
represse e ostacolate al loro sorgere, andarono tuttavia sempre più
estendendosi, conquistando diritti fondamentali per i lavoratori: limiti alla
giornata lavorativa, tutela del lavoro minorile e femminile.
Inoltre la necessità di forme organizzative all'interno del movimento operaio
favorì la partecipazione dei lavoratori alla lotta politica. Movimenti politici
quali il cartismo in Inghilterra e il blanquismo in Francia ebbero infatti
l'appoggio delle «coalizioni sindacali» dei rispettivi Paesi.
Tuttavia solo nella seconda metà del 1800 e agli inizi del 1900 si ebbe una
grande espansione delle organizzazioni sindacali, che andarono assumendo però
caratteristiche molto diverse nei vari paesi. Inoltre con il sorgere e il
consolidarsi dei partiti marxisti, si pose il problema del rapporto tra forme
organizzative e di lotta di carattere sindacale e partecipazione alle attività
politiche dei partiti espressi dal movimento operaio.
In Inghilterra prevalse una visione del sindacato come strumento di difesa
degli interessi economici degli operai, mediante forme rivendicative proprie
delle forze sindacali quali lo sciopero,
mentre l'attività politica venne demandata ai rappresentanti parlamentari del
Labour Party, costituitosi nel 1906, organizzato e finanziato dalla Trade
Union, che si era costituita a livello nazionale.
In Francia la presenza di forze sindacali di ispirazione diversa - i gruppi di
orientamento mutualista, quelli egualitari (babeuviani), quelli anarchici,
quelli marxisti e altri - rese estremamente complessa la formazione di una
rappresentanza sindacale unitaria e portò, inoltre, a una separazione tra
sindacato e partiti della classe operaia. All'inizio del 1900, infatti, si
poteva constatare all'interno della Confederazione Generale del Lavoro, che
raccoglieva i principali sindacati francesi, una scissione interna molto netta
tra sindacalisti riformisti e sindacalisti rivoluzionari. Lo sviluppo di
quest'ultima tendenza condusse alla rivendicazione di un ruolo del sindacato
totalmente autonomo e indipendente dai partiti nella lotta politica.
In Germania si giunse invece a un'alleanza organica tra il sindacato e il
partito socialdemocratico, fondata, tuttavia, sulla distinzione delle sfere
d'azione dei due organismi: il primo finalizzato alla lotta propriamente
economica e subordinato al secondo, che conduceva in Parlamento la lotta
politica.
Dato il prevalere all'interno della Seconda Internazionale (Internazionale) delle posizioni del
Partito Socialdemocratico tedesco (SPD) e dei capi delle potenti organizzazioni
sindacali operaie, sviluppatesi in Germania negli ultimi anni del 1800 e nei
primi decenni del 1900, tale distinzione fu accettata da tutti i movimenti
sindacali europei e si impose anche negli USA, nonostante le caratteristiche
molto diverse della nascita e dello sviluppo di quelle organizzazioni
sindacali.
La separazione tra i due ambiti, economico e politico, e quindi tra sindacato e
partito, era già stata criticata da Marx all'interno della Prima Internazionale
con la proposta, approvata negli Statuti generali del 1866, di fare dei
sindacati dei «centri di organizzazione della classe operaia». Analogamente
Lenin si contrappose alla posizione della Seconda Internazionale, affermando la
necessità di un'azione complementare tra sindacato e partito. Infatti se da un
lato egli riconosceva il compito fondamentale del sindacato nell'organizzazione
dei lavoratori, dall'altro sottolineava la necessità di un'azione educativa e
direttiva del partito:
«I sindacati, al principio dello
sviluppo del capitalismo, furono un gigantesco progresso per la classe operaia,
in quanto rappresentarono il passaggio dalla dispersione e dall'impotenza degli
operai ai primi germi dell'unione di classe … il proletariato, in nessun
paese del mondo non si è sviluppato, né poteva svilupparsi altrimenti che per
mezzo dei sindacati, per mezzo dell'azione reciproca tra sindacati e partito della
classe operaia» (Lenin, L'Estremismo malattia infantile del comunismo, p.
40).
In Italia in una prima fase nel movimento operaio si scontrarono due posizioni:
quella dei «riformisti», che riproponevano la distinzione e la subordinazione
del sindacato al partito nei termini in cui era stata formulata all'interno
della Seconda Internazionale, e quella contrapposta di coloro che rivendicavano
all'azione sindacale la soluzione di tutti i problemi della classe operaia (Massimalismo).
Con la nascita del PCI nel 1921 e la critica gramsciana tanto delle posizioni
riformiste, quanto di quelle del cosiddetto «sindacalismo rivoluzionario», il
rapporto sindacato-partito venne ponendosi, anche in Italia, nei termini di un
collegamento organico che permetta il realizzarsi dell'emancipazione della
classe operaia.
La posizione di Gramsci e del PCI fu determinante, inoltre, per mantenere vivo
il movimento sindacale durante il periodo delle repressioni fasciste (Fascismo), che miravano a trasformare le
organizzazioni sindacali in organismi corporativi (Corporativismo), al fine di indebolirne
l'opposizione al regime e alla classe che lo sosteneva.
Attualmente il sindacato italiano vede ancora aperto al suo interno il
dibattito sul rapporto con i partiti, accanto a quello sui modi con cui
ricostruire l'unità del movimento sindacale, sancita nel Patto di Roma il 3
giugno 1944, ma successivamente infranta col costituirsi, accanto alla CGIL, di
altre organizzazioni - CISL, UIL - e rappresentanze di categoria dei
lavoratori.
Questo
termine è divenuto corrente nel linguaggio politico da quando all'Assemblea
legislativa costituitasi in Francia nel 1791 i deputati di orientamento
progressista si sedettero nei banchi situati alla sinistra, mentre a destra
stava il gruppo dei Monarchici Costituzionali, e al centro erano situati i
cosiddetti deputati indipendenti, di orientamento politico incerto, che
formavano il gruppo denominato «la palude».
Da allora alla sinistra, nello schieramento politico, si collocano le
organizzazioni che rivendicano la necessità di una trasformazione della società
e che si contrappongono, in diversa misura, ai progetti di conservazione.
L'espressione sinistra storica contraddistinse, negli anni dal 1861 al
1876 in Italia, l'opposizione costituzionale di orientamento genericamente
mazziniano che, pur accettando di partecipare al parlamento nonostante il
permanere della monarchia, rivendicò il suffragio universale e l'unificazione
di Roma e del Veneto all'Italia. Nel 1876 andò al governo con Depretis, senza
tuttavia contrastare gli orientamenti politici generali che avevano
caratterizzato il periodo precedente. Depretis fu anzi l'iniziatore della
politica detta del trasformismo, in cui furono eliminate le distinzioni
ideologiche tra i due schieramenti.
Attualmente si indica con il termine sinistra ufficiale o tradizionale,
oppure usando ancora in modo improprio l'espressione sinistra storica, il
Partito Comunista Italiano e il Partito Socialista Italiano, per sottolineare
la lunga tradizione storica di questi partiti (il PSI è stato fondato nel 1892,
il PCI nel 1921). L'uso di queste espressioni riflette anche, in un certo
senso, il profondo legame che tali partiti hanno con la società italiana e con
le sue istituzioni.
Negli ultimi anni questi termini sono stati spesso usati al fine di operare una
distinzione con le forze politiche di sinistra recentemente formatesi. La
cosiddetta sinistra rivoluzionaria è l'insieme delle formazioni
politiche, prevalentemente giovanili, che sono nate con le grandi lotte operaie
e studentesche della seconda metà degli anni '60. Si definiscono rivoluzionarie
perché una delle loro caratteristiche principali è di affermare la possibilità
e la necessità di una rivoluzione sociale anche in Italia. Alcune di esse si
richiamano ai principi del marxismo-leninismo, che vengono ritenuti trascurati
o interpretati in modo inadeguato da parte delle altre organizzazioni della
sinistra.
La concezione
di Hegel fu diversamente interpretata nel periodo immediatamente successivo
alla sua morte dai suoi continuatori. Tra questi si distinguono una sinistra
hegeliana o Giovani hegeliani, e una destra hegeliana o Vecchi hegeliani: i
primi accentuarono in particolar modo gli aspetti critici della concezione
hegeliana, soprattutto nei confronti della religione e dell'assolutismo
politico; i secondi, il lato sistematico e conservatore dell'opera di Hegel.
Alla sinistra appartennero tra gli altri F. Strauss, B. Bauer, M. Stirner
(pseudonimo di J. Schmidt), M. Hess. Anche Feuerbach, il quale tuttavia viene
spesso considerato come parzialmente autonomo e originale nei confronti del
gruppo dei Giovani hegeliani in senso stretto, appartiene alla sinistra
hegeliana. Sul piano più propriamente politico i Giovani hegeliani pubblicarono
diverse riviste tra cui le più importanti furono, negli anni dal '41 al '43, i Deutsche
Jahrbücher (Annali tedeschi) di A. Ruge e altri, e nel '42 la Rheinische
Zeitung (Gazzetta renana) di orientamento liberal-radicale, di cui Marx fu
redattore capo.
Indipendentemente dalle differenze e dai contrasti tra i vari appartenenti alla
sinistra hegeliana, che ben presto si frantumò nelle concezioni autonome dei
singoli autori, il fermento culturale e politico di cui fu espressione ebbe
un'importanza notevolissima nella formazione intellettuale di Marx, che dedicò
molti dei suoi scritti giovanili alla critica di alcune concezioni di autori
appartenenti alla sinistra hegeliana: tra i più famosi, La Sacra Famiglia in
cui Marx criticò in particolare le concezioni di Bauer, Stirner e altri, e L'ideologia
tedesca, scritto in collaborazione con Engels nel 1845.
Questo
termine è solitamente usato dai classici per indicare la formazione economico sociale e
il modo di produzione nel suo
complesso, cioè l'insieme della struttura
e della sovrastruttura.
In alcune correnti del marxismo contemporaneo è usato per accentuare
particolarmente il carattere di onnipresenza dell'attuale capitalismo, le cui
leggi e i cui modi si spingono fino nella vita interiore degli uomini.
Nel
linguaggio politico si indicano con questo termine quelle correnti del
socialismo che accettano e anzi fanno propri i principi della democrazia
parlamentare e gli istituti liberali ad essa connessi, diversamente dalle
correnti più radicali e in particolare dal pensiero comunista, che -
denunciandone la natura di classe - ne rivendicano il superamento attraverso
una radicale rottura degli apparati statali borghesi e dei rapporti di
produzione capitalistici.
Storicamente all'interno del generale indirizzo socialdemocratico vanno
distinti movimenti e partiti con caratterizzazioni ideologiche e politiche
assai differenti, in relazione soprattutto alle diverse situazioni politiche ed
economiche nazionali. Nel linguaggio comune, col termine socialdemocrazia ci si
riferisce sia alle correnti più progressiste e democratiche del pensiero
politico borghese, disposte a una politica di riforme sociali e di sviluppo
democratico, sia a quei partiti che, sorti come espressione degli interessi
della classe operaia e dei suoi obiettivi socialisti e comunisti, attraverso
un'opera di revisione (Revisionismo)
integrale del marxismo, giunsero al riformismo
cioè alla rinuncia del superamento del sistema borghese, di cui accettavano
sostanzialmente le leggi e le conseguenze.
Se per tutto il sec. XIX i partiti socialdemocratici erano stati i
rappresentanti del proletariato e anzi il loro nascere e rafforzarsi, specie in
Germania, aveva coinciso con lo sviluppo teorico e organizzativo della classe
operaia, l'abbandono dei loro principi operato dai partiti della Seconda Internazionale e dai teorici del
revisionismo portò il riformismo socialdemocratico alla collaborazione con la
borghesia e alla subordinazione degli interessi proletari al capitalismo. Ciò
proprio nel momento in cui le trasformazioni della borghesia in senso
monopolistico e imperialistico causavano il più violento attacco alle
condizioni di vita, di lavoro e di lotta della classe operaia.
Mentre s'imponeva ai lavoratori una rinnovata e originale capacità di analisi
degli sviluppi del capitalismo e l'elaborazione di una tattica e di una strategia adeguate, la politica
socialdemocratica produceva non solo la rottura dell'unità della classe operaia
e l'isolamento politico della sua avanguardia, ma soprattutto ostacolava quel
processo di riformulazione teorica che soltanto con l'opera di Lenin e
l'esperienza rivoluzionaria bolscevica avrebbe trovato la sua espressione (Bolscevismo, Leninismo).
Fin dagli anni immediatamente successivi al primo dopoguerra i partiti
socialdemocratici rifiutarono l'esperienza sovietica e parteciparono
attivamente alla repressione dei movimenti comunisti, quando non la diressero
apertamente, come accadde in Germania (Spartachismo);
inizia in quello stesso periodo l'abbandono programmatico dei principi del
marxismo, giudicati ormai inadatti a comprendere i mutamenti delle condizioni
economiche, sociali e politiche sopravvenuti nel frattempo.
A questo atteggiamento non fece seguito alcuna nuova elaborazione che, in
qualche modo, fosse in grado di affrontare i problemi della società
contemporanea dal punto di vista di classe. Questi partiti si limitarono o a
riprendere concezioni premarxiste o ad accogliere quelle prodotte e diffuse in
nome e per conto delle classi al potere o, più semplicemente, a esercitare
un'attività politica non distinguibile da quella degli altri partiti borghesi.
Tendenza che si è poi sviluppata fino ad essere ormai comune a tutti i partiti
socialdemocratici contemporanei.
segue S